Proprio con Cotroneo abbiamo avuto modo di fare una breve chiacchierata attorno alla sua ultima fatica. Ne sono emerse alcune interessanti suggestioni sull’origine del libro, su Simenon e sul potere della letteratura. Un dialogo che andiamo subito a proporvi.
Roberto Cotroneo, classe 1961, per molti anni critico letterario e responsabile delle pagine culturali de L’Espresso, ha calcato con uguale successo sia le vie del giornalismo che quelle della scrittura di romanzi. Ci racconti, dunque, per iniziare, come è per lei, giornalista, scrivere un romanzo? Passare da un tipo di scrittura all’altro è un processo naturale o c’è un interruttore che scatta scindendo nettamente i due ambiti?
Credo siano due mestieri completamente diversi, tutti pensano che ci sia un collegamento dovuto al fatto che, comunque, si scrive. Ma scrivere sui giornali e scrivere romanzi non è affatto la stessa cosa. Ci sono romanzieri che sono anche giornalisti, certo, ma sono due mestieri differenti. Io ho due modi di scrivere, perché un conto è scrivere un romanzo, un conto è scrivere per un giornale, con tempi e obiettivi diversi. È evidente però che essendo stato tanti anni in un giornale come L’Espresso ho avuto la fortuna di tenere una certa vicinanza con temi della cultura e della letteratura; ciò aveva molto a che fare con il fatto che io ero già un romanziere, ma non ha influito sul mio modo di lavorare. Per questo dico che non c’è alcuna attinenza tra le due cose.
Le vicende di Betty iniziano con un manoscritto ritrovato. Poi, c’imbattiamo in uno scrittore reale, Simenon, che diventa personaggio. Con questo libro sembra che, ancora una volta, lei abbia voluto giocare con la scrittura, rimescolando carte e storie, elementi reali e immaginari, come hanno fatto Manzoni, Calvino, Umberto Eco… tanto per rimanere in casa nostra.
Sì, quello del manoscritto ritrovato è un escamotage molto diffuso e, certe volte, molto efficace. Devo ammettere che io amo molto escamotage di questo genere. E poi mi piace anche rivisitare vite di persone realmente esistite. Così ho fatto negli ultimi due libri. In quest’ultimo, dove ho messo come personaggio un noto scrittore realmente esistito, cioè Simenon, che addirittura faccio scrivere in prima persona, e nel libro precedente, dove avevo messo come personaggio un grandissimo trombettista jazz, Chet Baker (E nemmeno un rimpianto. Il segreto di Chet Baker, Mondadori, 2011), personaggio anch’esso vissuto realmente. A me piace mescolare elementi di finzione a elementi di realtà e di verità, perché credo ci sia più profondità in quello che scrivo, quando faccio così. E poi sinceramente mi piace avere un potere che solo i romanzieri possono avere, che è quello di cambiare i destini e le vite. In fondo, voglio dire, Simenon questo libro non l’aveva mai scritto, gliel’ho fatto scrivere io.
Sempre a proposito di altri scrittori, lei ha saputo raccontarne molti, sin da quel Se una mattina d’estate un bambino (Frassinelli, 1994) che già nel titolo citava Calvino. Ecco, qual è il suo rapporto con Simenon? Mi verrebbe da chiedere: perché Simenon?
Ho scelto Simenon innanzitutto perché lo considero uno dei più grandi scrittori del Novecento. Io ho una grande passione per i libri di Simenon. Ma poi perché ritenevo che ci fosse un pezzo della sua vita che andava raccontato, quello che è stato segnato dal dramma del suicidio di questa figlia ventenne. Di conseguenza ho iniziato da lì.
Poi, ecco, ho ripensato a quello che diceva Hitchcock: per scrivere, o meglio, per fare un buon film, ci vogliono una bella ragazza, un parco e un poliziotto. Il parco ce l’avevo, è l’isola di Porquerolles, la bella ragazza è Betty e il poliziotto era il commissario. Insomma, avevo tutti gli elementi. Ma adesso, al di là della battuta e al di là di Hitchcock, per me era importante, profondamente importante, raccontare il dolore, il dolore di questa donna. Volevo scrivere un giallo, e volevo scriverlo in prima persona, cioè Simenon, ma volevo anche, in qualche modo, indagare sulle ferite dell’esistenza. Ferite che nemmeno un uomo della sottigliezza, dell’intelligenza, della capacità e della profondità di Simenon, era riuscito a capire. Nemmeno lui era riuscito a capire la vita fino in fondo. C’è un punto del libro in cui Simenon si chiede che senso abbia avuto scrivere tutti quei libri se poi non gli è riuscito di salvare la persona che più amava al mondo. Ovvero, che senso ha la letteratura, essere dei grandi scrittori, se poi non si capisce quello che ti accade intorno? E questa è una grande domanda del libro.
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Vorrei stimolare molti interrogativi nelle persone che leggeranno questo romanzo. Vorrei che le persone si ponessero domande sui drammi della vita, sulla difficoltà di stare in questo mondo. Questo è un romanzo sui perdenti, che racconta di persone che in qualche modo non ce l’hanno fatta. Ma è anche un romanzo su persone che sono perdenti interiormente, non nei fatti. Nei fatti Simenon non è un perdente: è un uomo ricco e famoso, molto letto e apprezzato dal pubblico. Si pensi che fino ad oggi ha venduto 700milioni di copie dei suoi libri (cifra reale, che non è un modo di dire, non è una cifra iperbolica). Eppure poi l’esistenza è al di là di tutto questo. Vincere o perdere, nella vita, appartiene a delle cose più profonde, più sottili, più impercettibili rispetto alle cose che pensiamo noi.
In una recente intervista, rilasciata a Loredana Lipperini nella puntata del 10 settembre 2013 di Fahrenheit, lei ha detto che scrivendo Betty voleva salvare le donne di Simenon. Invece par di capire che, in realtà, lei intende salvare proprio Simenon? Quel padre geniale che tuttavia era stato incapace di vedere i problemi di chi gli stava accanto? Alla fine del libro pare esserci quasi un’ammissione di colpa, da parte di Simenon che, in qualche modo, dentro sé, si sentiva responsabile della morte per suicidio della figlia. E forse in questo senso ecco che lo stratagemma letterario del manoscritto ritrovato serve anche a lei, Cotroneo, per staccarsi, per lasciare più spazio a Simenon. Quasi in un esperimento medianico nel quale uno scrittore vivente “presta” il proprio sé all’anima di uno scrittore che non è più di questo mondo, per permettergli di aggiungere qualcosa, di spiegare o di giustificare qualcosa?
Sì, su questo mi trova pienamente d’accordo. In effetti, con questo libro, è come se io avessi voluto dare a Simenon un’altra possibilità. Una possibilità che forse lui non ha voluto mettere in gioco quand’era in vita. Perché sì, è vero, lui ha scritto le Memorie intime (Adelphi, 2003), che è un lungo diario con questa figlia scomparsa, una lunga storia della sua vita, ma non ha mai scritto davvero le sue angosce, le sue paure, non si è mai interrogato fino in fondo su chi lui era stato, e su quello che è accaduto nella sua esistenza. In qualche modo è come avessi voluto farlo io al posto suo.
Ma chi è Betty, chi è questo personaggio femminile, così enigmatico? Sapendo di qual era il rapporto di Simenon con le donne probabilmente è un agglomerato di tante femminilità. Ma si tratta solo delle donne di Simenon o c’è dell’altro?
Betty è sicuramente la somma di tanto altro, non è solamente un personaggio simenoniano. Betty è tante cose. Tiene assieme tutta una serie di idee che ho sulla femminilità e su tanti aspetti della donna che sono importanti. Si percepisce molto, nel mio romanzo, il nesso forte tra le donne ferite del mio libro e la violenza sulle donne che noi “sperimentiamo” e vediamo ogni giorno sui giornali e in televisione. Tutto convogliato nel senso di colpa di Simenon per la morte della figlia. È questa morte, e quel senso di colpa che Simenon si tiene dentro per tutta una vita, che porta a tutta questa storia.
C’è un altro personaggio, non umano, che è l’inquietudine. L’inquietudine dei personaggi, che forse è l’inquietudine di tutti noi. Simenon, in un certo senso, sembra vincerla convincendosi della realtà di una storia che gli viene raccontata; par quasi che il sentirsi raccontare una storia (leggere una storia) gli basti per rasserenarsi e raggiungere una certa pace interiore.
Una grande domanda, chiedersi se la letteratura aggiusti la vita. Certo, a volte si ha l’impressione che la letteratura possa aggiustare cose storte, cose sbilenche, sbagliate. Ed è più di un’impressione il fatto che ci possiamo salvare scrivendo. Io ho cercato di dare l’ultima possibilità di salvezza a un grande scrittore che non si sentiva più salvato per nulla, tant’è vero che aveva smesso di scrivere chiedendosi addirittura che senso avesse avuto farlo per tutta una vita. E forse questo è il senso di tutto. L’idea che la letteratura ci permette di comprendere la vita nel mondo più profondo e, nello stesso tempo, sperare che si possa, con essa, aggiustare delle cose che nella vita reale, purtroppo, non si possono aggiustare.