Per l’ottavo numero della rivista “Fralerighe – Fantastico” ho avuto il piacere di intervistare Luca Tarenzi, che ha da poco pubblicato il romanzo “Godbreaker” con Salani.
Luca Tarenzi è un trentasettenne disordinato e scarmigliato, alto un metro e una carota, con la faccia da messicano e i capelli da hippie. La gente tende a ricordarselo soprattutto per le sue pessime abitudini, quali ridere a sproposito, mentire sorridendo, parlare da solo a voce altissima, stonare canzoni metal e giurare che non si metterà in giacca e cravatta nemmeno se lo invitano al funerale di un capo di stato.
Siccome oltre che andare in giro a far casino deve anche mangiare, in passato è stato un redattore giornalistico, un pet-sitter e una guida turistica; oggi fa il traduttore e il consulente editoriale, e più o meno una volta l’anno scrive un libro.
- Parlaci di “Godbreaker”, il tuo nuovo romanzo.
- Autopromuoviti. Perché i lettori dovrebbero leggere “Godbreaker”?
Eh no, io detesto dire alla gente “Leggete i miei libri, sono belli”! Allora diciamo che “Godbreaker” è un urban fantasy puro, e quindi spero piaccia a chi ama l’urban fantasy: c’è il nostro mondo e c’è la magia, ci sono dèi fattoni, mostri mitologici, leggende metropolitane che prendono vita, abbondante uso di droghe psichedeliche a fini deleteri e tutte le citazioni nerd che sono riuscito a infilarci. C’è violenza, c’è epica, c’è umanità e c’è ironia (almeno spero). Se tutto questo vi smuove attenzione sì, oso dire che “Godbreaker” potrebbe piacervi.
- Nel 2010 Asengard ha pubblicato “Il Sentiero di Legno e Sangue”, un romanzo molto interessante sotto vari punti di vista. Come mai hai scelto di rivisitare proprio Pinocchio?
Da piccolo Pinocchio mi faceva incazzare a morte. Sul serio. Non c’era nulla in quella storia – personaggi, dialoghi, situazioni – che non riuscisse in un modo o nell’altro a provocarmi irritazione. A modo suo, è il racconto per l’infanzia che mi ha smosso più emozioni, anche se forse non proprio nella direzione che intendeva Collodi. Quando sono cresciuto ho afferrato anche altro della storia, ad esempio la dimensione del racconto iniziatico, ma non ho mai smesso di avere un rapporto quantomeno ambiguo con quel libro. Poi mi è capitato di leggere il bellissimo “The Alchemy of Stone” di Ekaterina Sedia, e ho pensato che, se mai avessi scritto una storia weird, sarebbe stata un Pinocchio pensato in quei termini. E quando l’ho fatto mi sono reso conto che Collodi aveva già fatto l’80% del lavoro al posto mio: c’era già tutto quel che serviva!
- “Il Sentiero di Legno e Sangue” è ascrivibile all’originalissimo sottogenere New Weird. Cosa ti affascina di questo filone? Pensi di scrivere altro di simile in futuro?
Il bello del Weird è che nessuno ti può dire cosa metterci. È il fantastico sommamente liberante e totalmente liberato. Se vuoi rendere reale una metafora, mescolare le forme delle cose, incarnare gli incubi e nello stesso tempo citare la Bibbia, Guerre Stellari e Rita Pavone (sì, c’è anche lei nel “Sentiero”) non solo nessuno te lo impedirà ma ti diranno pure che hai fatto bene!
Sul weird ho letto e sentito molto più di quanto avrei voluto, ma i discorsi sul sense of wonder o sul potere di distorsione della realtà francamente non mi interessano. Io do ragione a China Miéville quando diceva “Io scrivo perché mi piace creare mostri fichi!”
Al momento comunque non ho in programma altre storie su quel filone – anche perché in Italia chi te le pubblica? – ma questo non esclude a priori che possa decidere di tornarci, prima o poi.
Sinceramente, in maniera poco spettacolare. Nel 2009 avevo pubblicato con l’editrice Alacran un urban fantasy intitolato “Le Due Lune”, che raccontava la storia di un lupo mannaro – anzi una lupa mannara – a Milano. Le redattrici di Mondi Fantastici Salani, che già mi conoscevano perché avevo collaborato con loro come traduttore, lo hanno letto e con mia notevole sorpresa mi hanno chiamato per dirmi “Bello il tuo libro! Perché non ne fai uno anche per noi?”
Una smodata, insana e insradicabile passione per gli angeli. Oggi il romance li ha resi di moda, ma erano la mia ossessione già vent’anni fa, quando al liceo leggevo i vangeli apocrifi e il Libro di Enoch e andavo in fissa per queste creature potentissime e disobbedienti, che servivano Dio ma erano tutto meno che buone, che scappavano sulla Terra perché trovavano sexy le donne umane, che talvolta per eseguire un ordine scatenavano un massacro e altre volte per fare di testa loro finivano precipitate giù dal Cielo. Avevo già scritto storie di angeli anni prima del “Diavolo”, ma gli editori mi avevano sempre risposto che da noi non c’era mercato per quel genere di fantasy, che era troppo americano, che il pubblico italiano non lo conosceva. Poi sono arrivati l’ondata dei romanzi a tema e telefilm come “Supernatural” (di cui sono un fan impenitente e non me ne vergogno nemmeno un po’!) e di botto gli editori non hanno avuto più nulla da protestare, anzi.
- Hai scritto “Saint Vicious” per l’antologia di racconti “Sanctuary” (Asengard, 2009) e “Il Re, l’Angelo e il Serpente” per “Stirpe Angelica” (Edizioni della Sera, 2010). Preferisci scrivere romanzi o racconti? Cosa cambia nel tuo modo di approcciarti alla scrittura?
Una volta Neil Gaiman ha detto qualcosa del tipo (sto citando a memoria, quindi se sbaglio sapete perché) “I racconti brevi sono una figata perché ti trasportano in un altro mondo e ti riportano a casa prima della fine della pausa pranzo”. Ok, non era esattamente questa la frase, ma il concetto lo avete capito. Per scrivere un bel racconto serve un’idea forte. Alla stregua, anche più forte di quella su cui si può costruire un romanzo. Perché non c’è spazio per girarci intorno, bisogna riuscire a essere super-diretti ma a fare effetto comunque. Scrivere un bel racconto di quindicimila battute può essere più difficile che sviluppare un romanzo di trecento pagine, oppure può uscire di getto ed essere strafico comunque. Per questo credo fermamente che il processo di creazione di un racconto sia più misterioso di quello di un romanzo. E per lo stesso motivo, tante volte ho meno paura ad affrontare un romanzo che un racconto. Diciamo che di solito decido di scrivere un racconto solo se sono convinto che l’idea di base sia fottutamente buona. In tutta la vita (adulta) ho scritto forse una dozzina di racconti.
- Cos’ha in comune “Godbreaker” con le tue opere precedenti? E quali sono le principali differenze stilistiche e strutturali?
“Godbreaker” è il diretto continuatore de “Le Due Lune” e di “Quando Il Diavolo Ti Accarezza”. Ci sono le stesse ambientazioni (Milano in testa a tutte), personaggi ricorrenti – i protagonisti del “Le due lune” facevano una comparsata nel “Diavolo”, e i protagonisti del “Diavolo” fanno una comparsata in “Godbreaker” – e pur trattandosi di storie del tutto indipendenti c’è anche una specie di trama orizzontale che va avanti da un libro all’altro. In queste storie tento di conservare sempre determinate atmosfere, di costruire una mitologia coerente, di usare la stessa vena ironica. L’unica differenza che a me sembra rilevante è che nella storia che racconto in “Godbreaker” la posta in gioco è più ampia, e quindi lo sono anche i poteri soprannaturali coinvolti.
- Nei tuoi romanzi ci sono dei personaggi che ti rispecchiano?
Se posso ricorrere ancora una volta al trucco della citazione, William Gibson diceva che il primo romanzo di un autore è sempre il più autobiografico. Nel mio caso in effetti è vero, ma penso di poter dire che l’autobiografismo l’ho esaurito tutto lì. E attenzione, “penso di poterlo dire” ma poi gli altri mi dicono che ho torto marcio! Di base non uso scientemente me stesso per tratteggiare un personaggio, però i lettori mi dicono sempre che somiglio a questo o a quello. A questo punto potrei nascondermi dietro un “Ma succede a tutti gli scrittori!”, ma servirebbe?
Nella mia esperienza, nell’avvicinare i personaggi esistono fondamentalmente due tipi di scrittori: quelli che trovano un personaggio (o più di uno) che li prende ed è lui a costruirsi intorno una storia, e quelli che trovano una storia e poi “fanno casting” cercando i personaggi che servono per metterla in scena. Per quanto ne so non c’è un modo giusto o uno sbagliato: funzionano perfettamente entrambi.
Io appartengo al secondo gruppo: di solito parto dall’idea per una storia e cerco di capire chi sono gli interpreti. Sostanzialmente è il loro ruolo a “farmeli vedere” all’inizio: una volta che li ho dotati dei tratti fondamentali per svolgere la rispettiva funzione, riempio il resto con tutto quel che mi viene in mente, pescando ovunque (altri libri, film, persone che conosco nella realtà eccetera). L’importante è che il risultato sia una personalità coerente. Complessa o semplice, poco importa: è fondamentale che sia psicologicamente credibile.
Di contro, una cosa che non faccio mai è aggiungere caratteristiche, tratti di personalità, quirk o episodi di background che servano apposta a “dare profondità” a un personaggio. La trovo un’operazione ridicolmente artificiale, che non produce quasi mai buoni risultati e che alla fin fine è pure inutile. Pensate ai vostri amici e alle altre persone che conoscete: sono tutte originali, profonde, sfaccettate, piene di lati nascosti e imprevedibili? No, non lo sono quasi mai. La maggior parte della gente è semplice, punto e basta.
- Perché scrivi? E quando ne hai iniziato a sentire il bisogno?
Scrivo per portare a casa la pagnotta! E non sto scherzando: è ovvio che scrivere mi piace, non è un mestiere che uno sceglie e si tiene per anni senza amarlo, ma è altrettanto vero che mi ritengo uno scrittore commerciale e non penso ci sia nulla da vergognarsi in questo. Voglio che i miei libri piacciano a me, chiaro, ma anche che piacciano a più gente possibile. Voglio che vendano e che vadano in giro a lungo, che finiscano in ristampa e in edizione economica, che vengano prestati agli amici e regalati a Natale. Non sono un artista: sono un creatore professionale di contenuti (gradevoli, si spera).
Per quanto riguarda gli inizi, mia madre ha delle foto di me a dieci anni o giù di lì che scrivo atroci raccontini su una macchina da scrivere che era già decrepita a quel tempo. Vocazione precoce? Non credo proprio: ho smesso anche solo di immaginare di scrivere qualcosa per anni e anni, e ho ripreso solo a ventisette, in un periodo in cui ero disoccupato. Se mi guardo indietro e mi domando “Ti saresti immaginato di diventare uno scrittore?” la risposta può essere solo un sincero e solenne “No, per nulla al mondo”.
- Quali sono gli autori fantasy che preferisci e che ti hanno influenzato di più? E quali non riesci proprio a leggere?
Difficile indicare autori singoli. Posso cavarmela indicando generi e filoni? Mi piace l’urban fantasy più di ogni altro (era ovvio, no?), soprattutto quello con molta azione e molta ironia. Mi piace anche il fantasy classico, ma rispetto a vent’anni fa faccio sempre più fatica a trovarne esemplari interessanti. Mi piace il fantasy in ambientazione storica (che peraltro è sempre stato difficile da trovare). E mi piace la fantascienza, soprattutto la space opera e il filone sociologico. Di contro, posso indicare con assoluta certezza due categorie di autori che non reggo in alcun modo, indipendentemente dal genere che scrivono: quelli che vogliono insegnarti qualcosa e quelli che si prendono assolutamente sul serio.
- Uscendo dalla narrativa fantastica, quali opere ti hanno colpito?
Anche qui svicolerò indicando più che altro generi: fuori dal fantastico mi piacciono i romanzi storici (in particolare quelli d’avventura), i gialli classici (quelli alla Agatha Christie, per intenderci) e più di rado i thriller, ma solo se hanno davvero qualcosa di particolare.
- Ti capita mai di farti ispirare dalla musica? E se “Godbreaker” fosse una canzone, quale sarebbe?
“Mi capita”? Lo faccio in continuazione! I miei romanzi sono pieni di musica, tutti. E “Godbreaker” ha una canzone ben specifica : “This Is the Life” di Amy MacDonald.
- Approssimativamente, quanti libri leggi in un anno? E qual è l’ultimo libro che hai letto?
In media un libro a settimana, quindi una cinquantina all’anno. Ma a volte di meno, dipende da quanto tempo libero ho. Di più, praticamente mai. L’ultimo che ho letto è “A Red Sun Also Raises” di Mark Hodder. Retro-fantascienza. Interessante, divertente e anche abbastanza “profondo”, a modo suo.
So cos’è la Bizarro Fiction, ma non mi è mai capitato di leggerne nulla: in effetti non mi attira particolarmente. Di steampunk ho letto qualcosa (Cherie Priest, Mark Hodder, George Mann, e poi Miéville e Tim Powers se contano come steampunk), e in mezzo a quello che ho letto qualcosa mi è anche piaciuto. In generale però non ho una gran passione per lo steampunk, ma per un motivo che prescinde dalla specifica estetica del genere: come nel caso dei vari tipi di weird, il problema di questo filone è che troppo spesso “il flavour si mangia tutto il resto”. Gli autori di steampunk tante volte finiscono per concentrarsi talmente tanto sull’ambientazione, sui dettagli, sull’estetica del loro mondo, sulla voglia di meravigliare a tutti i costi che si dimenticano di metterci anche una bella storia. E senza una bella storia un libro con me non attacca quasi mai.
- Cosa ne pensi degli ebook?
Che sono strafighi, comodissimi, economici (fuori dall’Italia, s’intende: qui da noi hanno prezzi semplicemente oltraggiosi) e che ce ne dovrebbero essere molti di più. O meglio, leggendo molto in inglese io ne trovo quanti ne voglio, ma i lettori italiani in quest’ambito si meriterebbero un trattamento un po’ meno da Terzo Mondo. Siamo nel 2013, mannaggia, e sembra che tanti non se ne siano accorti.
- Ultimamente si sente parlare di “sboom” del fantasy italiano. Cosa prevedi per il futuro? Pensi che la situazione possa migliorare?
Lamentarsi è nel genoma degli scrittori. Lamentarsi sempre e comunque. Lamentarsi dei lettori e degli editori, degli agenti e degli uffici stampa. Lamentarsi delle vendite e del mercato, delle nicchie e delle mode. Lamentarsi dei boom e degli “sboom”. Quindi non va mai bene niente: va sempre tutto male, a prescindere.
Ciò premesso, per me il futuro è di una linearità disarmante: chi ha un pubblico continuerà ad averlo, chi non ce l’ha tenterà di farselo. Nihil novus sub sole. I numeri saranno più piccoli? Niente più esplosioni fenomenali, vendite milionarie, “next big things” dietro ogni scaffale? E chissene! Continueremo a leggere e continueremo a scrivere. Se qualcuno “deve preoccuparsi”, non sono di sicuro io.
- Hai altri progetti letterari in corso o in progettazione? Cosa ci dovremmo aspettare in futuro dai tuoi romanzi?
Sto scrivendo qualcosa di nuovo, un genere che finora non avevo toccato (se non “di striscio” in alcuni vecchi racconti), ma per il momento siamo ancora nella fase “è tttutto toppp secrettt!!”. Ho un altro romanzo già consegnato e già venduto che vedrà la luce in libreria non so ancora quando: storico-fantastico, per ragazzi. E dopo… forse il quarto capitolo della “saga” di “Godbreaker” e compagnia. Ma si parla dell’anno prossimo come minimo.
- Che consigli daresti a un aspirante scrittore?
Due cose soltanto, entrambe di una banalità estrema ed entrambe verità eterne: inizia perché ne hai voglia, perché ti piace e per nessun’altra ragione al mondo, nessuna. E tieni duro, oggi più che mai. Tieni duro al di là del sensato, del razionale e del credibile. Tieni duro quando ti diranno tutti di lasciar perdere. Tieni duro quando te lo dirai da solo. Tieni duro fino in fondo. Perché al di là del fondo c’è dell’altro.
- Grazie mille per questa intervista e in bocca al lupo!
Grazie un milione a voi per l’interesse e per i graditissimi auguri!
Michele Greco