Intervista a Fabio Falchi, redattore di “Eurasia”

Creato il 18 aprile 2012 da Eurasia @eurasiarivista
:::: Fabio Falchi :::: 18 aprile, 2012 ::::  

A cura di N. Speranskaja e A. Bovdunov (Movimento Evrazija, Mosca)

D.- Qual è la tua visione del mondo di oggi e dell’attuale sistema globale? Lo reputi giusto? Se sì, perché? Altrimenti, come pensi che dovrebbe trasformarsi? Si sta già trasformando?

R.- Per rispondere a questa domanda, si deve tener conto che secondo Carl Schmitt lo spazio “vuoto”, neutro ed in-definito che segna l’inizio della talassocrazia inglese viene ad essere sostituito nel XX secolo dal nuovo spazio “globale” di-segnato dai moderni mezzi di comunicazione di massa e di trasporto. L’ hybris talassocratica degli inglesi cioè sfocerebbe nella conquista dell’aequor infinito dell’aria. Una concatenazione logica collegherebbe questi diversi momenti. E la potenza che li avrebbe compresi e fatti propri è la potenza egemone della nostra età: gli Stati Uniti. Ma in quanto espressione più coerente della illimitata volontà di potenza che caratterizza una talassocrazia, si tratta di una potenza che si fonda e non può non fondarsi sullo sradicamento di ogni altro ethos: perfetto “rovesciamento” dell’idea di “limite”, di “giusta misura”, che è a fondamento della Grecità e di conseguenza della civiltà europea. Una volontà di potenza che, scomparsa l’Unione Sovietica (che fungeva da katechon, poiché in qualche modo, “tratteneva” e impediva il dilagare del “negativo”) ha mostrato il suo vero volto, cercando di assoggettare tempi, luoghi e popoli “diversi”. E tuttavia, il furor dell’homo occidentalis, proprio perché si converte necessariamente nella distruzione di ogni prossimità, non può non incontrare la resistenza di chi non è disposto a svellere le proprie radici in cambio di una illusoria ed effimera libertà. Anche la potentissima macchina mediatica di Hollywood, sotto questo profilo, incontra (per fortuna) ostacoli insuperabili. Si spiega allora perché il “modello unipolare” neo-atlantista, a soli venti anni dalla caduta del muro di Berlino, è con ogni probabilità già fallito. Ciò significa che allo spazio omogeneo-totalitario della globalizzazione made in Usa, del “rizoma” perfettamente integrato nel mercato globale, che “fonda” la propria identità sulla negazione di ogni altra identità e di ogni altra differenza, è ancora possibile – e necessario se non ci si vuole “annullare” nella massa globalizzata ed eterodiretta dei “consumatori” – contrapporre tanto il “dia-logo” basato sul riconoscimento reciproco delle “differenti identità”, quanto il prendersi cura delle proprie radici.

D.- Cosa pensi delle idee di globalizzazione (ad esempio, un “mondo con governo unico”) o di una capacità di governo mondiale? È possibile o auspicabile?

R.- L’idea di un governo mondiale, oltre ad essere detestabile in sé, si basa sulla convinzione che il Politico e quindi il conflitto non siano il “destino” dell’uomo. Il che è manifestamente falso. Oggi invece si è presenza di nuovi attori geopolitici – i Brics, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, l’Unione Eurasiatica e naturalmente la stessa Unione Europea – che, se non hanno sostituito gli Stati nazione, certo sono la prova che questi ultimi sono ormai troppo piccoli per confrontarsi con le sfide del XXI secolo. Si conferma quindi la validità della Grossraumteorie sostenuta da Schmitt, secondo cui «tra l’unità del mondo, per ora utopica, e l’èra, passata, delle precedenti dimensioni spaziali si intercala per qualche tempo lo stadio della formazione dei grandi spazi» (L’unità del mondo e altri saggi). Il che, peraltro, induce Schmitt a valorizzare significativamente l’iconografia ( differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni e tradizioni) delle diverse entità poltitico-geografiche.

D.- È possibile un ordine multipolare? Come potrebbe delinearsi un mondo multipolare ai giorni d’oggi? Sarebbe preferibile a un mondo unipolare o bipolare? Se sì, perché?

R.- E’ alla fine degli anni Ottanta che atlantismo e sionismo si sono venuti a configurare come pilastri cardine del nuovo modello unipolare americano, allo scopo di imporre, su scala planetaria, la logica del “turbocapitalismo” e di impedire a nuovi “soggetti politici” di poter cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio. Oggi ci troviamo invece in un situazione contrassegnata dal fallimento dell’unipolarismo, ma senza che vi sia ancora un autentico multipolarismo. Ciononostante, è innegabile che, rispetto a due decenni fa, il ruolo degli Usa sia nettamente cambiato: la superpotenza protesa verso il dominio dell’Eurasia e quindi dell’intero pianeta, mostra di avere una base economica insufficiente per “sostenere” il gigantesco Warfare State che permette agli Usa di svolgere il ruolo di gendarme mondiale e poter così non solo continuare a finanziare il proprio debito con capitali stranieri, ma anche evitare che la “tendenza multipolare” che si va profilando sullo scacchiere globale possa mettere in discussione l’egemonia americana. Al riguardo, però occorre precisare che non si conosce nessuna legge della storia in base a cui si possa affermare che la talassocrazia americana sia sul punto di collassare. E’ invece lecito affermare che, con ogni probabilità, l’iniziativa strategica rimarrà saldamente nelle mani degli Usa, fino a quando non vi sarà un blocco di alleanze tale da interdire agli Stati Uniti l’accesso alle direttrici geostrategiche che consentono di dominare l’Eurasia.

D. Cosa descrive un “polo” nella teoria delle relazioni internazionali? Come colleghi il concetto di “polo” con altri concetti strutturali dell’analisi delle relazioni internazionali come “Stato sovrano” o “Impero” o “Civiltà”? La sovranità, intesa come concetto, è oggi messa in discussione dalla globalizzazione e dall’idea di governo mondiale? La Teoria delle Civiltà è un valido strumento nello studio delle relazioni internazionali?

R.- Di fatto, se in questi ultimi anni si è confermata l’ipotesi schmittiana della formazione di “grandi spazi”, intermedi tra lo Stato mondiale e i singoli Paesi, si è anche assistito, oltre alla “rinascita” della Russia dopo gli anni bui dell’era Eltsin, al consolidamento ed al rafforzamento di Stati nazione quali, ad esempio, la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia ed il Brasile; ossia ad un fenomeno storico che pare problematico definire “semplicemente” come una “specie di occidentalizzazione”. Ché sarebbe una definizione – al di là della relazione tra modernizzazione e “occidentalizzazione” e di quella tra modernità e postmodernità, o, in altre parole, al di là dei problemi concernenti l’essenza di quel che si intende per “Occidente” – certo assai poco convincente sotto l’aspetto politico; e non solo politico, giacché ciascuna di queste “resistenze” nei confronti del mercato globale è anche il “pro-dotto” di un determinato “sub-stratum culturale” che, nonostante le molteplici fratture che contrassegnano ogni tradizione, continua a condizionare la lotta politica e sociale. Del resto, la stessa “krisis europea”, in quanto è essenzialmente un fenomeno politico e culturale, non si è affatto risolta con la fine del socialismo (“reale” o no che fosse), come attesta il ripetersi, benché in modi diversi, del conflitto tra le esigenze di una “ragione pubblica” – interprete di “iconografie identitarie”, di legami comunitari e di molteplici mondi vitali e quindi in grado articolare un determinato “polo geopolitico – e gli interessi del “mondo occidentale”. Gli interessi cioè di un aberrante Wille zur Macht, che deve contrastare l’azione di quelle “energie storiche” che, sebbene siano latenti (perciò non immediatamente riconoscibili e tali da alimentare differenti e perfino “contraddittori” percorsi politici e culturali), costituiscono ancora un orizzonte di senso possibile, nettamente opposto rispetto al “caos organizzato” (la “geopolitica del caos” appunto) che “in-forma” il sistema di potere “occidentale”.

D. Come vedi il ruolo del tuo Paese in un possibile sistema multipolare?

R.- Se si prende in esame il nostro Paese, è evidente non solo che il degrado istituzionale è giunto al punto di minare le fondamenta stesse dello Stato, ma che i partiti non rappresentano altri interessi se non quelli di alcune lobbies, di cui fanno parte non pochi di coloro che dovrebbero servire lo Stato e che invece non si fanno alcuno scrupolo di porsi al servizio di potentati economici stranieri. Una situazione resa ancor più drammatica dalla crisi del debito pubblico, che ha portato al commissariamento dell’Italia, da parte della Bce e dei cosiddetti “mercati”, che paventano che la crisi dei “debiti sovrani” possa avviare un nuovo corso della politica europea, dato che non v’è dubbio che la soluzione della crisi – intesa come “krisis”, cioè come scelta, “decisione” – consiste nel riconoscere che l’indipendenza del continente europeo dagli Usa è condicio sine qua non di ogni altra autonomia dei popoli europei. In questa prospettiva, il futuro del nostro Paese sembrerebbe già deciso. Nondimeno, com’è noto, si tratta di una crisi che concerne l’intera Europa e che è connessa al declino “relativo” degli Stati Uniti, di cui è parte costitutiva lo stesso sistema finanziario. Pertanto, è logico che l’attrito, l’eterogenesi dei fini, le lotte all’interno del gruppo dominante e tra i subdominanti, le scelte che inevitabilmente l’Europa dovrà fare per evitare di collassare e la necessità di confrontarsi con nuove “realtà geopolitiche” possano “interagire” in modo del tutto imprevedibile con la crisi dell’unipolarismo americano. In ogni caso, se, come giustamente sostiene Aleksandr Dugin, l’alternativa all’atlantismo e al liberalismo si deve cercare non nel passato, qualunque esso sia, bensì nel futuro, allora non è affatto impossibile che quel che oggi pare essere “destinato” alla sconfitta, possa invece capovolgere la situazione a proprio vantaggio. Vale a dire che non è affatto impossibile che si producano delle condizioni che permettano di contrapporre alla “pre-potenza” dell’atlantismo ed ai “mercati sovrani” i diritti e la sovranità delle genti dell’Eurasia. Se così fosse però non sarebbe l’Economico, ma il Politico a “decidere”. Ed è questo forse l’unico motivo per cui, nonostante tutto, vale ancora la pena di continuare a lottare per un’Italia “diversa”, in un prospettiva non solo europea, ma anche e soprattutto eurasiatica.

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