Intervista ad Enrico Macioci

Creato il 31 agosto 2015 da Temperamente

Dopo la fulminazione di Breve storia del talento ho deciso di scambiare quattro chiacchiere con il suo autore, Enrico Macioci.

«Prima che parlasse lo sentii arrivare nell’aria, simile all’odore che preannuncia la pioggia d’estate – quasi tutte le cose decisive accadono in estate, durante l’infanzia e l’adolescenza.» Condivido pienamente queste parole: l’estate, con l’aria che cambia, la natura che esplode e si addolcisce, sono rimasta scioccata: è tutto vero, è proprio così che funziona. Per me è legato moltissimo alla mia infanzia al sud Italia, con il caldo e i pomeriggi lunghissimi, per te da cosa dipende?
La mia infanzia si è svolta a L’Aquila ma non cambia, credo. I pomeriggi lunghi e caldi, destinati a sprofondare poi in quei tramonti di brace e viole del pensiero, mi hanno sempre messo addosso una vaga inquietudine mista a una pericolosa felicità. Come se stessi guidando lungo una discesa con l’acceleratore a tavoletta e i freni fuori uso e tuttavia sapessi di cavarmela, però per poco, magari per un pelo. È in quel “per poco” che sta la maggior parte del gusto, mi sa. Nella certezza spavalda di farla franca. Una certezza che nel corso del tempo ho parecchio smarrito, e che forse smarriamo tutti.

Nel libro il protagonista ha la passione per il calcio ma capiamo che in realtà scrive di nascosto, cose bellissime, a quanto pare, ma non vuole che se ne parli. Quanto in quel ragazzino c’è di te? Anche tu scrivevi racconti e poesie che non volevi fossero diffusi e conosciuti?
Scrivevo, scrivevo molto. Ero più bravo a scrivere che a giocare, suppongo. Ma me ne vergognavo. Rientravo dopo le partite, pensavo di buttare giù un pezzo in cui parlare dei gol di Michele (e dei miei) ma poi rinunciavo, pieno di uno strano disagio. Pensavo (e frattanto non scrivevo più): Michele non sente alcun bisogno di scrivere, non si sdoppia. Lui è è basta. A lui basta giocare. Perché a me non basta? Cos’ho di sbagliato? Di non lineare? E via così…

E poi come hai fatto “outing” nel mondo della scrittura?
A ventisette anni, dopo una lunghissima pausa, mi dissi che scrivere era ciò che volevo davvero. Non ci fu nessun clamore in questa decisione, e forse non ci fu nemmeno una decisione. Si trattò semplicemente di tornare all’ovile e sperare di trovare ancora qualche uovo. Lo trovai.

Anche la passione per il calcio è qualcosa che condividi col protagonista…sognavi anche tu di fare l’attaccante? E adesso qual è il tuo rapporto con questo sport?
Sì, come molti ragazzini sognavo di giocare in attacco. I miei idoli furono, nell’ordine: Platini (il migliore), Vialli (infatuazione breve), Van Basten e Baggio. Van Basten forse era quello che mi piaceva di più, per via della sua eleganza e delle acrobazie, della sua grazia arcana. Oggi seguo il calcio con molta meno assiduità e passione. Crescendo capisci un sacco di cose, e quasi nessuna è bella. Ma continuo a giocare, giocare mi piace sempre tanto anche se non ho più l’agilità, la resistenza e la velocità di un tempo. Debbo cavarmela col mestiere ;-)

Ci sono davvero molte frasi poetiche nel libro. Quali sono i poeti che ti hanno maggiormente influenzato – nella scrittura del libro, se ce ne stono stati, e nella tua vita, in generale?
La poesia è stata il mio primo amore, e il primo amore non si scorda mai. Ne ho scritta tanta ma ho smesso da un pezzo. Ho letto e amato parecchi poeti ma credo che nessuno mi abbia influenzato, né nella stesura di questo libro né mai. Le mie influenze le ho contratte tutte in prosa, anche se spero di essermene liberato ormai. Si cresce, no? Se devo fare nomi di poeti, su due piedi ti dico Celan, Trakl, Emily Dickinson, Campana, Leopardi, Shakespeare, Hart Crane, soprattutto Rimbaud. Rimbaud è il grande Michele moltiplicato per mille, il talento che, per eccesso, rinuncia subito. Altro che breve storia. Storia millimetrica, piuttosto.

Il tuo stile è insieme levigato e rigoglioso, riesci a esprimere concetti e sensazioni con una forza inarrestabile ma riuscendo sempre a mantenere il controllo della penna. Ma quante riscritture fai, quanto tempo ti porta via ogni libro?
Debbo sforzarmi perché le metafore mi vengono una dopo l’altra, a mitraglia, e io sto abbastanza attento a mozzarne la maggior parte, onde evitare d’appesantire la narrazione. Le riscritture sono assai numerose perché la prima stesura è sciatta e frettolosa, mi serve solo a fissare sulla pagina ciò che voglio dire prima che svanisca e io lo perda. Posso riscrivere anche sei, sette, dieci volte, dipende anche dalla lunghezza. Si tratta di una fase della scrittura paragonabile, per quanto mi riguarda, a un dente guasto che non vuol saperne di cadere.

Da ragazzino, immagino, leggevi. Ci sono libri che ti hanno accompagnato e ti ricordi in modo particolare, sia in senso positivo che negativo?
Alcuni titoli imprescindibili: Pinocchio (primo assoluto per numero di riletture, il più grande romanzo della letteratura italiana), L’isola del tesoro (secondo ma di poco), I figli del capitano Grant (ho adorato il maggiore McNabb), Michele Strogoff (preso in biblioteca, mi piacque fino alle lacrime), Il giardino segreto (attaccai a leggerlo al tavolo di un ristorante di Roma, ero coi miei in gita), i racconti di Edgar Allan Poe e quelli di Oscar Wilde, La torre di fuoco di Sandra Frizzera, brava scrittrice trentina. Non mi vengono in mente libri negativi in tal senso, anche se trovavo parecchio noioso Salgari.

Dacci un’anticipazione sui tuoi progetti librari futuri.
L’anno prossimo dovrebbe uscire un mio lungo romanzo a metà tra fantasy e thriller, la storia di un padre e un figlio e del loro ambiguo vicino di casa…

 Le prossime presentazioni di Breve storia del talento sono il 19 settembre a Pordenone e il 20 settembre a Verona. 


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