Dal 1967 lavora a Roma, città nella quale ha raggiunto la piena maturità artistica facendosi apprezzare per un' indomita passione per il suo mestiere, passione che lo ha subito reso un punto di riferimento per moltissimi gentleman capitolini e non.
Un maestro dell’eleganza svela un po’ di sé e della sua arte sulle nostre pagine regalandoci così l’atmosfera magica che si respira nella sua sartoria.
Buona scelta
IBD
Dobbiamo ringraziare Alfredo de Giglio e quindi Stilemaschile.it per le fotografie e la collaborazione alla realizzazione di questa intervista.
Perché ha scelto questo mestiere?
A 10, 11, 12 anni ma sovente anche prima, non c’era possibilità di scegliere. In quel periodo, in un contesto storico sicuramente meno ricco e di soldi e di possibilità di oggi (nonostante la crisi), infatti, non c’era spazio per assecondare le inclinazioni naturali di ognuno. Si lavorava non per realizzarsi ma per mangiare. Erano tempi umili mache insegnavano molto circa i valori di un uomo: il sacrificio, l’etica del lavoro, il rispetto del cliente, il portare avanti una propria ‘missione’ di vita.
Così, come dicevo all’inizio, a 10 anni, sesto di sei fratelli, mio padre decise di mandarmi a bottega da uno dei grandi maestri sarti dell’epoca, amico di famiglia, Alberto Cocurullo. Erano gli anni 40 e 50 a Sorrento, dove sono nato.
Comunque posso ritenermi fortunato perché in me, evidentemente, c’era in nuce una predisposizione per l’arte sartoriale che ho verificato con il tempo e che ho cercato di nobilitare in tutti questi lunghi anni di lavoro.
Stiamo vivendo una involuzione. Ci sono alcuni superstiti che si richiamano alla vecchia concezione di ‘uomo elegante’ ma sono pochi. Per fortuna, questi pochi stanno facendo proseliti e così in bottega arrivano giovani desiderosi di esperienze e conoscenze sartoriali. La gran massa, però, continua un percorso che pare senza soluzione di continuità e votato all’ignoranza e alla volgarità. Uso questi termini perché un amante della sartoria è in generale un uomo curioso a tutto tondo, colto e in cerca di occasioni per arricchire il proprio bagaglio di esperienze.
In conclusione, oggi la clientela è meno numerosa di un tempo (parlo degli anni 50 e 60) ma forse più difficile da accontentare, perché di alto livello.
Il mio lavoro è un connubio tra sartoria inglese e quella napoletana. Una mia giacca non è rigida come quella inglese (al contrario non uso mai spalline) ma restituisce forme e armonia in maniera naturale. La forma esterna, così rilevante nella sartoria anglosassone, viene così unita alla comodità napoletana. Se prende un mio doppiopetto, capo che più di ogni altro esprime il meglio del mio lavoro, nota come le proporzioni, la geometria interna ed esterna della giacca siano in tutto echi del mondo d’oltremanica. Ma una volta indossata esce prepotente l’anima napoletana.
Il cliente. C'è chi ne sa molto e chi ne sa poco. Come si deve comportare il sarto in entrambi i casi?
Con tutti si instaura un dialogo che può essere di approfondimento con l’esperto, che ama i dettagli ed è pieno di dubbi positivi da sciogliere, e di conoscenza con il novizio, che ha invece dubbi negativi, pieni di insicurezze. In entrambi i casi il sarto deve saper ascoltare ma mai nascondersi dietro la committenza. Se una cosa non mi piace la dico chiaramente. Sbaglia chi accontenta ciecamente i propri clienti: se dalle sartoria sono uscite ed escono fotocopie di brutti capi di confezione è colpa di troppa arrendevolezza da parte nostra. I sarti, sempre di meno, hanno una missione precisa alla difesa del classico e dell’uomo elegante. Va bene qualche stravaganza ma mai cedere al cattivo gusto.
Le stoffe mi piacciono molto. Amo i tessuti di un certo peso, con una consistenza visiva e tattile. Secchi, caldi, con personalità. Nel corso degli anni ne ho accumulati. Non moltissimi, ma alcuni che mi vengono richiesti dai grandi intenditori. È una soddisfazione doppia perché oltre ad offrire tessuti che non si trovano più in commercio, riesco ad accontentare uomini molto esigenti. E per un sarto riuscire a soddisfare tale tipologia di clientela è sempre un successo.
Purtroppo, con l’appiattimento dei gusti che stiamo vivendo, molti dei tessuti più belli e storici dell’abbigliamento maschile sono estinti per sempre.
Giacca, pantaloni, cappotti: può lasciarci un suo pensiero su ognuno di essi, su come dovrebbero essere e quali caratteristiche avere per un uomo di gusto?
Giacca: asciutta, fasciata in vita e adagiata sulle spalle, non forza né altera la silouhette del cliente. Può avere la manica a mappina, tipica napoletana o anche più all’inglese. Baveri di personalità, mai timidi. Rifiniture all’altezza. E sempre, spalle senza spalline.
Pantaloni: filanti, passanti al di sotto della linea della cintura, bottoni nei risvolti per permettere un’accurata pulizia, cuciture fatte a mano durevoli nel tempo. Anche qui, dettagli rilevanti che danno personalità.
Cappotto: ricco, appagante, caldo. Un doppiopetto, un ulster ad esempio, che nobilita la figura e le dona personalità.
Cosa ha perso l'uomo nel vestire?
Tanto, troppo. La sua identità virile e il gusto del gioco della vita.
Giovane, tra i 30 e i 45 anni perlopiù. Curiosa, competente, attenta e sempre stimolante.
Le nuove generazioni sono interessate all'abito sartoriale?
Diciamo che ci sono dati di crescita incoraggianti. Stufi dell’omologazione senza gusto, si cerca qualcosa di valore, fatta a mano con stile e sensibilità estetica. Soprattutto, quello che piace è la totale personalizzazione dell’abito.
Qual è la cosa che non vorrebbe mai che si smettesse di pensare quando si parla di un capo Celentano?
Un mio capo deve trasmettere due ‘sentimenti’: artigianalità e autenticità, intesa etimologicamente come realizzazione di valore e personalità, fatta da un autore certo e riconoscibile.