Ho avuto modo di conoscere Michele Torbidoni per caso, attraverso il blog, con uno scambio di e-mail da cui è scaturita la disponibilità reciproca nel poter visionare le sue realizzazioni: ne è venuta fuori la seguente intervista, un po’ lunga, ne convengo, ma dopo aver visto i suoi lavori le curiosità da soddisfare erano tante e così…
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Gianluca D'Ercole e Michele Torbidoni sul set de "La Cosa In Cima Alle Scale"
Michele, nel cercare tue notizie sul web ho notato che ci tieni a specificare come tu nella vita “faccia altro”, User Interface Designer, rispetto alla tua attività di regista cinematografico, anche se hai frequentato il corso di regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma.Eppure, nel visionare i corti The Net (1995) e il recente La Cosa In Cima Alle scale (2011), da te scritti e diretti, mi hanno favorevolmente colpito tanto la tua modalità di ripresa, piuttosto fluida, funzionale alla narrazione, sia ogni singola inquadratura, oltre alla notevole attenzione per i particolari e alla precisa direzione degli attori, quindi, perché non considerare la regia come attività principale?
Perché non c’è l’ho fatta ai bei tempi e perché, per come la vedo io, in Italia non esiste un’industria del cinema estesa.Per “estesa” intendo un sistema in grado di produrre molti generi cinematografici diversi e far fluire le risorse generate dagli incassi per finanziare esperimenti. Oggi il mainstream italiano realizza commedie o film che raccontano la nostra (travagliata) quotidianità. E lo fa anche bene, eh. Solo che io non so scrivere nulla di tutto ciò. Quindi se campassi come regista, farei la fame. Amen.
Il lato positivo, però, è che non dovendo fare questo mestiere per forza posso permettermi il lusso di ideare e portare avanti progetti molto rischiosi, ma anche stimolanti e coraggiosi. La realizzazione del cortometraggio La Cosa In Cima Alle Scale mi ha fatto sperimentare in prima persona come sia davvero possibile oggi (e non sei anni fa) realizzare qualcosa che venga percepito come “cinema vero” in tutti i suoi aspetti (fotografia, suono, montaggio, set, recitazione, musiche…) senza doversi affiliare necessariamente al mondo produttivo tradizionale. E senza andare, in alcun modo, a detrimento della qualità finale. Vado controcorrente con il clima pessimista che c’è in giro e dico che, sì!, per chi vuole provare a fare cinema, siamo in un momento piuttosto fertile e positivo!”.
Mi incuriosisce molto il poter riuscire ad individuare cosa ti abbia spinto ad entrare da subito nell’ambito di generi filmici ben precisi, sci- fi ed horror, terreno fertile per la cinematografia americana, ma che in un tempo non molto lontano ed almeno sino agli anni ‘80, potevano contare anche su una discreta presenza del cinema di casa nostra, quando ancora si riusciva a coniugare, per quanto tra alti e bassi, artigianalità ed inventiva nel sopperire ad una spesso frequente penuria di mezzi e risorse.
"The Net"
Veniamo ora alle tue realizzazioni, a partire da The Net: in questo tuo corto mi ha piacevolmente impressionato, nella cornice di un’atmosfera visivamente e concretamente angosciante, la visualizzazione di una realtà virtuale che domina le menti umane obbligandole al sogno, a scansare il dolore “per la gloria del sentimento condiviso”, una condanna ad una felicità imposta e determinata dall’alto. Una gran bella intuizione, e siamo appena nel ’95 …“Eh, eh, già. Ma, in quel caso, la struttura narrativa nasce intorno alla volontà di girare qualcosa “con le maschere”, in un set di fantascienza, con dei monitor e un gran lavoro sul suono. Inoltre la scelta di girarlo senza battute nasce da un limite: a 21 anni non mi sentivo in grado di scrivere dei gran dialoghi (e magari non lo sono nemmeno adesso) e quindi ho immaginato un qualcosa di completamente basato sulle suggestioni sonore. Come vedi, nel mio caso, il contenuto segue quasi sempre il contenitore. Lo so che è così poco “autoriale”, ma… that’s it.Non penso di essere in grado di scrivere qualcosa “a tema” o per voler argomentare un’opinione. L’atto dello scrivere, in me, nasce sempre dalla voglia di mettere in scena situazioni emozionanti e succose. Una volta Kubrick (mi genufletto nel pronunciare il Suo Santo Nome) ebbe modo di dire a Brian Aldiss: “All you need for a movie is six or eight non-submersible units.”
Ecco, anche per me tutto nasce quando colleziono un tot di queste “unità non comprimibili”, cioè situazioni davvero “toste” che mi spingono ad inventarmi una storia che le unisca e a far nascere dei personaggi di cui innamorarsi (o da odiare)”.
Cosa ti ha condotto alla sua proposizione cinematografica, anche se come semplice riferimento o, comunque, valido punto di partenza ?
“Il progetto nasce come “banco di prova”. Come puoi vedere si sono infilati tanti anni tra il mio primo e secondo lavoro. Mi sono domandato se fossi stato ancora “buono” a qualcosa. E mi sono posto il compito di confrontarmi con situazioni nuove. Scene con dialoghi tra più personaggi, produzione con molte location differenti, gestione di un attore bambino sul set, collaborazione con i compositori di musica originale, progettare e realizzare una scena di VFX complessa ma elegante. La scoperta di questo racconto brevissimo di Bradbury mi ha permesso di affrontare tutte queste sfide. La cosa meravigliosa dello scrivere di Bradbury è che, pur ambientando i propri racconti nella provincia americana, riesce ad oltrepassarla, ad astrarla, per arrivare a toccare alcune corde presenti in ognuno di noi. A differenza di King che, quand’è al suo meglio (penso a quel capolavoro di It o ad alcuni passaggi del ciclo de La Torre Nera), riesce a congegnare favole terribili che, però, funzionano solo se calate nell’immaginario statunitense. Quindi Bradbury era adattabile e, una volta aperto il Mac, la storia si è scritta da sé”.
Mi ha conquistato ancora una volta la naturalezza con cui dipani la storia, a partire dal collegamento tra il Pietro adulto (Gianluca D’Ercole), professionista affermato, e il suo io bambino che lo condurrà nei luoghi dell’ infanzia, costringendolo a dolorosi ricordi e a fare i conti definitivi con quel “qualcosa” che sin da piccolo gli aveva suscitato paura. Molto bello anche il ricorso “leggero”, quasi casuale, al flashback, così come mi è parsa valida la scelta di dare un aspetto al suddetto “qualcosa”, una visualizzazione resa efficacemente, e non in modo invasivo, in computer grafica. Tradizione ed innovazione, secondo te, possono quindi andare d’accordo, senza che l’una vada a scapito del’altra?
“Sto lavorando ad uno script per un lungometraggio sci-fi. In questi giorni stiamo ultimando una stesura e sono un sacco contento del risultato.
Credo stia maturando davvero bene compattandosi in una storia energetica ed epica! So che non sarà una passeggiata pensare di realizzare un film di fantascienza (e anche complesso come questo) in questa Italia, ma io ci provo ugualmente con tutte le mie forze. E ce la faremo e sarà una vera figata! (nel dirlo incrocio l’incrociabile!)”.