18 marzo 2014 • Interviste, Vetrina Cinema
Quarantasette anni, londinese, ma arrivata al successo con Lars Von Trier e il suo “Le onde del destino”. Subito una nomination all’Oscar, e poi un’altra, appena due anni dopo. Una carriera tutta giocata sulla scelta certosina dei ruoli da interpretare, sempre qualitativamente eccellenti. Pronta a sfidarsi, con quel sorriso appena celato tra le labbra sottili, e un fascino tutto british. Ecco il ritratto di Emily Watson, attrice che alterna ruoli da protagonista a quelli di caratterista, voce anche della timida sposina Victoria ne “La sposa cadavere”. Una di quelle che fa strada senza clamore, senza finire troppo sui rotocalchi, che se ne sta al suo posto e fa il suo lavoro, e lo sa fare bene.
Oggi è la burbera Frau Hubermann, nella trasposizione cinematografica del best seller “Storia di una ladra di libri”. Quasi mai un sorriso, un make-up di scena che la invecchia, che la rende più emaciata e scialba. Decisamente non un ruolo fashion per il quale si finisce sulle riviste patinate, ma per un’attrice come lei, una manna dal cielo, uno di quei ruoli per cui chi ha davvero talento trova stimoli continui.
Quando per la prima volta le è arrivata tra le mani la sceneggiatura, come ha reagito a questo personaggio così burbero?
Un personaggio come questo è un grane dono per un attore poiché ti consente di indossare una maschera e poi di rimuoverla per tirare fuori un altro aspetto del suo carattere. Quando ebbi la prima conversazione con Brian Percival, il regista del film, mi chiese cosa ne pensassi del personaggio di Rosa Hubermann, visto che per certi aspetti è anche bruttino… Ma io risposi solo “Sì, grazie!”.
Per “bruttino” si intende anche un personaggio per cui ha dovuto mettere da parte ogni fascino…
L’ho trovata un personaggio estremamente affascinante, anche perché bisogna pensare che le donne, all’epoca, erano tipicamente dimesse. Erano tutti abbigliati con abiti da poco e avevano un’aria sempre triste e severa, per via di tutto quello che era già successo durante la Prima Guerra Mondiale. Ovviamente c’era un senso di perdita, tutti avevano perso qualcosa. Le persone erano tutte arrabbiate e frustrate, combattevano contro la povertà. Non c’erano soldi e non si riusciva a vivere dignitosamente, quindi le persone erano sempre accigliate. Rosa poi è una donna che non vive mai nel presente quotidiano poiché è sempre carica, rispetto alle altre, di una ulteriore ansia, sempre preoccupata per quello che potrebbe succedere.
Emily Watson
Per certi versi sembra che si senta anche esposta, un obiettivo facile.
L’obiettivo primario dei nazionalsocialisti con lei era quello di coinvolgerla, di farla iscrivere al partito. Le dicono di andare dalla loro parte, dichiarandolo, far iscrivere suo marito, per avere una condizione di vita migliore, un lavoro, maggiori guadagni. Lei però, con tutti gli eventi che le capitano, alla fine si rivela una persona per bene, un essere umano che si rende conto di avere due giovani in famiglia e che vuole combattere per dar loro una vita migliore.
E come l’ha fatta sentire, come persona oltre che come attrice, vestire i dimessi panni di Rosa?
Per me è stato molto bello interpretare questo personaggio, molto liberatorio. Dopo qualche settimana dalla firma del contratto mi ero un po’ pentita, ma poi una volta sul set mi sono ricreduta subito. È stato estremamente importante e interessante. Lei è una donna molto rappresentativa dell’epoca. È sposata con un uomo dalla caratura morale considerevole e insieme prendono una decisione importante, giusta e coraggiosa.
A questo proposito, Rose ha un carattere doppio: ha un cuore d’oro, ma è sempre arcigna. Come ha lavorato su questo doppio registro?
Devo dire che essere sgradevole è qualcosa che mi riesce molto facile (ride). È stato semplice anche perché avevo recitato già in precedenza con Geoffrey Rush come marito e moglie nel film “Tu chiamami Peter”. Condividiamo anche lo stesso senso dell’umorismo e sapevo per certo che lui non se la sarebbe affatto presa se io fossi stata “cattiva” con lui. Alla fine c’è un centro di gravità familiare che è rappresentato da questa donna che non vive mai la realtà realmente com’è, ma continua a proiettare nella sua mente come sarebbero dovute andare le cose. Fino a che a un certo punto accade il grande evento e sulla porta di casa arriva questo ragazzo ebreo in fuga. In questa situazione di estremo pericolo, si sveglia, cambia completamente.
Ed entra in contatto con i suoi sentimenti…
Infatti sta persino per dire a Liesel che le vuole bene, ma non ci riesce. Però lo prova, lo sente molto, il cambiamento in lei è avvenuto.
Visto che la conferenza stampa a Roma è stata nel Giorno della Memoria, vorrei chiederle una riflessione in proposito.
Arrivando a Roma, nel tragitto dall’aeroporto all’hotel ho visto una cosa. Sulle palline di una fermata dell’autobus c’era disegnata una svastica sulla foto di Charlize Theron che pubblicizza un profumo. Continuando il tragitto ho notato che non è affatto un caso, che per tutta la città se ne trovano molti di questi disegni. La cosa mi ha sconvolto. L’ho trovata alquanto scioccante. Suppongo che una persona che traccia quel simbolo non sappia davvero ciò che sta facendo che di memoria al rigaurdo non ne abbia affatto. Tra l’altro, quando abbiamo iniziato a girare questo film, Sophie ci ha detto che i suoi amici non hanno la benché minima idea di cosa sia stato davvero l’Olocausto. Credo che ogni generazione abbia bisogno di una storia che li guidi per sapere ciò che è successo.
Quindi direbbe che questo è un film sull’Olocausto?
No, non credo. Come ha detto Brian Percival, questa è la storia di una ragazzina che vive in quel periodo, sotto le bombe. Non è una lezione di storia. Ma è un ottimo veicolo per i ragazzi della stessa età della protagonista per avvicinarsi alla storia e voler approfondire per capire ciò che è davvero accaduto. Così magari non ci saranno più degli imbecilli che tracciano svastiche per le strade senza capire cosa significa quel simbolo.
Di Federica Aliano per Oggialcinema.net
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