Intervista a Ruggero Deodato

Creato il 16 gennaio 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Tra cannibali e macellai nazisti, una giornata in compagnia di Ruggero Deodato è come farsi un giro sulle montagne russe senza pagare il biglietto. Con la sua inconfondibile ironia da cabarettista trasteverino ci ha guidato nei ricordi di un passato nostalgico, quello del cinema di genere italiano, saltando poi al presente, al cinema digitale, ai tele-bambini, ai raccomandati e ai fazzoletti nei cinema giapponesi.
Abbiamo parlato degli esordi come aiuto regista, per poi passare al periodo d’oro del cinema bis, alle pubblicità per la Clementoni, alle formazioni della Roma di Spalletti e ai ristoranti abruzzesi. L’abbiamo incontrato alla 6ª edizione del Ravenna Nightmare Film Festival, dove ha ricoperto il ruolo di presidente della giuria. Oltre due ore d’intervista senza censura, come il suo cinema. Un po’ folle. Un po’ geniale. Un po’ malinconico.

Cosa ne pensi di tutti questi omaggi e delle retrospettive nei vari festival?

Ti posso dire che andando in giro per i festival mi è cominciato a piacere questo ambiente.

Ma non ti propongono mai un nuovo film?

No. Molti della mia generazione ricevono ancora proposte, mentre io non né ho avuto mai una negli ultimi anni. Anche mentre giravo un film non ho mai avuto proposte per girare subito dopo un seguito. Ci sono dei registi che fanno anche tre film in una stagione e questo a me non è mai successo, tranne una volta. Ma è fallita la produzione.

Però si è parlato spesso di un “Cannibal holocaust 2″, non è vero?

Sì, questo è vero. In realtà il titolo era “Cannibals”, non proprio un sequel, ma un altro film sul cannibalismo metropolitano. Avevo due produttori, uno canadese e un altro francese, ma dopo le vendite di Cannes di quest’anno mi hanno chiesto di dimezzare il budget e di tagliare alcune parti.

In pratica di fare un’altra cosa…

Sì, in pratica era diventata una storia così minima che mi sono detto chi me lo fa fare. Vado in giro per i festival e vedo film ben fatti, con budget superiori ai miei e mi rendo conto che non mi conviene rischiare. Preferisco continuare a fare le pubblicità e le fiction.

Qual è a posteriori il tuo film che è stato compreso meglio dalla critica?

Nessuno, neanche “Cannibal holocaust” (1979), il mio film più noto, in cui però c’è il fattore animali che mi perseguita. In “Ultimo mondo cannibale” (1977), che è stato uno dei film più faticosi che ho fatto, se un giovane sapesse come l’ho girato l’amerebbe moltissimo. È tutto ambientato in Malesia ed è stato girato con una troupe in mezzo alla giungla, tra serpenti e sanguisughe. I critici scrissero che l’avevo girato a Campo Imperatore in Abruzzo. Ma mi chiedo ancora come abbiano potuto mai fare un tale accostamento. Però c’è stato un film che ho girato sul serio a Campo Imperatore, trasformandolo in Canada, “The Barbarians” (1987). E la critica scrisse che avevo utilizzato dei bellissimi paesaggi canadesi.

L’Abruzzo insomma ha un certo fascino per te…

Campo Imperatore e l’Abruzzo per me sono stati un punto di appoggio per molte cose, non solo per molti dei miei film, ma anche per gli spot pubblicitari. “The Barbarians” inizia con una cavalcata che tutti hanno paragonato a John Ford e si svolge proprio a Campo Imperatore. In una valle rocciosa lì vicino, invece, ho girato i duelli. Inoltre, a Bussi sul Tirino ho realizzato “Camping del terrore” (1986) e anche “I quattro del pater noster” (1969).

L’Abruzzo è un caso particolare in Italia perché si presta bene sia per film western, considerando la sua natura selvaggia, ma al tempo stesso anche al genere del mistero.

Sì, è vero. L’Abruzzo è poco abitato e lì è semplice trovare posti non sfruttati dal cinema. Poi è a due passi da Roma. Se hai un’esigenza sei ad un’ora da casa, quindi è un ottimo set per il cinema. E poi si mangia molto bene.

Qual è il genere che ti sarebbe piaciuto realizzare e che non sei riuscito a fare?

Quello con cui ho cominciato, il comico, che poi è quello che mi veniva normale. Nella vita sono un comico. Quando faccio delle conferenze nelle diverse lingue tutti ridono.

Ci racconti un po’ la tua esperienza di regia?

Allora il passo più difficile è sempre quello che si fa da aiuto regista a regista. Ho fatto sessanta film come aiuto regista. E sessanta sono tanti. A quei tempi lavoravo con grandi registi, come Rossellini, De Sica, Pontecorvo, Fellini e tanti altri. Non pensavo mai di passare alla regia, perché come facevi se ce n’erano tanti di quel livello. Allora è stato un grosso dramma, ma poi ho visto che alcuni miei giovani colleghi debuttavano e realizzavano dei flop. Ed è stato allora che ho cominciato a pensare di esordire alla regia. Mi chiesero di fare “Donne, botte e bersaglieri” (1968), un film musicale con Little Tony. Andai da Bolognini e gli dissi: «Mauro che faccio? Perché tutti da me si aspettano un film impegnato, considerando il fatto che ho lavorato da aiuto regista per molti autori impegnati». E lui mi rispose: «Lo sai che ho debuttato con “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo” (1956), quindi perché ti preoccupi?». Con la sua battuta mi ha rincuorato, sono andato avanti e questo è stato il mio debutto. Non l’ho rimpianto. Dopo ho fatto anche un’altra selezione, perché un regista non fa solo cinema, ma anche pubblicità, teatro, cabaret, documentari. E mi è sempre andata bene, non mi sono mai fossilizzato su un genere. Ho fatto di tutto: il sentimentale, il poliziesco, la fantascienza. Ho fatto anche serial televisivi per i giovani.

Come hai vissuto il passaggio al digitale?

Bene, perché in pubblicità si usa sempre il 35 mm, però qualche volta mi hanno chiesto di girare in digitale. E sto parlando di molti anni fa, all’inizio dell’era dei computer e degli effetti digitali. Per me il passaggio è stato naturale.

E questo passaggio dal cinema alla pubblicità è stato un problema per te?

Prima di tutto alla mia età il fatto che mi chiamano ancora in pubblicità è un miracolo, perché la pubblicità la fanno i giovani. Ma quando vado a Milano ci sono registi pubblicitari che si portano sempre un copione di un film e si danno delle arie che mi fanno sentire una merda. Non posso neanche pronunciare il mio nome, perché loro si sentono qualcosa in più. Sono tutti così. Molti giovani non hanno un minimo di umiltà, tutti cresciuti vedendo la televisione. Vedo spesso registi di corti che si lamentano che non gli prendono il prodotto perchè non vale. Mi capita di solito quando sono nella giuria di un festival di corti italiani. E poi ci sono alcuni che realizzano cose assurde in cui non si capisce nulla. In quei casi cerco sempre di premiare quello dove c’è un po’ di realismo.

Ma tu come lavori in pubblicità?

Mi sento come l’allenatore che sta in panchina. Sono il Mazzone che sta in panchina. Quello che mi gratifica di più è che in pubblicità serve il regista vero, non c’è nepotismo. In pubblicità devi essere uno che la sa fare. Un presidente di una mia agenzia pubblicitaria mi dice che sono il più bravo perché in trenta secondi riesco a raccontare una storia. Questa è una gratifica incredibile per me. Poi quando vedo dei corti di 28 minuti che fanno cagare mi irrito. Un corto deve essere di otto minuti, perché io con otto minuti ti faccio la guerra del Vietnam.

Il paragone calcistico ti è venuto facile perché sei un grande tifoso  della Roma, vero?

Sì, ma lasciamo stare (sorride).

Ormai sia nel cinema che nella televisione tutto funziona in base alla politica. Che ne pensi?

Lo so, è assurdo. Parlavo di questo con un regista francese, perché anche da loro in televisione funziona come da noi. Nel cinema la raccomandazione conta fino ad un certo punto, ma solo perché paga il produttore. Non è che si prende la prima che passa e la si mette a recitare. Invece, in televisione con due giorni diventi subito famoso. E quindi è facile che una disposta a fare il servizietto al funzionario di turno riesca a trovare lavoro.

Uno dei tuoi film meno conosciuti appartiene al genere dei lacrima movie, “L’ultimo sapore dell’aria”. Ce ne parli?

Bellissimo, ma la cosa incredibile innanzitutto è che in Giappone ha avuto un successo incredibile, tanto che vendevano il biglietto con il fazzolettino per asciugare le lacrime. È il film con cui ho vinto in casa dei parenti. Noi siamo otto fratelli e lo dico perché tutti loro hanno sempre snobbato i miei film. Con “L’ultimo sapore dell’aria” (1978) li ho fregati, perché di solito all’inizio mettevo il mio nome solo nei titoli di testa. Così in quel film li ho messi anche nei titoli di coda e allora uno dei miei fratelli un giorno mi chiama e mi dice: «Ruggero ci hai fregato, stiamo tutti a piangere. Il film l’hai fatto te, vaffanculo». Così per la prima volta hanno visto un mio film. Mi ricordo anche che il primo film che feci con un nome straniero si chiamava “Zenabel” (1969) e c’erano tutti i compratori esteri alla prima. Avevo invitato fratello anche mio fratello. Prima di sentire i pareri degli altri volevo ascoltare quello suo, che però disse: «Il film è proprio una stronzata».

Infine, dove trovi l’ispirazione?

Se tu mi chiedi di inventarmi una cosa, io me la invento. La mia forza è la creatività del momento. All’inizio del film ad esempio mi faccio un disegnino, poi ci vediamo tutti a Piazza di Spagna, dove però arriva il vigile e dice che non abbiamo il permesso e dobbiamo smammare, altrimenti fa la multa. Allora, siccome mi è successo più di una volta un caso simile, io dico ci vediamo in un’altra piazza. E subito cambio sul copione questa cosa. Ecco, gli americani soffrono un po’ in questo senso. Per loro se sulla sceneggiatura c’è scritto che un uomo bacia una donna con i capelli rossi, deve essere così. Invece, a me se intriga una con i capelli neri, prendo e cambio tutto e mi invento una soluzione credibile. Il cinema è questo per me.

Giacomo Ioannisci


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