Intervista ad Antonella Lattanzi

Creato il 04 ottobre 2010 da Sulromanzo
Di Morgan Palmas
Antonella Lattanzi si racconta
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Scrivo da sempre. Davvero. Il primo ricordo che ho in merito è un tema di terza elementare, il primo tema che ho mai scritto in assoluto. La traccia era Vi parlo di me. Raccontai tutto il tempo che da grande volevo diventare una scrittrice, e completai il tema con un racconto – rocambolesco e dispersivo e soprattutto illeggibile. Alla fine, c'era anche un disegno: un libro con la copertina gialla, il mio nome al posto dell'autore e, come titolo, Il mio primo libro. È cominciato tutto, sono sicura, dalla lettura. I miei mi facevano leggere moltissimo. E io leggevo sempre. Passavo giorni interi a leggere. Penso che sia stato l'amore per i libri, la sensazione magica che mi davano, a farmi venir voglia di scrivere. Walter Siti dice che la vera attività «alta», quella che eleva, è la lettura, non la scrittura; e che lo scrivere è una sorta di effetto collaterale dell'amore per la lettura, una sorta di gradino più basso della lettura. Sono d'accordo. Completamente. Leggere è prima di tutto, è più di tutto. Non penso, quindi, che avvicinarmi alla scrittura sia stato un caso fortuito, ma ce l'avevo dentro, come necessità: leggere ha stimolato, liberato, questa passione che c'era in me.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
Non saprei collocarmi. Mi spiego: non credo nell'ispirazione. Credo che l'ispirazione sia un decimo del lavoro dello scrittore, anche meno. Credo nella fatica, nell'impegno, nel sudore. Credo nella scrittura, nella riscrittura, nel lavoro di lima, di taglio. Credo nell'umiltà dello scrittore, nella capacità di riconoscere i propri limiti, e di rinunciare a dei pezzi scritti che si amano, anche, ma che non sono giusti per quel romanzo, o per nessun romanzo. L'istinto creativo non nasce con noi: si impara. Quanto più si legge, quanto più si lavora ai propri scritti, quando più ci si dedica alla scrittura e alla lettura, come una vera e propria vocazione: tanto più l'istinto creativo si affinerà. Ma non è qualcosa piovuto dal cielo: è una qualità che si guadagna con fatica, applicazione, dedizione.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Cerco di scrivere ogni giorno. La mia giornata ideale sarebbe: svegliarmi presto, il prima possibile, adoro la luce del sole e adoro scrivere di giorno. Fare colazione leggendo: è uno dei momenti più belli della mia giornata. Cominciare a scrivere subito dopo. Passare la maggior parte della giornata leggendo, scrivendo, lavorando alla scrittura e alla lettura, studiando ciò che mi interessa. E dopo uscire e vivere, e stare con la gente, e dedicarsi a sé e agli altri, e ridere, ridere il più possibile: altrettanto importante.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Le sigarette. Senza sigarette non posso scrivere. Fumo, ahimè, tantissimo quando scrivo. Mi ricordo un quindici agosto di due anni fa: stavo lavorando al mio primo romanzo come un'ossessa, gli dedicai non solo tutte le vacanze natalizie ma anche quelle estive (oltre, naturalmente, tutti i giorni feriali). Alle otto di sera di quel 15 agosto mi resi conto che avevo fumato due pacchetti di sigarette. Mi sentii malissimo. Scrivere fa male alla mia salute: perché fumo ossessivamente, compulsivamente. Poi avrei bisogno del sole, di aria, di luce. E pure di gente intorno. Non troppa, ma qualcuno sì, e almeno ogni tanto. Se no mi sento sola, non so spiegare, sento di avere troppo tempo per scrivere, e invece mi serve una sorta di fiato sul collo. Poi il caffè: bevo tanto caffè.E, se ci sono: le Big Babol.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Sono convinta che siamo nani sulle spalle dei giganti, convintissima. Sono convinta che, anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando non lo facciamo consapevolmente, ogni nostro scritto nasconde in sé le tracce di tutto ciò che abbiamo letto. A proposito, sento mio ciò che ha scritto Coetzee: «E ci si sente grati anche alla Russia, alla Madre Russia, per averci offerto con tale indiscutibile certezza lo standard al quale ogni serio romanziere deve tendere, anche senza la minima possibilità di raggiungerlo: lo standard del maestro Tolstoj da una parte e quello del maestro Dostoevskij dall’altra. Il loro esempio ci fa artisti migliori, e per migliori non intendo più bravi ma eticamente migliori. Annichiliscono la nostra più insana vanità; ci schiariscono gli occhi; ci rafforzano il braccio».
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Sì, la letteratura è molto cambiata. Prima c'erano le riviste – Officina, il Verri, il Politecnico, Paragone, Menabò... – luogo importantissimo di cultura, di dibattito, di crescita letteraria e umana, e anche banco di prova, e vetrina, per gli esordienti. Un luogo dove i grandi potevano confrontarsi con i più giovani, e dove la letteratura diventava concreta, si intrecciava con la vita (penso, per esempio, al dibattito su letteratura e industria, e alle riflessioni sul neorealismo). Oggi non c'è più qualcosa di simile, anche se in un certo modo, e in certi contesti, internet cerca di creare nuovi luoghi in cui poter fare, e ricevere, letteratura. Sarebbe molto bello, e molto interessante, se gli scrittori riuscissero di nuovo a comunicare tra di loro tramite le parole scritte e orali, i dibattiti, la critica letteraria. Oggi, credo, non è più tempo di un centro culturale topografico, ma di un centro culturale, appunto, fatto di parole, scritte e orali. Altra bella occasione sono i festival letterari: lì, se sono organizzati con passione, con amore (penso per esempio al Festival Isola delle Storie di Gavoi, e al Marina Cafè Noir di Cagliari), si incontrano scrittori e gente appassionata di cultura. E allora può nascere qualcosa di veramente bello, interessante, fecondo.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Per me leggere e scrivere sono la felicità, l'appagamento. Ma anche la disperazione più nera quando non riesco a rendere sulla pagina scritta l'idea, il mondo che ho in mente. Non si tratta di migliorare o peggiorare il percorso di vita, davvero: quella con la parola scritta/letta è l'unica vita che voglio, l'unica vita che ritengo possibile. Altrimenti, non mi sentirei io. Perciò, tutti gli sforzi, le rinunce, le delusioni cui vado incontro, e devo andare incontro, per migliorare, per meritarmi, ogni momento, l'appellativo di scrittore – secondo me scrittori non si è mai, ogni nuova parola scritta è una nuova sfida; secondo me scrittori non si diventa mai, ogni nuovo scritto mette in discussione tutto – sono necessari a guadagnarsi, di volta in volta, quei momenti meravigliosi e fugaci in cui chi scrive, chi legge, è felice: quando incontri un libro straordinario, quando scrivi qualcosa che secondo te è ben fatto.
La ringrazio e buona scrittura.
Grazie a lei!
Antonella Lattanzi è nata a Bari nel 1979. Vive e lavora a Roma. Devozione (Einaudi Stile Libero, 2010) è il suo primo romanzo.

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