Ciao Gianni, benvenuto nella mia rubrica settimanale “Liriche Prog”. Recentemente ho scritto un’esegesi poetica dell’Introduzione del disco Ys del tuo Balletto di Bronzo, che io stesso ho definito “la massima espressione del Prog sperimentale italiano, un album che, mentre molti gruppi del periodo stavano cercando di imitare i maestri britannici, ha creato una rivoluzione sonora degna di girare al contrario i vettori della didattica” (leggi Liriche Prog #18). Le musiche sono tutte di tua composizione. All’epoca, quando il Progressive si chiamava ancora “Pop Italiano”, vi siete accorti immediatamente di aver sfoderato un capolavoro? In quale modo venivano trattate certe espressioni di massima avanguardia dal pubblico e dalla critica?
Noi ci sentivamo, eravamo ed eravamo considerati dei marziani. Quando tu sei un adolescente è eccitante sentirti diverso, poi ognuno segue la sua natura. Io da bambino volevo fare cose stravaganti, volevo andare contro le convenzioni, ce l’ho nel sangue. Mi piaceva molto il dark prima ancora che uscisse il dark. Mi travestivo, facevo cose folli, uscivo vestito da vampiro, ero un ragazzino un po’ esaltato. La mia camera era tempestata di teschi e bambole impiccate… e stiamo parlando di un bambino, poco più che un bambino. Quella che per me può essere la normalità, per altri può sembrare qualcosa di scandaloso, ma io sono semplicemente me stesso. All’epoca facevo quello che mi andava di fare, anche perchè ero il più giovane di tutti. Il Balletto di Bronzo, in piena crisi di identità dopo l’uscita di Sirio 2222, venne a cercarmi proprio perchè avevo delle idee musicali pazzesche, così influenzai il gruppo con il mio modo di essere dark. Ripeto: per me era tutto normale, però mi rendevo conto di essere considerato un marziano. Io possiedo un diario che aggiornavo molto spesso negli anni ’70 e posso dirti che rileggendo le cose che scrivevo dopo i concerti c’è un elemento ricorrente, ovvero che la gente mi sembrava “paralizzata” di fronte alle nostre performance. Il pubblico non era sempre estroverso come si crede. Quando suonavamo al Carta Vetrata di Bollate, tempio Prog del periodo, c’era un pubblico talmente in balia delle droghe che alla fine di ogni brano rimaneva in trance… specialmente dopo pezzi come Terzo Incontro, dove ci sono volutamente delle parti psichedeliche e ipnotiche che, durante i live, protraevo all’infinito con un solo di hammond. Perfino Ivan Cattaneo, nel 1973, rimase scioccato dalla nostra immagine e dalla nostra proposta. Non trascurare che all’epoca eravamo completamente disinteressati all’opinione altrui: ci bastava essere consapevoli di fare la cosa giusta poiché stavamo esprimendo noi stessi. Io in particolare ero al corrente della mia diversità e me ne vantavo. Non mi ponevo proprio il problema di cosa dicesse la critica, anche perché le riviste specializzate erano pochissime, si aveva la sensazione che fosse ancora tutto da fare.
Con il disco “Vero”, uscito a metà degli anni ’70, ti sei affermato come solista con lo pseudonimo LeoNero. Le composizioni sono nate durante i tuoi numerosi viaggi in Inghilterra e negli Stati Uniti, viaggi in cui hai avuto modo di suonare con i grandi talenti del periodo e di frequentare il leggendario Hotel Chelsea. A distanza di diversi decenni, ricordi con più emotività il geniale esordio con il Balletto oppure l’eclettico percorso come solista?
È difficile dare una risposta poiché con il Balletto di Bronzo feci un solo album, poi quando uscì il 45 giri con da un lato La tua casa comoda e dall’altro Donna Vittoria decisi di diventare solista perché suonai tutti gli strumenti, ad eccezione della batteria (suonata dal carissimo amico Gianchi Stringa, il miglior batterista della mia vita). In quell’occasione, contestualmente allo scioglimento del gruppo, capii che avrei potuto fare tutto da solo. Fu quando Gianchi partì per l’Olanda che iniziai concretamente a pensare a Vero, il mio primo album come LeoNero. Personalmente rimasi così male per la fine del Balletto di Bronzo che inizialmente avevo categoricamente deciso di non suonare più con altri musicisti: scelta che ho coerentemente portato avanti sino agli inizi degli anni novanta. Con il Balletto mi sentivo membro di un gruppo, era bella quell’atmosfera dell’uno per tutti, tutti per uno, eravamo dei pionieri uniti dallo stesso obiettivo. Alcuni brani di Vero come La discesa nel cervello, Il Castello e Tastiere isteriche sono prettamente Prog e avevo iniziato a comporli per il nuovo disco del Balletto che, malauguratamente, non è mai uscito. Non ho mai più ritrovato nella mia vita quel meraviglioso impatto di salire sul palco in quattro, con quell’energia e quella carica comunicativa. Dopo lo scioglimento ho sempre avuto la sensazione di esibirmi da solo, nonostante le mie innumerevoli collaborazioni. Il periodo LeoNero, questo va detto, mi ha dato la felicità di sentirmi un artista completo, poiché mi occupavo delle composizioni, degli arrangiamenti e dell’esecuzione in solitudine. Inoltre da solista ho percepito una vera e propria evoluzione che si è sviluppata nel tempo. Negli anni ho maturato una vena cantautorale di cui sono molto orgoglioso (sia chiaro: non sto parlando di canzonette d’amore) e, onestamente, oggi mi piace considerarmi più cantante che tastierista. Il disco Monitor, ad esempio, ha anticipato di gran lunga il ritorno al revival anni ’60 che, in seguito, sarebbe stato approfondito da Ivan Cattaneo: altro progresso sonoro che ho costruito da solo. Tuttavia, per darti una risposta rigorosa, posso dirti che voglio essere apprezzato artisticamente per quello che sono oggi. Non amo guardare al passato, non mi piace soffermarmi sull’elemento “tempo” e detesto la nostalgia. Vivo nel presente e del futuro non me ne frega niente perché potrebbe anche non esserci.
Dopo lo scioglimento del Balletto di Bronzo, negli anni della tua carriera da solista, hai raggiunto i tuoi vecchi compagni del gruppo che avevano aperto uno studio di registrazione a Stoccolma (Humlan). Da lì ti sei spostato a Vienna, prima ancora nel profondo occidente e, come ben sappiamo, in Giappone: il paese che attualmente sta valorizzando il Prog Italico più di qualunque altro. Quali sensazioni porti dentro dopo tutte le tue esibizioni all’estero, sicuramente più acclamate di quelle avvenute nell’ingrato stivale?
Le mie sensazioni sono mutate negli anni. Mi spiego meglio. Nel ’99 uscì un cd del Balletto intitolato Trys: un gioco di parole tra trio e Ys, in quanto a suonare con me sul disco e in concerto c’erano un bassista e un batterista. Fu il primo cd del Balletto dopo lo scioglimento e venne pubblicato dalla Mellow Records di Mauro Moroni. Poche settimane dopo l’uscita mi arrabbiai moltissimo con il produttore poiché, a mio avviso, lui non stava facendo nulla per pubblicizzare il lavoro. Così Moroni mi mise in contatto con Robert LaDuca, organizzatore del NearFest, che ci invitò a suonare negli Stati Uniti e, di lì a poco, fui contattato da molti altri organizzatori che ci fecero esibire in Messico, in Cile, in Brasile e in Giappone. Ovunque, in ogni angolo del mondo, la gente era incredibilmente entusiasta di assistere ai nostri concerti. Allora io pensai: “dove eravate tutti?!”. Vidi per la prima volta un caloroso pubblico che non sapevo di avere. Venivano a prenderci negli aeroporti con le auto di lusso e le guardie del corpo, mentre i fan cercavano di farsi autografare il vinile di Ys. Rimasi davvero sorpreso. Io per decenni avevo completamente odiato la musica a causa degli scontri con quei beceri sfruttatori italiani, con i viscidi produttori. Sono stato perfino molestato da vecchi porci che volevano mettermi le mani addosso con la scusa di promettere la produzione di un nuovo album. Per cui le mie sensazioni, in ordine, furono la sorpresa, la gioia enorme e infine l’incazzatura: non facevo altro che chiedere a quel nuovo pubblico dove diavolo fosse mentre io, in Italia, mi lasciavo rosicchiare dagli imbroglioni. Considera anche che fino al 1995 non ho percepito nemmeno una lira di diritti, poiché Ys era depositato in SIAE a nome di Nora Mazzocchi (zia dell’ex cantante Marco Cecioni, n.d.r.). Il perchè attualmente il Prog Italico sia apprezzato di più all’estero che a casa nostra è un grande enigma; spesso rispondo a questa domanda dicendo che dobbiamo rassegnarci perché siamo italiani, noi non abbiamo il Rock nella nostra cultura. Siamo riusciti a dare una nostra interpretazione del Rock, che è tuttora apprezzata in giro per il mondo, ma non lo abbiamo inventato. Ad esempio nel brano Secondo Incontro, del quale ho completamente improvvisato la melodia vocale in studio di registrazione, si sente molto l’identità melodica del sound italiano: elemento di cui gli ascoltatori stranieri vanno pazzi, mentre per noi è consuetudine. Tra l’altro, per concludere questa risposta, lascia che ti faccia una confidenza: mi fa sorridere che alcuni gruppi di scalzacani del Prog italiano, che all’epoca copiavano noi, oggi vanno a suonare in Giappone e si fanno paragonare ai gruppi di Serie A, assurdità che probabilmente dipende dall’idealizzazione: altro agente che senza dubbio gonfia il gradimento mondiale per il nostro Prog.
Più volte, parlando del Balletto di Bronzo con i veri intenditori del Prog, ho sentito citare un casale di Rimini in cui il gruppo ha abitato nei tempi d’oro. Si raccontano diversi aneddoti sulla quotidianità e sulle vicende che accadevano in quel luogo… alcune molto pittoresche. Come era, o come voleva essere, lo spirito di assoluta condivisione creato durante un’esperienza così singolare?
L’idea nacque da un’esigenza: noi eravamo napoletani ma suonavamo molto spesso al nord. Quindi decidemmo di andare a vivere tutti insieme in un punto geograficamente strategico. Inizialmente avevamo adocchiato un castello alle porte di Milano, poi il progetto sfumò e ci trasferimmo quindi nel casale di Rimini. Ricordo perfettamente che in quel periodo le discoteche dell’Emilia Romagna facevano suonare i gruppi Progressive: una cosa del tutto assurda se si pensa ai tempi moderni. Noi, i marziani, suonavamo nelle località balneari ed eravamo sostenuti dalle major che ci proponevano contratti di cinque anni. Un altro universo, in pratica, se ancora non ho reso l’idea. In quel casale creammo il nostro mondo, una cosa impossibile da realizzare vivendo separati. Purtroppo, però, in quei due anni trascorsi insieme ci lasciammo rapire dalla totale follia. Il guaio, il disastro, fu che gli altri componenti del gruppo portarono le loro dolcissime fidanzatine a vivere con noi. Noi facevamo follie di ogni tipo e le ragazze avevano da ridire, poiché vivevano in mezzo a gente che si bucava, che vomitava… ripeto, la follia totale. Viavai, ladri, gente accampata, qualsiasi cosa, un manicomio da film che a me stava bene, perché all’epoca ero affascinato da ogni esperienza estrema. Per me era una via per rompere con le consuetudini, dato che fino ad allora ero stato una specie di principino proveniente da una buona famiglia. Per me vivere così era una protesta contro il bigottismo e le convenzioni. Ricordo che quando venne a trovarci il Banco quello che rimase scioccato più di tutti fu Francesco Di Giacomo, soprattutto perchè il batterista Gianchi gli si presentò indossando gli slippini di una delle sue amanti ed anche perché io, già ateo convinto, ruppi in mille pezzi la statuetta di una Madonnina che mia madre mi aveva spedito insieme a dei viveri… immagini di inequivocabile e ostentata pazzia. Non mangiavamo, non dormivamo: la missione era quella di spingerci oltre ogni limite. Presto, ovviamente, gli eccessi divennero troppi e con questo stile di vita uccidemmo la nostra creatività. Fortunatamente io ero immune ai danni creati dalle fidanzatine, perché ho sempre orgogliosamente preferito la solitudine. Diciamo che quelle ragazze, pensando alla storia dei Beatles, furono le nostre Yoko Ono. Infine, esasperati, abbandonammo il casale e, come già si è detto, ci separammo per sempre.
Dire “Rock Progressive” oggi, stando alle collettive interpretazioni di cui mi sono accorto in questi anni, significa citare la branchia più intellettuale del Rock, la “musica difficile”, la maniera autoreferenziale di suonare in un certo modo che, come nel Jazz, sembra far innamorare soltanto chi la suona. Eppure il Pop Italiano, ai tempi d’oro, raggiungeva le piazze. Mi vengono in mente alcuni eventi come Parco Lambro, oppure il concerto degli Area di fronte a centinaia di “matti” in libertà per celebrare il successo del Decreto Basaglia… insomma: tutto ciò mi fa pensare a qualcosa che appartenesse più alla gente che ai salotti accademici. Secondo te che cosa ha costretto il Prog a limitarsi ad una nicchia così ristretta, per giunta tenuta in piedi da ascoltatori di continenti lontani anziché da noi che abbiamo partorito questa musica? Dove è inciampato il potenziale comunicativo del Prog nostrano?
Non so dirti perchè. Ai festival Pop, dove c’erano folle oceaniche, i giovani venivano a sentire la nostra musica poiché noi eravamo l’alternativa alle canzonette commerciali. Probabilmente la colpa è nostra se siamo diventati una nicchia così ristretta. Nel 2010 scrissi un articolo intitolato “1975: fuga dal Progressive” in cui spiegai perché presi le distanze da un certo Prog ampolloso, noioso, barocco e autoreferenziale. Iniziai ad essere infastidito da una certa ostentazione… ad esempio da chi indossava orribili mantelli, da chi si presentava sul palco con quarantasette tastiere, da chi si prendeva terribilmente sul serio. Lungaggini, assoli chilometrici, ridondanze: tutto ciò iniziò davvero a stufarmi. Inoltre i tempi, prima o poi, cambiano. A me piace ricordare che la fine del Progressive coincise con l’avvento di un genere musicale che sul momento disprezzai moltissimo per poi, qualche anno dopo, cambiare idea: la disco music (quella ben suonata). Dopo tante esagerazioni barocche arrivò finalmente la cassa in quattro e la proposta non era niente male poiché i pezzi erano suonati dai musicisti, non dai dj. Infatti molti batteristi, durante quel passaggio, si dettero una regolata perchè capirono che si poteva fare a meno di loro usando la drum machine: una trasformazione storica. Improvvisamente le ritmiche dei “batteristi frullatori” mi suonarono vecchie e inascoltabili. Così, come io fuggii dal Progressive, probabilmente anche il pubblico fece lo stesso per la voglia di andare in discoteca a ballare, a rintracciare la spensieratezza senza più percepire la musica come un qualcosa di pesante. In breve: arrivò l’edonismo, e non nego di esserci andato anche io nelle discoteche a divertirmi. Oggi il Prog è tenuto in piedi da due categorie di ascoltatori: i nostalgici e quelli che non hanno vissuto gli anni ’70 ma che hanno compiuto un percorso di ascolto a ritroso… sicuramente sottoposti ad un enorme pericolo di idealizzazione, come ho già detto prima. Oggi non c’è assolutamente spazio per proporre il Prog; solamente un paio di etichette irriducibili resistono, come la Black Widow o la Mellow Records, ma gli altri discografici riderebbero in faccia ad un musicista desideroso di incidere un disco dall’ascolto così difficile: questa è completamente un’altra epoca.
Chris Cutler, fondatore degli Henry Cow e della corrente RIO, durante uno dei primi concerti diffuse un volantino con su scritto: “l’indipendenza è un primo passo valido solo se seguirà la rivoluzione”. L’obiettivo era quello di creare un punto di riferimento musicale per chi volesse emanciparsi dal business del mercato discografico. Quale fu, a tuo avviso, il tassello mancante per trasformare gli anni ’70 in un contesto di cambiamento permanente? Perchè dopo tutti quegli sforzi arrivò la decadenza degli anni ’80, al di là del desiderio di edonismo?
In un certo senso ti ho già risposto, ma potrei approfondire dicendoti che il Prog, per l’appunto, diventò una caricatura di se stesso: dannosa involuzione che impedì significativamente al pubblico di sostenere la forte passione manifestata nei seventies. A questo proposito, sempre parlando di come i gruppi Prog siano diventati pesanti e presuntuosi, posso confidarti che ci sono due caratteristiche del Balletto di Bronzo di cui sono sempre stato orgoglioso e che gli altri gruppi non hanno mai avuto: il glamour e l’autoironia. Dico glamour perché l’occhio vuole la sua parte (non ho mai accettato quei gruppi che salgono sul palco vestiti come se fossero al supermercato, poiché anche quella, a suo modo, è una bieca e inutile ostentazione). Che tu lo voglia o meno, che tu ne sia consapevole o meno, quando sali sul palco sei un artista e quindi devi offrire qualcosa anche sul piano visivo.
Gianni… abbi pazienza, ma questa risposta mi ha un po’ sconvolto. Voglio dire: io sono sempre stato orgoglioso degli artisti Prog proprio perché hanno preso le distanze dal “circo” del Rock’n Roll e da quei finti musicisti che puntano tutto sull’immagine poiché non hanno nulla da dire…
Ma dai… ci siamo forse dimenticati di tutti quei sontuosi travestimenti nei concerti Progressive?
No, ma un conto è travestirsi sapendo suonare bene, un altro conto è travestirsi e basta…
Certo Marco, ma uno deve anche saper prendere le cose con ironia e distacco. Nel momento in cui una persona un po’ egocentrica sale sul palco è normale che voglia trasmettere il suo stile. Se hai un certo gusto estetico ti viene spontaneo trattare il corpo umano come un qualcosa da valorizzare. Considerare il proprio corpo come un’opera d’arte è un impulso naturale, un mezzo espressivo. Bisogna imparare a distinguere. Se io vedo un artista che ha storia, autorevolezza, bravura ma che cura anche il suo lato estetico in un modo stimolante e originale io sono più soddisfatto. Perchè limitarsi al solo strumento? Chi ha pagato il biglietto per venirti a sentire vuole sognare. Poi è vero, c’è gente che fa canzonette insulse e insipide e che, volendo comunicare con un pubblico di ragazzini, non cura affatto i contenuti ma solo il look: su questo hai pienamente ragione. Ma si tratta di fenomeni commerciali studiati a tavolino. Tuttavia, parlando degli anni ’80, mi trovo costretto a ripetere che mentre venivano fuori quei tipi con i capelli ossigenati che facevano musica orribile, il Prog si ostinava a diventare sempre più serioso: fu quello il vero fallimento. Il concetto dell’esagerazione si manifestò da entrambe le parti, seppur in modi diversi. Poi gli ambienti musicali sono tanti e variegati. Il jazzista, ad esempio, va sul palco con i pantalonacci sdruciti e il golfino sfilato ma va benissimo così, perchè ti fa sognare attraverso quello che fa. Nel Jazz non c’è una tradizione visiva, nel Rock invece sì… e non possiamo fare finta di niente. All’inizio degli anni ’70 io indossavo solo ed esclusivamente abiti di scena, anche per andare a fare la spesa. Era la mia identità artistica e umana, non c’era finzione, non c’era il personaggio. Ero io, ero così. Oggi è diverso, amo indossare qualsiasi cosa, durante la quotidianità uso vestiti normali e per nulla eccentrici. Applico sempre il mio buon gusto nella scelta degli indumenti, nonostante sia diventato più semplice… ma il punto è che non mi sognerei mai di salire sul palco abbigliato in modo quotidiano. Quando mi esibisco mi diverte indossare i vestiti che io stesso disegno, perché rappresentano il mio stile e rafforzano il mio messaggio. Tu puoi essere anche il brutto anatroccolo… ma sul palcoscenico diventerai l’oscuro oggetto del desiderio del tuo pubblico. Come può farti sognare un artista sciatto? A tutto questo aggiungi che, anche nella quotidianità, gli inestetismi mi intristiscono: detesto vedere della gente brutta, la bruttezza è una cosa che mi angoscia, sono ossessionato dal bello.
Alberto Gaviglio, chitarrista della Locanda delle Fate, in un’intervista mi ha confidato di aver rifiutato “l’operazione nostalgia del fenomeno reunion” poiché avrebbe preferito comporre cose nuove anziché continuare a proporre sempre il solito disco amato dai fan storici. Tu, che a 43 anni dell’uscita di Ys continui ad eseguirlo interamente in ogni angolo del mondo, come ti poni di fronte a questa affermazione? La tua è nostalgia o rinnovato godimento?
Come ti ho detto all’inizio non sono affatto una persona nostalgica. Ho ricominciato a girare il mondo suonando Ys perché mi andava di farlo. Era una sfida: nella maggior parte dei casi con il passare del tempo si cambia in peggio, nel senso che solitamente si perdono la grinta e l’entusiasmo, per me invece è stato il contrario. Sono cresciuto musicalmente, soprattutto come cantante: non ho più la vocina che si sente nel disco… e tra l’altro all’epoca non ero nemmeno in grado di fare un vibrato. Adesso posso godere nuovamente di quelle musiche senza la minima ombra di nostalgia. Sono d’accordissimo con Gaviglio e chiaramente sono alle prese con un rinnovato godimento. Quando oggi suono i brani del Balletto (riarrangiati ma non stravolti) godo molto, ma adoro anche rendermi eclettico. Spesso mi esibisco come Gianni Leone e faccio brani dalla discografia del gruppo, alcuni dei miei pezzi da solista e perfino delle cover. Mi diverto parecchio quando faccio I’ll never love this way again di Dionne Warwick: proprio io, nemico dell’amore e da sempre single convinto, ho inserito nel repertorio una canzone così dolce e melensa. Infatti prendo pubblicamente le distanze dal testo: semplicemente mi piace suonarlo e cantarlo e il pubblico apprezza la mia interpretazione, anche perchè la eseguo nella sua tonalità originale e tutti rimangono colpiti da questo. È una cosa che ha affascinato molto anche alcuni colleghi: noi a volte ci riuniamo al Casanova, il locale del fonico del Banco, dove c’è un bel palco e spesso capita di suonare insieme. Comunque confermo che la mia attuale dimensione artistica è, a tutti gli effetti, un rinnovato godimento: tante emozioni forti e indipendenza dall’opinione altrui. Quando uscì Trys la critica si complimentò proprio perchè non ero scivolato nel revival. Senza stravolgere il repertorio del Balletto ero riuscito ad emanciparmi dalle sonorità vecchie. Ma in democrazia trovano spazio anche le coglionate: un giornalista, o meglio un gatto morto, scrisse che avevo tradito il Progressive… ma quasi tutti, fortunatamente, apprezzarono il mio spirito di ricerca e di innovazione.
Durante la telefonata che ha preceduto questa intervista mi hai parlato dell’emancipazione sessuale e dell’originalità stilistica degli anni ’70. Mi hai detto che sessualmente si era molto più liberi quaranta anni fa e che, ormai, le manifestazioni di protesta hanno perso qualunque valore poiché presto “anche le suore Orsoline sfoggeranno dei tatuaggi”. Sono pienamente d’accordo con te ma, avendo vissuto solamente una delle due epoche, mi appello alla tua esperienza: quali sono, a tuo avviso, le motivazioni che hanno portato la società a numerosi cambiamenti in peggio?
Anche questa non è una risposta facile da dare. Erano anni di grandi fermenti, di rivoluzione, di femminismo, c’era una forte volontà di andare contro le convenzioni. Quindi si andava allegri e sgallettati alla ricerca del sesso libero, anche perchè non c’era il pericolo dell’AIDS. Il rischio più grande era quello di contrarre la gonorrea… facilmente curabile con una terapia antibiotica. Le nostre amiche andavano sulle spiagge pubbliche a seno nudo, mentre oggi sembra di stare nel medioevo. I costumi non si sono evoluti come si crede, in verità tutto è regredito. Nel 2015 non si dovrebbe parlare di Gay Pride e di emancipazione della donna. C’è una massa becera di gente che vuole continuare a vivere nel medioevo. C’era più libertà e più apertura all’epoca, c’era una positiva atmosfera di promiscuità. Tutto iniziò a finire quando prese piede la violenta propaganda mediatica contro l’AIDS (giustissima, poiché ognuno di noi aveva degli amici morti per colpa di questa malattia), infatti negli anni ’80 eravamo tutti un po’ terrorizzati. Ricordo che rimasi sconvolto quando nel 1985 Fernando Aiuti disse che ci sarebbero voluti almeno cinque anni per avere un vaccino: ne sono trascorsi trenta e di vaccino ancora non se ne parla, ma almeno esistono dei farmaci che permettono di monitorare a vita l’immonda infezione, mentre all’epoca si moriva. Personalmente diventai il paladino del preservativo, andavo a distribuire i condom alle feste. Lo spettro di questa infezione influenzò negativamente la mia vita perchè molto presto, già quando nel ’70 arrivò in Italia il documentario di Woodstock, avevo scoperto che la massima libertà poteva essere la mia unica strada. Devo constatare con tristezza e disappunto che questi anni duemila non sono assolutamente come li immaginavo. Speravo in una società libera e liberata, invece vedo ancora molto bigottismo. Inoltre l’invasione islamica è molto pericolosa dopo gli sforzi che abbiamo fatto negli anni ’70, perché quella è una cultura che rischia di riportarci all’età delle caverne. L’integralismo è molto pericoloso, in tutti i sensi. Mai abbassare la guardia: bisogna scendere in piazza per ragioni vere, non come fanno gli ipocriti del Family Day, che poi hanno l’amante oppure vanno a trans e minorenni… roba da sputargli in faccia. Ed è meglio prendere le distanze anche da quei prelati pedofili che gettano fango sugli omosessuali, forse perchè coltivano il desiderio recondito di andarci loro al Gay Pride, magari con le chiappe al vento e le piume di marabù, a differenza di molti gay assolutamente sobri. È orrendo sentirsi repressi e discriminati fin dalla nascita: l’evoluzione della società è l’unica via verso un cambiamento in positivo. Per questa ragione cerco sempre di portare la gente in piazza con me.
Ci sono parecchi tuoi aforismi che mi hanno sensibilmente colpito. Questo in particolare: “Gli occhi della gente mi strisciano addosso e giorno dopo giorno mi sciupano: come pioggia e vento con lavoro paziente e inesorabile erodono il fusto delle marmoree colonne di un tempio antico e cancellano per sempre i lineamenti alle statue millenarie”. Potresti spiegare ai lettori di Liriche Prog quale fu di preciso l’inquietudine che ti portò a maturare questa affermazione?
Scrissi questo aforisma qualche decennio fa, non è recente, ma già all’epoca avevo questa visione. Ci sono parecchie persone inutili e dannose che mi fanno sentire vampirizzato, individui che sono accanto a noi. Ci rubano la fiducia e le energie… insomma: parassiti. Potresti trovarti in mezzo a gente apparentemente tranquilla, invece chissà quante insidie si nascondono dietro quei volti. Sguardi che invece di arricchirti passano della carta abrasiva sul tuo viso, fagotti che ingombrano il tuo cammino. Viviamo in una società strana, sovraffollata e abbiamo paura di chiunque, perchè il nostro vicino di casa potrebbe essere un serial killer ricercato. Per cui ci proteggiamo, mettiamo le grate alla finestra, le saracinesche di metallo, diffidiamo di ciascun essere umano. Con il tempo il perseverare di quegli sguardi inutili può modificare la tua stessa fisionomia. L’aforisma è forse un po’ immodesto, ma descrive benissimo lo stato d’animo che volevo trasmettere. Mi è sempre piaciuto dimostrare di non essere proprio la persona più umile del mondo, oppure autocelebrarmi, ma solo chi mi conosce bene coglie l’ironia di questo atteggiamento. Chi non mi conosce, in genere, ritiene che io sia un pavone pieno di sé. Negli anni, dopo aver maturato un grande senso dell’umorismo, ho capito di potermi permettere un po’ di egocentrismo, spesso autoironico. Forse è proprio grazie a questa consapevolezza del mio modo di essere se sono riuscito a non farmi modificare da tutti quegli sguardi che, anziché darmi qualcosa, cercavano di erodermi.
Ti saluto con una domanda irriverente, forse troppo… ma muoio dalla voglia di fartela. Immagina di trovarti a cena con tutte le personalità musicali che hanno abbandonato il Prog per dedicarsi alla musica commerciale: Alan Sorrenti, Giancarlo Golzi, Franco Battiato, i Pooh, eccetera. Tu duro e puro, fino alla fine, loro invece in balia del compromesso. Cosa diresti loro apertamente, lasciandoti guidare senza paura dall’amore per quella Musica che denigra il Dio Denaro?
Questa è divertente. Dunque. Per quanto riguarda Alan Sorrenti ricordo di essere stato presente al suo primo exploit canoro in assoluto; eravamo in un localino di Napoli, Le Lanterne, in cui mi esibivo spesso con i Città Frontale (nucleo originaro degli Osanna, nonché il mio primo complesso). Salì sul palco questo ragazzino ed eseguì Mr. Moonshine dei Fat Mattress. Di lì a poco, per un periodo, lui ebbe il mio stesso produttore, tale Corrado Bacchelli. Una sera, in occasione del Festival delle Avanguardie e delle Nuove Tendenze allo stadio dei Marmi di Roma, si esibirono le migliori band Prog della scena (era il 1972) tra cui, chiaramente, il Balletto. Ad un tratto uscì sul palco Alan Sorrenti, con i capelli lunghi e un foulard legato al manico della chitarra: fu sommerso da fischi e pernacchie e tornò dietro le quinte a piangere sulla spalla di Corrado. Aveva stonato come nessun cantante nella storia. Bacchelli lo portò in California e sparì per un po’… poi dopo qualche anno venne fuori con Figli delle stelle e fu ripudiato da tutti gli estimatori del Prog. La cosa non mi sconvolse più di tanto… ma ciò che mi creò disappunto fu vedere che, per raggiungere meglio il suo nuovo pubblico e per accrescere l’eco commerciale, accettò di fare il finto gay sotto la guida del suo nuovo direttore artistico Cesare Zucca, che era omosessuale. E la cosa gli riuscì decisamente male, si vedeva chiaramente quanto fosse artefatta la sua immagine. Attualmente so che è tornato in Italia e sta facendo dei concerti un po’ ibridi alla ricerca delle sue radici Prog. Sua sorella, Jenny, verrà con me a Tokyo il prossimo luglio: io e lei ci siamo ritrovati dopo esserci persi di vista per molto tempo e i rapporti sono ottimi. Giancarlo Golzi invece non lo conosco, però con i Matia Bazar ha fatto delle cose non disprezzabili, ad eccezione di qualche successo decisamente inascoltabile… ma massimo rispetto da parte mia. Franco Battiato fece da spalla al Balletto di Bronzo nel 1973 con i brani di Pollution. In quel periodo ero così pieno di me che non mi curavo di ascoltare gli altri, davo per scontato che la loro proposta fosse più banale della mia. Ero molto fanatico. Ricordo comunque che non mi colpì particolarmente. C’è da dire che esteticamente la sua era una figura interessante, era un personaggio… ma con l’invecchiamento si è preso troppo sul serio. Sale sul palco credendosi una specie di santone. Ogni singola sillaba deve essere accompagnata da un gesto ieratico… è un po’ eccessivo, diciamo così. Tuttavia ho apprezzato molto la protesta contro la musica commerciale che ha condotto negli anni ’80. Dei Pooh, per concludere, ricordo quell’estate in cui arrivò la voce che il batterista de Il Punto, tale Stefano D’Orazio, era passato da Il Punto (quartetto Prog romano) ai Pooh… ed io rimasi scandalizzato. In quel caso anche io esclamai “costui ha tradito il Prog!”. Poi conoscevo anche Red Canzian perché prima suonava con i Capsicum Red, gruppo con cui abbiamo condiviso diversi palchi nei primi seventies. In generale posso dirti che non ho mai criticato più di tanto chi è passato dal Prog alla musica commerciale, poiché probabilmente si è trattato di un’esigenza espressiva che ciascuno di quegli artisti coltivava da tempo… quindi è giusto che sia andata così. Loro fanno ciò che vogliono fare, mi auguro che non sia solamente una schiavitù dal denaro. Ho sempre sostenuto che in natura la gazzella rimane gazzella e il leone rimane leone: per questo io non sono mai diventato come loro, nonostante mai nessuno mi abbia dato un cachet da un milione di dollari… che accetterei e meriterei. Non sono mai stato una mignotta della musica che prima di parlare della biscroma pensava ai soldi, detto questo non critico coloro che hanno scelto una strada più redditizia. Se io mi mettessi al pianoforte e mi venisse fuori una melodia alla Ramazzotti mi autocensurerei, perchè ho un’altra sensibilità espressiva. Infatti, come dico sempre a Gianchi, io oggi sarei un pessimo produttore, perché solitamente i dischi italiani che scalano le classifiche non mi piacciono: non potrei mai curarli, né sponsorizzarli, né metterci la faccia.
Gianni, grazie di cuore per questa lunga e interessante chiacchierata. Buona musica!
Grazie a te Marco! Colgo l’occasione per segnalare ai lettori di Liriche Prog un blog dedicato a me che si chiama ProgWalls, creato e curato dal caro amico Beppe Carelli. Buona musica anche a te!Marco Frattaallblues_kind@yahoo.it