Questa è una di quelle interviste che meglio di così non potevano venire. Una di quelle interviste che hanno divertito sia l’intervistato, Fra Biancoshock, che l’intervistante, io!Toylet Mag è felice di presentarvi il non artista di strada, la cui unica preoccupazione è provocare qualcosa in tutti noi con una fugace occhiata. Non vuole fama, non vuole soldi, non vuole essere riconosciuto. Vuole solo NON ESISTERE.
Divertitevi insieme a noi nello scoprire cosa fa un artista che artista non è!
S: Fra Biancoshock lo dice subito e lo dice forte, LUI NON ESISTE! Se non esiste come artista, con chi cavolo stiamo parlando noi?
F: Con un qualunquissimo nessuno che cerca l’attenzione di tutti, che ama offrire occasioni di comunicazione alle persone che, come me, pur non avendo particolare cultura artistica hanno ancora voglia di stupirsi e di emozionarsi. Non esisto come artista, tanto meno come street artist, in quanto non ho le competenze e la volontà per esserlo. Troppo facile definirsi artisti solo perché ho un sito e concretizzo idee e paranoie che mi saltano per la testa. E non voglio prendermi neanche la responsabilità dell’appellativo artista: non mi ci vedo a sprecare tempo per incastrarmi in ragionamenti concettuali, per confrontarmi con colleghi e tuttologi dell’arte o per partecipare alle mostre della domenica pomeriggio. Preferisco scendere in strada e fare ciò che mi viene in mente in quel momento, senza vincoli o pretese. Pertanto non esisto, cerco solo di dare un po’ di sano fastidio attraverso Biancoshock.
S: Come si è svolta la tua formazione? Qual è la tua maggiore fonte di ispirazione? Cosa ti ha fatto incazzare così tanto con Hello Kitty?
F: Non sapendo ne designare, ne scolpire ne fotografare, credo sia l’esperienza del writing l’unico tipo di formazione che abbia avuto: mi ha permesso di conoscere un contesto di cui mi sono follemente innamorato, la strada, e un pubblico a cui rivolgermi, le persone che la percorrono tutti i giorni. Non sono stato un writer di spicco, ma ho avuto la fortuna di frequentare i pilastri di questo movimento (parlo dei VMD 70’S di Milano), gente che inconsapevolmente mi ha insegnato che se credi davvero in qualcosa, non ti deve interessare delle conseguenze e dei sacrifici che ne conseguiranno. Queste sono cose che ancora porto nel cuore, dei graffiti in quanto disegni sui muri, poco mi rimane. Principalmente è la strada la fonte di ispirazione; i suoi dettagli, le sue forme, i complementi di arredo urbano che ospita mi stimolano tantissimo. Altre volte invece parto da un messaggio e cerco la sua location ideale per trasmettersi.
“Hell of Kitty” è la mia “commercialata” che provoca il guru delle commercialate, è un po’ come il singolo dell’estate per una band, un singolo però con parolacce e con il ritornello che dice che l’estate fa schifo. Trovo patetico il fatto che quel maledetto gattino si trovi ovunque (vestiti,cucce per cani,scopettino per wc, arredi, automobili) ti sembra che sei hai HK addosso allora sei alla moda, quindi in luce, quando in realtà ti sei omologato alla massa. Una rivista americana ha scritto che in un mio lavoro (“Crisis is crisis”) ho ridisegnato HK in versione prostituta: la tristezza è che quello in realtà è un poster in vendita al Leroy Merlin nel reparto camerette per bambini. Io non ho fatto altro che ritagliarlo e metterlo in strada alle dieci di sera. A mio avviso quella era la sua location ideale, non la cameretta di una dodicenne. Per il resto è solo un gattino disegnato male, un giorno faremo pace.
S: La strada è palesemente la tua “tela” ed è ovvio che ti senti molto a tuo agio nell’infrangere le regole. Hai mai pensato ad uno scenario post-ribellione nel quale la galleria d’arte è il tuo habitat? Se si, lo vivi come un futuro post apocalittico o il paradiso?
F: Qui mi metti in seria difficoltà! Sono tanti i momenti in cui mi sono domandato: “Ma dove vuoi andare?” Ad oggi ribadisco non in una galleria, dove le mie produzioni perderebbero completamente della loro valenza, dell’impatto e della loro spontaneità, mi sentirei ridicolo: ho scelto di non voler esser artista e quindi di non scendere a compromessi con l’arte e con tutto quel sistema che spesso provoco o prendo di mira.È vero che le idee, i soldi buttati, le energie e la motivazione che sto investendo nel tempo senza aver alcun riscontro prima o poi verranno a bussarmi alla porta… è vero che ho paura di non riuscire per sempre ad avere nuovi stimoli o una forte motivazione per impegnare tutto il tempo in questo, ma è vero anche che ad oggi amo Biancoshock anche se ciò vuol dire infrangere delle regole, è la mia valvola di sfogo e lo scenario che vedo è quello in cui avrò trovato il modo di ottimizzare la divulgazione delle mie esperienze senza utilizzare per forza canali artistici: Arduo, ma molto stimolante.
F: Ciò che chiamo “esperienze” sono semplici occasioni di comunicazione. Un’artista a lavoro finito analizza la propria opera per vedere che non vi siano imperfezioni la osserva per ore e ore per valutarne il valore estetico, etc. Un’esperienza non deve essere analizzata, non necessita di didascalie e superdescrizioni introspettive per far capire al fruitore cosa significhi: l’esperienza sia che uno la veda in strada dal vivo o che la veda in internet deve trasmettere in meno di 2 secondi il suo messaggio e suscitare una reazione, che sia di approvazione o di disgusto non importa, ma deve farlo in quel lasso di tempo. Altrimenti non ha funzionato. Ed è un’esperienza perché ha proprio un tempo in cui nasce, si manifesta, trasmette, e si dimentica. Davvero, poco mi interessa del valore tecnico o estetico, mi preme solo che l’idea arrivi alla gente in modo originale.Vedendo i miei lavori si pensa che provochi o ironizzi solo sul destinatario del messaggio, in realtà non è così: cerco infatti di provocare maggiormente coloro che guardano le mie esperienze, voglio presuntuosamente dimostrare che chiunque con un’idea forte può trasmettere una comunicazione a tutti, senza per forza fare l’artista. Leviamoci da questa visione del tutto anacronistica per la quale solo l’artista ha il dono divino di poter trasmettere emozioni attraverso l’opera d’arte. Ho riscontrato più stimoli geniali e forme di comunicazione innovative durante una chiacchierata con amici o un pomeriggio con la fidanzata che guardando un quadro del novecento. Il mio target ideale è la studentessa che aspetta il tram, il precario invaso da mille problemi, l’impiegato del mese e tutti coloro che poco hanno a che fare quotidianamente con i concetti filosofici.
F: Purtroppo Marco Carta mi ha un po’ deluso ultimamente… quindi rimane “Cani sciolti” dei Sangue Misto, pochi li conosceranno. Leggo, ahimè, davvero molto poco, un libro che da piccolo mi ha incantato è “La notte dei desideri” di Ende. Come film “City of God” di Meirelles. Stimo lo street artist Mark Jenkins, anche se in Italia abbiamo Elfo da Brescia che non teme rivali per contenuti e genialità.
S: Ti piace quella dose di mistero che deriva dal tuo anonimato forzato o vorresti che il mondo fosse diverso e che la trasformazione stradale fosse permessa?
F: La mia dose di mistero è dovuta a due motivi, uno banale e di poco conto, quello legale, e uno più concettuale: nei lavori (“Performance”) in cui sono presente anche io non mostro mai il viso. Non voglio assolutamente ricreare una goffa emulazione di Banksy e del suo incredibile anonimato, sono semplicemente convinto che non associare un volto fisico sia necessario per valorizzare al massimo il potere comunicativo dell’esperienza in sé. L’importante è se e come comunica un mio lavoro, non che faccia ha Fra. Mi piacerebbe che progetti di riqualifica di aree dismesse e nuovi interventi di arredo urbano potessero essere realizzati da creativi veri, non dai soliti amici-dell’amico-dell’amico-del cugino-del suo amico, quello sarebbe un sogno sì. Per tutti gli altri casi a mio avviso credo che la trasformazione stradale non debba essere permessa, altrimenti sarebbe molto meno stimolante e non colpirebbe più l’attenzione del passante. Sarebbe un po’ come permettere ad un politico di rubare, no? Chiaro dal punto di vista legale non è il massimo, ma assistiamo tutti i giorni a “crimini” ben peggiori di un’installazione urbana che possa regalare un sorriso o un po’ di stupore a qualcuno e, da questo punto di vista, non mi sento assolutamente un fuorilegge.
F: Premesso che di tutte quello che ho fatto ne salvo poche, perché quando le riguardo ci trovo sempre qualcosa che non mi convince … credo che “My first canvas” e My last canvas” sia l’esperienza a cui sono più affezionato e su cui ho meno da criticarmi, per diversi motivi: per il concept in sé, per i momenti in cui le ho realizzate (una con -9° gradi, l’altra con una temperatura più mite ma un po’ più di pericolo), per gli scatti di Myst-R e Francesca (coloro che immortalano tutto ciò che faccio) che in quelle due situazioni “particolari” si sono davvero superati.
E voi, che ne pensate?
Silvia Butta Calice
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