Intervista a Suad Amiry: la casa, l’assenza, la presenza e l’ossessione palestinese della perdita nel suo nuovo libro “Golda ha dormito qui “

Creato il 05 novembre 2013 da Chiarac @claire_com_

La scrittrice palestinese ha girato un po’ di città italiane nei giorni scorsi per presentare al pubblico la traduzione del suo ultimo libro. Annamaria ha assistito a quella di Napoli ed è riuscita ad ottenere un’intervista con l’autrice che poi mi ha proposto per il blog e che io gioiosamente ho accettato. Ai lettori romani ricordo intanto l’appuntamento di oggi alle 18 alla Feltrinelli di Galleria Colonna: insieme a Suad Amiry ci saranno Giuseppe Cederna, Francesca Corrao e Tiziana Lo Porto! In coda all’articolo infine, trovate il video integrale della presentazione di Milano di qualche giorno fa.

di Annamaria Bianco

Giovedì 31 ottobre 2013, Napoli. Arrivo in Feltrinelli mezz’ora prima della presentazione ufficiale di “Golda ha dormito qui” per intervistare Suad e me la trovo davanti in tutta la sua non indifferente altezza. È una figura magnetica, e non soltanto per il caftano nero ed oro che indossa, ma soprattutto per il suo sguardo ed il suo sorriso. Ci stringiamo la mano e scambiamo qualche parola di saluto e di conoscenza in arabo, prima di passare all’inglese e procedere entrambe più spedite nella nostra conversazione, sedute affianco, su dei comodi divanetti in pelle…

Annamaria Bianco: Qual è il suo rapporto con la tradizione? Da palestinese, pensa che la tradizione sia una forma di resistenza ? È questa l’idea che emerge dal libro?

Suad Amiry: No, l’idea alla base di questo libro in verità è di parlare delle perdite personali e psicologiche degli individui che formano la Palestina. Finora nei miei libri o, più in generale, le persone hanno parlato di Palestina principalmente come di un conflitto politico: questo lavoro è un tentativo di passare dal raccontare la storia di una nazione e di un gruppo a quella delle singole persone.

AB: È per questo che parla di buyut

SA: Sì, esatto. È un libro che riguarda le buyut, le case e, soprattutto, parla di cosa significa per qualcuno perdere la propria abitazione, quali sono gli effetti psicologici o il trauma di dover lasciare la propria dimora. Il tentativo che sta alla base dell’opera è quello di condurre i lettori verso i veri problemi dei palestinesi, ma non per renderli tristi o per incolpare gli israeliani (che andrebbero incolpati!). In primo luogo, la scrittura per me è come una terapia: quando i palestinesi nel 1948 hanno perso le loro case e il loro paese, erano sempre in grado di raccontare la loro storia a livello politico, ma non sempre anche a livello personale. Scriverne fa sì che questi sentimenti vengano condivisi.

AB: Una sorta di personificazione, dunque?

SA: Una personificazione della situazione, sì. Perché quando si subisce un trauma non sempre si è in grado di parlarne: ci sono voluti diversi anni perchè i palestinesi iniziassero a parlare non più soltanto della perdita del loro paese… Un altro concetto che emerge da questo libro, eloquente in tal senso, è quello di “assenti”. La prima cosa che hanno fatto gli israeliani, in quanto potenza colonizzatrice, è stata fingere che in quella terra non vi fossero più palestinesi.

AB: Come se fossero stati dei fantasmi?

SA: Sì, sono come dei fantasmi per loro. È una storia che va avanti da molti molti anni, a partire dal movimento sionista, da quando hanno dichiarato questa terra “una terra senza popolo per un popolo con una terra”.

Hanno fatto finta che i palestinesi non esistessero, e questo è ciò che ho raccontato nel mio libro: come gli israeliani vogliono non vederci per non darci i nostri diritti, così come è stato per gli indiani d’America, i neri in Sud Africa e gli aborigeni in Australia.

È importante sapere che nel 1948 il 90 % dei palestinesi fu cacciato dal paese e che solo il 10 % rimase lì.

Per accertarsi che nessuno sarebbe tornato, gli israeliani fecero due cose: demolirono 420 villaggi e quando i palestinesi fuggirono dalle loro case sotto i bombardamenti, senza prendere nulla perché non avrebbero mai immaginato che quella situazione sarebbe stata persistente, li dichiarano “assenti” e le loro proprietà risultarono come “proprietà di assenti”. Anche i palestinesi rimasti furono considerati tali. Ma nel 1967, quando gli israeliani occuparono di nuovo tutto il paese, si resero improvvisamente conto che quegli “assenti” assenti non erano affatto. Erano proprio lì, a Gaza.

AB: Si riferisce al personaggio di Hoda , adesso?

SA: Sì, esattamente. Gli israeliani hanno scoperto tutti i rifugiati palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, ma hanno continuato a dichiararli(ci) assenti e non ci hanno ridato indietro le nostre cose. Esistiamo quando bisogna pagare le tasse o occupare il nostro paese, ma siamo assenti quando dobbiamo riavere indietro ciò che ci appartiene. Questo libro tratta di quattro o cinque personaggi tra cui me stessa , la mia famosa suocera il primo architetto della Palestina Andoni Baramki, e la giovane Hoda: ho raccontato le loro vicende per mostrare come ognuno abbia reagito a suo modo allo shock, a cominciare da me.

Non sono ancora pronta a recarmi a casa mia, che è a soli 30 km da Ramallah, a Giaffa, per vedere quale è la famiglia israeliana che vive lì, perché quando mio padre l’ha fatto è stato molto male. Assistendo alla sua tristezza ho deciso di non imitarlo e di non sottopormi a questa pena.

Qualcuno come Hoda invece – che è la Giovanna d’Arco di Palestina – ha deciso di prendere di petto la cosa: da quando era una bambina e aveva visto suo padre piangere perché non poteva entrare in casa sua, ha continuato a far visita alla famiglia occupante ogni settimana, con insistenza.

AB: È come un’ossessione.

SA: Sì, il libro si focalizza molto su questo tema, soprattutto nelle ultime due pagine.

AB: A proposito delle ultime pagine, alla fine del libro c’è una sorta di poesia…

SA: Sì, ma in realtà è molto divertente. Quando l’ho scritta non ho pensato che fosse una poesia, l’ho scritta e basta. Anche molti dei miei amici mi hanno fatto delle domande a riguardo ed io gli ho risposto: “Davvero? Non me ne ero nemmeno accorta!”

AB: Perché scrive in inglese ?

SA: È per il modo in cui sono diventata una scrittrice. Il mio primo libro Sharon e mia suocera è venuto fuori per puro caso. Non avevo intenzione di essere uno scrittore e ho scritto come terapia per sostenere le due occupazioni sotto cui mi ritrovavo: quella di mia suocera e quella degli israeliani. Stavo scrivendo e-mail, e io di solito uso l’inglese nelle e-mail. Dopo il successo di Sharon e mia suocera ho deciso di continuare a scrivere in inglese. Ma la cosa più difficile per me è quando i miei libri vengono tradotti in arabo! Non lo faccio da sola perché so che altrimenti cambierei le storie…

AB: Però compaiono comunque delle espressioni in arabo nel libro.

SA: Sì, ci sono. C’è un arabo palestinese ed uno standard , come per Habibi. Vi ricorro quando voglio esprimere i miei veri sentimenti. Scrivo in inglese perché voglio rendere più internazionale il mio pubblico, ma con mia grande sorpresa, i miei libri sono venduti molto bene in arabo! Scrivo in inglese anche perché mi trovo spesso ad usarlo per lavoro e anche se faccio degli errori ci sono gli editors. Se scrivo in arabo posso fare errori perché, come si sa, è una lingua molto complessa, e potrei finire col concentrarmi più sulla grammatica o sulla scelta dei vocaboli che sulla storia stessa. Dal momento che mi considero prima di tutto un Hakawati (narratore), la storia è più importante del linguaggio che scelgo di utilizzare. Questo è tutto.

Continuiamo a scambiarci ancora qualche battuta, con leggerezza, e sfogliamo assieme il libro. Le chiedo se le fotografie che compaiono qua è là fra le pagine sono sue e lei mi risponde che vengono dagli album di alcuni amici ai quali ha chiesto il favore di mandargliele. Le domando il nome del traduttore, perché non compare in copertina, e scopro che è una lei, Maria Nadotti, citata nei ringraziamenti. Nel frattempo la sala si affolla e dobbiamo salutarci perché l’evento sta per cominciare. Venti minuti davvero volati.

***

(Sul sito della Feltrinelli ho trovato il video della presentazione integrale di Milano di qualche settimana fa. Se non avete potuto assistere ad una delle date del tour, bè, questo credo sia, insieme all’intervista di Annamaria, il miglior sostituto. Buona visione!)


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