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E adesso parliamo di politica
Intervista: Una visione dicotomica del mondo
È proprio la complessità delle persone che fa maturare il pensiero e può cambiare la società
Il mondo non è fatto solo di ciò che si vede. È una battuta del drama televisivo [Going My Home] di cui Kore-eda Hirokazu – il regista internazionalmente acclamato, vincitore fra l’altro, del Premio della Giuria al Festival di Cannes con il film Soshite chichi ni naru [Like Father, Like Son] – ha curato anche la sceneggiatura. Amici e nemici. Vincitori e vinti. Abbiamo chiesto a Kore-eda come vede questo Giappone in cui sembra regnare una visione dicotomica delle cose.
Lei ha aderito alla “Libera iniziativa delle persone del mondo del cinema che si oppongono alla bozza di legge sulla protezione dei segreti speciali” costituita a dicembre dello scorso anno [Riferimento alla discussa legge limitativa della libertà di comunicazione approvata in Giappone alla fine del 2013].
Come individuo che vive nella società, ho una responsabilità.
Non si è preoccupato di venire etichettato come “rosso”?
Solo in Giappone passa inosservato questo modo anomalo di considerare le cose. Quando giro un film o lavoro per la televisione, io vorrei contribuire a costruire una società ricca e matura in cui possano convivere, rispettandosi reciprocamente, persone che hanno valori diversi. Perciò se lo Stato o i nazionalisti tentano di reprimere la nostra diversità, alziamo la voce. È una cosa naturale. Non è ideologia.
Non pensa di fare un documentario di denuncia sulla politica e la società giapponese? Se fatto da un regista internazionalmente famoso come lei potrebbe anche cambiare l’atmosfera in Giappone.
Le faccio un esempio. Il violento atto d’accusa contro il governo Bush fatto da Michael Moore con il suo Fahrenheit 9/11 avrà di certo impressionato tante persone. Tuttavia, io penso che il vero documentario debba essere essenzialmente qualcosa che fa maturare il pensiero di chi lo vede. Quando guarda un documentario di pura denuncia, la gente certamente si compiace, può anche risvegliare la propria rabbia e questo magari potrebbe persino cambiare la direzione del vento nella società. Ma fare un film che abbia come obiettivo in sé questi esiti, penso sia fuori strada.
A un incontro a cui ho partecipato, il poeta Tanikawa Shuntarō ha detto chiaramente che “la poesia non è auto-espressione”. La poesia non esprime ciò che abbiamo dentro ma descrive lo stupore dell’incontro con la ricchezza delle cose del mondo o con la complessità dell’uomo. Ecco, credo che per le immagini sia esattamente la stessa cosa. L’atto di filmare è già in sé una scoperta, un incontro. Una poesia o un messaggio non esistono nell’interiorità del loro autore ma nel mondo esterno. Il documentario è uno dei mezzi per cogliere la poesia o il messaggio. Con il documentario, prima del cambiamento sociale deve esserci il cambiamento interiore, se preesiste una finalità da parte di chi filma, anche se sostenuto dalla più nobile delle intenzioni, quello non è più documentario.
Allora che cos’è?
Si possono anche fare dei documentari che criticano direttamente il governo Abe [attuale Primo Ministro giapponese]. Tuttavia, la questione essenziale su cui dobbiamo riflettere è cosa sia questa superficialità che sta alla radice del nostro sostegno ad Abe e cosa occorra fare sul lungo periodo per far maturare i giapponesi e la società.
Questa superficialità. Lei cosa pensa che sia?
Tempo fa, Takanohana, il lottatore di sumo, si fece male al ginocchio destro ma pur essendo a pezzi vinse l’incontro decisivo di quel torneo contro Musashimaru. Il primo ministro di allora, Koizumi, esclamò “Sono commosso! Hai sopportato il dolore e hai fatto l’impossibile!” e tutto il Giappone si rispecchiò gongolante. Io, invece, ascoltandolo pensai “non mi piace questo politico”. Perché non ha detto nulla di Musashimaru? Poteva almeno dire qualcosa tipo “Tutti e due hanno dato il meglio”. Per Musashimaru, che è straniero, dev’essere stato piuttosto difficile combattere contro l’idolo nazionale Takanohana ferito a un ginocchio. Cosa avranno provato sentendo quelle parole Musashimaru e le persone che facevano il tifo per lui? Penso sia estremamente importante per un uomo politico prestare attenzione a cose di questo genere. Ma nell’attuale scena politica giapponese questa generosità di vedute manca completamente.
Per esempio, un politico che viene eletto con il sessanta per cento dei voti dovrebbe pensare anche all’altro quaranta per cento e cercare di condurre una politica per ottenere il consenso anche di questi elettori. Non è proprio perché deve affrontare un compito così difficile che gli viene conferito il potere e ha un’indennità parlamentare così alta? Ma da qualche tempo la politica è diventata qualcosa che chi vince le elezioni conduce a suo piacimento. Questo modo di concepire la politica è sbagliato. La democrazia non è la stessa cosa della decisione a maggioranza.
La gente applaude i politici che dichiarano continuamente il loro “vero sentire”, senza preoccuparsi minimamente del fatto che ci sono persone a cui possa non piacere. Ma da quando la politica è diventata un affare così facile e comodo? I politici non possono godere a loro piacimento della “libertà di espressione”, ma piuttosto la devono garantire a noi cittadini. Per questo, le esternazioni dei politici dovrebbero essere fatte con misura.
Però, non solo il mondo politico ma l’intera società è quasi dominata dall’idea: “Se non vinci, sei finito.”
Nella vita ci sono vittorie che non hanno valore e sconfitte che hanno valore. Ovviamente tutti desiderano una vittoria che ha valore. Però se esistessero soltanto queste due alternative, io sceglierei la sconfitta che ha valore. Il mio intento è di mostrare che esistono anche persone di questo tipo. C’è chi tifa per Musashimaru e chi in diverse circostanze non riesce ad avere lo spirito della festa. Credo che stimolare la capacità della gente di immaginare quel restante quaranta per cento sia il ruolo dei film o dei romanzi. Questo è ciò che ho in mente nel mio lavoro.
Ma in Giappone, dove la pressione del conformismo è fortissima, secondo me la gente non riesce mai ad avere l’occasione per pensare con la propria testa. La paura di esprimere il proprio parere è così forte che la capacità critica si è ormai molto indebolita. La conseguenza di questo fenomeno per quanto riguarda il cinema è che vi sono solo commenti confortevoli tipo “Ho pianto!”, “Quattro stelle!” Manca completamente l’abitudine a considerare criticamente un film e a tessere un ragionamento per esprimere le proprie idee su di esso. È un discorso che non si ferma al cinema ma che riguarda anche altri campi, come appunto la politica.
L’anno scorso, in occasione della presentazione in sala di Soshite chichi ni naru, molti mi hanno chiesto “Alla fine che scelte hanno fatto i protagonisti?” Poiché ho costruito la scena finale senza spiegarla con i dialoghi, il pubblico era rimasto con un vago senso di insoddisfazione. Anziché provare a immaginare da soli ciò che non viene mostrato e riflettere sul futuro delle due famiglie, volevano sentirsi rassicurati dalla risposta “corretta” del regista. Bene o male che sia, queste reazioni all’estero non ci sono. Allo stesso modo, i giornalisti e i critici giapponesi mi chiedono spesso “Qual è il messaggio che ha voluto trasmettere con questo film?”, ma anche questo all’estero non me lo chiedono quasi mai.
Davvero?
Non solo non me lo chiedono ma mi è anche capitato che una volta un giornalista russo mi dicesse “Forse non te ne rendi conto, ma tu dipingi persone abbandonate o scartate. Questa è la tua visione di base”. Effettivamente è così. Ho sempre voluto filmare storie di “abbandonati”. Non è incredibile? Invece in Giappone l’opinione della maggioranza viene ritenuta senza un particolare motivo l’opinione corretta e i film che hanno più stelle sono considerati i film che vale la pena di vedere. Le ragioni di questa “superficialità” sono più di una. Non c’è altro da fare che “approfondire” un po’ alla volta, ognuno nel suo piccolo, cercando di pensare con la propria testa e di agire autonomamente.
Vuole filmare gli “abbandonati”?
Un giorno vorrei fare un film sugli emigrati giapponesi in Brasile. Erano stati “abbandonati” dal loro paese ma quando scoppiò la seconda guerra mondiale diventarono dei puritani, cioè degli ultranazionalisti. Privi di qualunque informazione sull’andamento della guerra, non seppero neppure della sconfitta del Giappone e anche quando ne sentirono parlare non ci credettero. Arrivarono addirittura a uccidere i loro compagni che sostenevano che il Giappone era stato sconfitto dicendo che erano “antipatriottici”. Non le sembra che assomigli alla situazione attuale? Le vittime abbandonate dalla patria che diventano a loro volta carnefici. Vorrei provare a dipingere cosa successe quando le vittime abbandonate dalla patria passarono dalla parte dei carnefici.
Lo psichiatra Noda Masaaki fa notare che poiché la cultura include anche la storia dei carnefici, bisogna trasmetterla correttamente alle generazioni che verranno. È esattamente così. Nella storia di qualunque paese ci sono parti oscure. Le persone che vivono nella nostra epoca devono accettarlo. Ciononostante, la maggior parte della gente non lo accetta e dimentica. Anche per l’incidente alla prima centrale nucleare di Fukushima della TEPCO [Tokyo Electric Power Company] sta succedendo la stessa cosa. La gente sta tornando a spassarsela dicendo “la situazione è sotto controllo” ed esultando per le prossime Olimpiadi di Tokyo. È una cosa da non credersi.
L’attuale problema del Giappone è che tutti quanti partono dal vittimismo. Il regista Ōshima Nagisa criticò radicalmente Ventiquattro pupille di Kinoshita Keisuke. È proprio perché rispettava molto Kinoshita che Ōshima odiò così tanto sia quel film basato sul vittimismo sia i “bravi” giapponesi che piangevano nel guardarlo. La guerra era forse venuta da fuori? No, non è così. È anche per far riemergere la consapevolezza che la guerra nacque dal nostro interno che vorrei fare un film sugli aspetti criminosi della storia del Giappone che non sia basato sul vittimismo. Perché tutti tendono a dimenticarlo. Credo che qualcuno debba farlo.
[Intervista di Takahashi Junko – Traduzione di Franco Picollo&Hiromi Yagi]