Intervista ad Alessandro Berselli

Creato il 06 aprile 2011 da Fabry2010

“Non fare la cosa giusta” (Perdisa Pop) di Alessandro Berselli racconta la storia di Claudio Roveri, un informatore medico scientifico, in apparenza un professionista affermato senza problemi economici, con una famiglia che sembra felice, una moglie avvocato e una figlia adolescente. Una sera, durante un rapporto sessuale extraconiugale, Claudio sente suonare il cellulare ma non risponde. Se ne pentirà amaramente perché chi lo cercava era sua figlia Erica, pochi istanti prima di essere uccisa. L’avrebbe salvata, Claudio, se avesse risposto? Perché, nonostante siamo incanalati in binari preconfezionati e dispensatori di certezze, molte cose non funzionano? E soprattutto: esiste una cosa giusta da fare? Lungo queste direttrici si muovono i sussulti nichilistici del protagonista, un uomo prototipo di mille altri uomini di oggi, individui persi nelle loro contraddizioni, annientati tra un’inadeguatezza esistenziale e un senso etico smarrito nelle incoerenze di una società destabilizzante. E i grandi pilastri — lavoro, amicizia, famiglia –, quelli dove dovremmo trovare riparo, sono i primi impianti sdrucciolevoli. Perché è da lì che parte una catabasi che prosegue nell’animo umano. Come nella produzione precedente, l’autore ha scelto una narrativa tagliente e minimalista, a tratti segmentata, sempre intimistica, qui esaltata da una seconda persona che amplifica gli echi dei sensi di colpa e dei rapporti mancati. Ma partiamo dall’origine della storia, con la prima delle dieci domande cui ha risposto.

Come nasce una storia? E come è nata questa?
Le storie nascono sempre da un’urgenza, da qualcosa che hai dentro e richiede di essere liberato. Ci sono delle zone oscure con cui dobbiamo fare i conti e non possiamo prescinderne, bisogna assecondarle, dare loro voce.
Credo che la scrittura serva a questo: a liberare le zavorre dell’anima. Quando finisci una storia sei sollevato e svuotato insieme. “Non fare la cosa giusta” ha rispettato queste urgenze più di ogni altra cosa scritta in precedenza.

Cosa pretendi dalla tua scrittura?
Rigore formale mascherato da scrittura semplice. Il modello è  “Il giovane Holden”: un libro che sembra disattento e poco curato alla prima lettura, e che poi invece rivela una pignoleria e un dominio della materia impressionante. Voglio personaggi che empatizzino subito con il lettore. Voglio disturbare chi mi legge.

Come ti muovi, in rapporto ad essa?
Cerco di attivare strategie, faccio multi marketing, se mi passi la definizione commerciale del mio operato di scrittore. Quando scrivo cerco di essere libero da condizionamenti di mercato, ma una volta che il libro è finito l’obiettivo è raggiungere più gente possibile in tutti i modi a mia disposizione. I social network sono un buon viatico per arrivare alle persone e interfacciarsi con loro, così come le presentazioni, il presenzialismo laddove richiesto, i contatti con la stampa, le newsletter. In armonia con tutti però, senza ruffianerie ed arrivismi

Qual è la difficiltà dell’essere scrittore oggi?
Uscire dalla piccola e media editoria ed arrivare ai grandi gruppi. Fare il salto, affrancarsi dal limbo. Il rischio è quello di stazionare perennemente nelle terre di mezzo, senza nulla togliere al fatto che ritengo pubblicare comunque un privilegio. Io continuo a lavorare andando avanti a testa bassa, poi si vedrà.

E il grande piacere?
Quello comunque di mettere le proprie storie a disposizione delle persone, sapere che ognuno può leggerti e fare propri i tuoi incubi. Questa è la meraviglia della scrittura. La consapevolezza di esserci, di generare creature e immaginari, di evocare mondi. Questo è impagabile

Dicci qualcosa di te che non immaginiamo
Che nonostante le cose terribili che scrivo nella vita sono un esserino sensibile? Che mi piace la gente, la vita, il lavoro che faccio, e che scrivere è uno scavare lati oscuri che nella vita di tutti i giorni sono poco visibili? Sai quanti dopo avermi conosciuto mi chiedono: ma sei sicuro di essere lo stesso che ha scritto “Cattivo” e “Non fare la cosa giusta”?

Una volta in cui non hai fatto la cosa giusta
Sono talmente tante le volte che non ho fatto la cosa giusta che non saprei davvero da dove cominciare. Diciamo le volte che ho sbagliato sapendo di fare qualcosa che non andava fatto, l’errore deliberato con cognizione di causa, le volte che ho ferito qualcuno con sadica consapevolezza. Purtroppo è successo.

Una volta in cui hai fatto la cosa giusta
Quando scrivo ho spesso la sensazione di fare la cosa giusta. Quando ho scritto “Non fare la cosa giusta”, per esempio, e molti editori mi hanno detto “Bello, ma troppo duro, bisogna edulcorarlo”. Io non l’ho fatto e ho perseguito la mia strada. Secondo me ne è uscito il mio libro migliore e dati di vendita e feedback di pubblico confermano la mia convinzione. Presuntuoso?

Progetti?
Un libro già finito, NEVERMIND, romanzo corale con cinque protagoniste femminili e un sabato sera che finisce male. Stavolta ho puntato tutto sul cinismo, sulla non moralizzazione del branco che porta a prescindere da ogni cosa, anche dalle proprie convinzioni.

Ci saluti con una citazione?
Carver: “Se una cosa può essere detta con dieci parole non usarne quindici o venti. Usane dieci.”



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