Squaz, nome d’arte di Pasquale Todisco, è un fumettista e illustratore che ha alle spalle collaborazioni con riviste come «Linus», «Internazionale», «Rolling Stone» e «XL», oltre ad avere pubblicato libri a fumetti con Fernandel (Pandemonio su testi di Gianluca Morozzi, 2006), Edizioni BD (Le cinque fasi, realizzato assieme ad Akab, Tiziano Angri, Ausonia, Alberto Ponticelli e Officina Infernale, 2011), Grrrzetic e altri editori. L’eredità, un libro che nasce da un’originale fusione fra fumetto e ricettario di cucina, è la terza opera realizzata da Squaz per la casa editrice di Silvana Ghersetti (un tempo Grrrzetic, ora rifondata con il nome di Grrrz Comic Art Books) dopo Minus Habens (2009) e Dimmi la verità (2010).
Allo stesso modo del protagonista del fumetto, un meridionale che emigra al Nord, tu ti sei trasferito da Taranto a Milano. Quanto c’è nel fumetto della tua esperienza personale?
Indubbiamente c’è molto.
Anzi, mai come in questo caso ho raccontato di persone e situazioni prese dalla mia vita privata.
Il protagonista de “L’Eredità” vive lontano dalla propria famiglia d’origine, esattamente come me. Oltre a questa ci sono poi altre similitudini, ma è altrettanto chiaro che siamo in uno strano territorio a cavallo tra verità e finzione. A cominciare evidentemente dal fatto che i personaggi indossano quasi tutti una maschera.
Il fumetto è nato da subito come opera autobiografica oppure hai attinto alle esperienze personali in maniera inconscia?
A dire il vero, ho sempre guardato con sospetto alle opere autobiografiche, sia che si trattasse di un libro, di un film o di un fumetto. Non mi interessa molto la complicità con il lettore basata sulla curiosità per come si è nel quotidiano, e con l’autobiografia questo rischio è sempre dietro l’angolo. Insomma, si porta dietro una componente voyeuristica che non mi appartiene e perciò condivido l’idea che si debba parlare solo di ciò che si conosce bene, ma di norma preferisco chi rielabora le proprie esperienze per creare qualcosa di nuovo e di irriconoscibile.
Fatta questa premessa, quasi tutto quello che c’è invece di riconoscibile e di autobiografico in questo libro c’è perché mi serviva.
Un esempio su tutti: il protagonista viene chiamato al capezzale della madre, ma poi scopre che è stato preso in giro e che quest’ultima in realtà sta benissimo. È ovvio che se per andarla a trovare il nostro “eroe” non avesse dovuto affrontare un lungo viaggio, la scena sarebbe risultata depotenziata, l’effetto comico indebolito e in definitiva, tutto quanto avrebbe perso gran parte del suo significato. Quindi ho lasciato che il protagonista vivesse lontano dalla madre, come me.
Anche il personaggio della mamma è ispirato a mia madre, ma naturalmente quello che mi interessava era creare un personaggio memorabile, non certo farne un ritratto fedele. Il fatto che mia madre sia così teatrale anche nella vita reale è stato chiaramente di aiuto… e poi sì, sono autobiografici certi battibecchi, certe complicità, certe ironie e a volte perfino interi brandelli di conversazione.
E per finire, le ricette inserite nel libro sono vere.
Non solo nel senso che sono effettivamente ricette di cucina che chiunque può cucinare in casa propria, ma anche nel senso che sono le vere ricette del Ricettario Segretissimo di mia madre!
Ma, alla fin fine, in questo libro è vero tutto e non è vero niente, e per me non è un problema giacché ogni cosa è al servizio del ricettario. Dunque, se ne può concludere che la scelta autobiografica (o pseudo tale, come preferisco pensare) sia stata più che altro una scelta indotta.
Il fumetto può essere visto anche come una riflessione universale sul problema dell’emigrazione e sull’allentamento dei legami famigliari che ne derivano?
Non direi. Non nelle mie intenzioni, almeno.
L’emigrazione dal sud al nord Italia non è un fenomeno nuovo o sul quale intendevo soffermarmi. Diciamo piuttosto che qui la do per acquisita, tant’è vero che vediamo il protagonista tornare alla casa dei genitori ma non sappiamo nulla dell’ambiente nel quale si è trasferito, né è poi così importante ai fini del racconto.
E’ un ritorno a casa, certamente problematico e pieno di incomprensioni, ma nulla ci fa pensare che sia a causa della lontananza. E’ più probabile anzi che siano dinamiche presenti fin da prima e che si riattivano, la lontananza in qualche misura le rende solo più evidenti.
Ma questo libro è un atto d’amore da parte mia, sia chiaro.
Perché altrimenti mi sarei preso la briga di raccogliere e rendere pubbliche le ricette di famiglia?
Non per denunciare il deterioramento dei rapporti o per prenderne le distanze, casomai per accorciarle. Forse, è addirittura un esorcismo, come parlare di morte e di malattia per scongiurare entrambe. Oppure ancora, come preferisco pensare, è una metafora.
Siamo in piena crisi economica e sociale, dal nord al sud.
Siamo tutti alla ricerca delle ricette per uscirne e queste sono le mie.
Perché non viene mai mostrato il volto del nipote del protagonista?
Non solo il nipote non ha un volto o questo viene coperto dai balloons, oppure scompare addirittura fuori dal riquadro con esiti umoristici, ma quasi non parla. È una spalla comica, non fa quasi nulla, non dice quasi nulla, non si sa come sia fatto, ma serve a portare avanti la storia in alcuni brevi punti. E, se vogliamo, è un po’ l’elemento che fa da collegamento tra le altre due figure maschili, una visibile (il protagonista) e l’altra (il padre del protagonista) del tutto invisibile.
Seppure per motivi grotteschi, il padre del protagonista è sempre assente. Al contrario, la madre è perennemente presente. È giusto dare rilievo a un personaggio che nel fumetto non compare mai e viene solo nominato? Perché il padre è assente?
In questo fumetto, ogni cosa viene teatralizzata.
È tutto teatrale, come può esserlo una famiglia dell’Italia del sud (ma potrebbe tranquillamente essere il Sudamerica, come in una telenovela).
Sono teatrali i gesti, le parole, le espressioni. È teatrale anche l’ambientazione, al punto da ricordare quasi le commedie di Eduardo, che fa anche un cameo in un breve siparietto.
È un fumetto teatrale perfino nel senso aristotelico dell’unità di tempo, di luogo e di azione: tutto si svolge in un unico ambiente,
E dunque, sono teatrali anche le assenze, come quella del padre. Continuamente nominato o, come verrebbe da dire, “diversamente presente” e che però, come fai notare tu stesso, fa da contraltare alla presenza costante della figura materna, unica depositaria delle preziose ricette.
Quindi è una figura che c’è, anche se non c’è.
Ora, in un punto del libro c’è una scena in cui il figlio dice alla madre “ero venuto qui per aiutarti, invece sono io che ho bisogno di voi”. Ecco, la chiave per me è tutta lì.
La madre, ma anche il padre che non si vede, continuano ad aiutare il figlio anche se questi è a sua volta padre di due bambini. Lo aiutano a oltranza.
Come in Italia, specialmente adesso, dove chi può continuare a cavarsela lo può fare grazie all’aiuto della generazione precedente. E gli altri, si arrangiano.
Siamo la prima generazione dal dopoguerra ad essere ancora a carico, questo è il punto.
Ed anche di questo si parla qui sotto traccia, seppure in tono leggero e bonario.
Come hai scelto le maschere della commedia dell’arte indossate dai membri della famiglia? Mi riferisco al fatto che all’interno della famiglia ci sono due gruppi: la madre e il protagonista che indossano una maschera nera e la sorella e la nipote che indossano una maschera bianca.
La maschera di Pulcinella me la sono cucita addosso sin dai tempi della pubblicazione di “Pandemonio” (il fumetto realizzato su testi di Gianluca Morozzi nel 2006). Già lì, nella pagina riservata alle biografie, mi raffiguravo così. A parte questo, io volevo focalizzarmi sul rapporto madre-figlio, che fa da traino a tutto il libro, e giustamente la madre doveva rispecchiare questa affinità.
Viceversa, la maschera bianca della sorella e della nipote non doveva essere così caratterizzata.
Mi piaceva l’idea che avesse una specie di neutralità, ma che all’occorrenza potesse rivelarsi anche inquietante. Il gioco, devo ribadirlo, è sempre quello dei contrasti.
Senza dimenticare la maschera forse più importante di tutto il libro, quella di Natuzza!
Come hai scelto le ricette? Mi incuriosisce la presenza di due ricette tipiche trentine (torta di fregoloti e zelten).
La selezione si è concentrata sui piatti che hanno una storia più rilevante nell’ambito familiare.
O perché più antiche, o per questioni affettive. O ancora, come nei casi delle ricette che citi qui sopra, perché sono diventati dei “cavalli di battaglia” dopo i viaggi in Trentino Alto-Adige.
Quindi, testimoniano la mia storia familiare.
La parte difficile piuttosto è stata di scriverle in una forma professionale, o almeno leggibile.
Il Ricettario Segretissimo era praticamente scritto in codice!
Il fatto che il libro nasca da un’unione fra fumetto e ricette ha condizionato la forma che hai dato al fumetto e al libro stesso? Mi riferisco alla forma quadrata delle tavole (e del libro) e alla griglia di quattro vignette quadrate usata come base del fumetto.
Be’, non so perché, ma anche adesso se penso a un ricettario me lo immagino quadrato… è una cosa che non ha riscontro nella realtà, perché ci sono ricettari di tutte le forme. Fatto sta che il libro l’ho pensato così fin dall’inizio, senza una vera ragione.
Ma mi ha fatto comodo, perché credo che la griglia a quattro vignette per pagina mi abbia aiutato a non disperdermi troppo e a fare uno sforzo di chiarezza, ad utilizzare un tipo di narrazione il più possibile piana e comprensibile. Considerato poi che la copertina rigida gli ha conferito un “peso specifico” non indifferente, il libro stampato alla fine è risultato una specie di mattonella.
Per qualche misterioso motivo, l’ho trovato coerente.
La caratteristica più importante del fumetto è il costante ricorso all’ironia. Come intendi l’ironia? È giusto vedere l’ironia come un tuo atteggiamento nei confronti della vita anziché come un registro stilistico di quest’opera?
L’ironia spesso salva la vita, ma può anche diventare un facile scudo dietro il quale nascondersi per non assumersi mai la responsabilità di quanto si dice o si fa. Io però so che c’è in tutti i miei lavori, non solo in quest’ultimo. Qui in particolare mi ha aiutato a non diventare sentimentale.
E mi riferisco al “sentimentalismo”, non ai sentimenti.
I sentimenti non sono roba che si mangia.