Nei primi mesi del 2014 si è molto parlato di loro. Diogo Mainardi, giornalista e scrittore brasiliano trapiantato a Venezia e suo figlio Tito, oggi quattordicenne, per diverso tempo hanno attirato l’attenzione dei media italiani grazie allo splendido libro La caduta, che Mainardi ha scritto per raccontare la vita della sua famiglia dopo la nascita di Tito, affetto da una paralisi cerebrale provocata da un errore medico durante il parto.
In questi giorni il libro esce in Spagna pubblicato da Anagrama (casa editrice oggi di proprietà di Feltrinelli) ed è proprio in occasione della conferenza stampa a Barcellona che incontro Diogo Mainardi per una chiacchierata, che si preannuncia simpatica già dalla stretta di mano di presentazione.
Del Brasile nativo lo scrittore conserva un’innata solarità accompagnata da una grande capacità di sdrammatizzazione, che si rivela nelle pagine del libro come durante la conversazione, costellata di battute pronunciate con l’inconfondibile accento della città dei dogi. Un’autoironia che ha senza dubbio trasmesso a suo figlio il quale, intervistato da Daria Bignardi nel programma Le invasione barbariche, rispose alla domanda «Perché ridi sempre?» con un laconico «Sono fatto così».
Jorge Herralde, storico protagonista dell’editoria iberica, fondatore di Anagrama, nel corso della presentazione di Mainardi ha definito La caduta un libro “inusuale, intelligente e molto colto”. Caratteristiche che senza dubbio si possono applicare anche al suo autore che in questo momento sta scrivendo un libro dedicato a Tiziano.
Diogo Mainardi con Jorge Herralde, storico editore spagnolo alla guida di Anagrama
Mainardi si rammarica pubblicamente di non essere venuto con Tito, come ha fatto in occasione di tutte le precedenti presentazioni, a causa degli impegni scolastici del ragazzino. Con grande ironia ammette di essersi annullato come persona, poiché ovunque vada a presentare il suo libro il vero protagonista resta suo figlio. «In fondo io sono qui solo per parlare di lui…».
Parliamone, allora.
Diogo, qual è stato il momento più emozionante dopo l’uscita de La Caduta in Italia?
Senza dubbio una lettura di Tiziano Scarpa (amico e traduttore del libro di Mainardi, ndr) a Venezia al teatro della Biblioteca Aquilini. C’erano tutte le persone che conosciamo, è stato un momento molto toccante, indimenticabile. E poi la partecipazione alle Invasioni Barbariche, che per noi è stata un’esperienza molto divertente. Da quel giorno Tito viene fermato per strada, gli chiedono di fare le foto insieme. Lui non è un bambino vanitoso, però ha molta autostima, abbiamo sempre cercato di trattare la sua disabilità in modo aperto, sdrammatizandola. In casa facciamo battute continuamente anche sulle sue incapacità fisiche. E lui sta al gioco.
Che cosa consiglieresti a una famiglia che oggi si trovi ad avere un neonato a cui viene diagnosticata la stessa invalidità di Tito?
Ogni caso è un caso a sé. Noi abbiamo conosciuto tante famiglie che si sono rotte a causa (o con il pretesto) del bimbo disabile. L’unica cosa che mi sento di consigliare è di goderselo, come abbiamo fatto noi con Tito. Io non potrei mai immaginare Tito diverso. Se mi dicessero “Porto via Tito e te lo rendo senza la paralisi cerebrale” io non glielo darei, io lo voglio così, mio figlio è quello.
La copertina dell’edizione spagnola de La caduta, pubblicata da Anagrama
Tito ha un fratello più piccolo, Nico, di cui parli anche nel libro. Com’è il rapporto tra i due. Non c’è gelosia da parte del più piccolo per il protagonismo di Tito?
No, hanno un rapporto assolutamente normale. E poi a quasi tutte le presentazioni siamo venuti insieme, si è spostata tutta la famiglia. Abbiamo convinto Nico che anche lui è un protagonista del libro.
Prima della nascita di Tito io ero un “anti tutto”. Antireligioso, antisentimentale, una persona assolutamente razionale. Con Tito, i primi sei anni sono stati di un amore inaspettato e travolgente, che mi ha sorpreso, poi le cose si sono normalizzate e l’amore padre-figlio ha cessato di essere quell’oggetto psicotico-religioso che era stato nei primi tempi. Quando questa relazione si è trasformata in qualcosa di più digeribile ho provato a ragionarci su. Ho avuto voglia di usare i miei strumenti letterari per scrivere la storia. Non ho avuto bisogno di fare ricerche, era già tutto dentro di me. È stato un libro nato senza sforzo, un libro che non avrei mai terminato se la storia non fosse finita per conto suo, con il chiudersi di una fase. Fosse stato per me avrei potuto continuare a scrivere fino ai quarant’anni di Tito.
Credo che i lettori, come me, si siano molto emozionati leggendo La Caduta. Ci sono frasi come “Sono il padre di Tito. Esisto solo perché esiste Tito” che non possono lasciare indifferenti. C’è stato un momento durante la scrittura in cui tu ti sei particolarmente emozionato?
Ascoltandoti leggere questa frase mi viene voglia di piangere (ma ridiamo, ndr), però durante la scrittura non c’era emozione, perché quando sentivo che la narrazione diventava troppo emotiva, “rompevo” immediatamente con una battuta o con qualche passo sdrammatizzante. Nel libro questo gioco tra emozione e distacco è costante.
Con Diogo dopo l’intervista
La cosa più bella che ti hanno detto sul libro?
Ce ne sono state tante, anche le cose che hai scritto tu sono bellissime (io sì mi emoziono, ndr). Per me è bello sapere che a Venezia, quando Tito va in giro da solo, gli chiedono di farsi delle foto con lui. Questa notorietà, che in sé non è importante, gli ha regalato molte più sicurezze su se stesso.
Tito ha letto il libro?
Sì, certo, ma si è annoiato con tanti riferimenti culturali difficili e con una storia che già conosce perché è la sua. Gli piace molto di più partecipare alle presentazioni. Un momento di soddisfazione per lui è stato quando in classe la professoressa ha deciso di leggere agli alunni la parte de La caduta in cui parlo del nazismo e della Shoa.
Che cosa è cambiato dopo l’uscita de La caduta?
È cambiato che mi sono riappropriato della mia vita. Mi sono riavvicinato al mio mondo, ai miei interessi. Nei primi anni di vita di Tito ho dovuto smettere di scrivere libri, sono tornato in Brasile per lavorare come giornalista e guadagnare denaro, vivevo un rapporto d’amore travolgente e assoluto con mio figlio, oggi sono tornato a essere di nuovo me stesso.
C’è una critica che ti ha infastidito?
Visto che in Brasile sono un oppositore di tutti i governi, c’è stata gente bassissima che ha detto che ho sfruttato mio figlio per farmi pubblicità o per darmi un’immagine di pulizia e di bontà. Qualche volta ho risposto, specie in alcuni blog che so essere finanziati dal governo. È l’unica cosa che mi può dare un po’ di fastidio, ma non più di tanto. Le reazioni al libro sono state ovunque molto belle.
Hai in progetto un libro su Tiziano, nessun romanzo?
Sì, non mi ricordare il libro su Tiziano perché sono in ritardo e il mio editor in Brasile lo sta aspettando! Romanzi, invece, no. Credo che dopo La caduta non scriverò mai più un romanzo. Quel libro è stata la cosa migliore che io abbia mai fatto, non credo di poter mai più raggiungere vette così alte. Per lo meno questi sono i miei piani, anche se si sa che nella vita i piani si possono sempre rivedere.
Nelle prime pagine de La caduta scrivi che il giorno del parto, avvicinandoti all’ospedale hai detto a tua moglie, spaventata dalla cattiva fama del nosocomio veneziano, che “con una facciata così accetteresti anche un figlio deforme”. Quante volte ti sei pentito di quella battuta?
Come vedi io cerco sempre di sdrammatizzare. Era un modo per distrarre mia moglie, la quale credo sia l’unica che oggi crede al potere divinatorio delle mie battute e mi proibisce di farne, non si sa mai…
Diogo Mainardi è uno degli scrittori testimonial della campagna pro-lettura #LeggerePerché. Guarda il suo video.
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