Intervista al prof. Luca Serianni – E sul perché ogni lingua che rinuncia al “dominio” sulla cultura tecnologica e scientifica corre il rischio di diventare “dialetto”.

Creato il 03 febbraio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

di Ivana Vaccaroni. Il professor Serianni è professore ordinario di Storia della lingua italiana presso la Sapienza Università di Roma; Socio dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia dei Lincei e vicepresidente della Società dante Alighieri.

Nel 2002 ha ottenuto la laurea honoris causa nell’Università di Valladolid.

E’ direttore delle riviste «Studi linguistici italiani» e «Studi di lessicografia italiana».

E’ autore di una nota grammatica di riferimento della lingua italiana; cura inoltre il Vocabolario della lingua italiana Devoto –Oli e ha pubblicato di recente la Storia della lingua italiana per immagini, Edimond, 2010-2011.

La lingua italiana sta subendo un’involuzione, un” imbarbarimento”: c’è costante disaffezione verso un idioma così antico e prestigioso. Per conoscerne l’attuale stato e per avere conferma di tale situazione ho intervistato Il prof. Serianni che ha accettato di rispondere alle mie domande e fugare i miei dubbi con la cortesia e la notevole competenza che gli derivano dagli studi approfonditi e dal ruolo di primo piano che occupa nel panorama linguistico italiano.

I.V.”Quali ritiene, professore, siano le cause di tale scarsa affezione verso un idioma così antico e prestigioso?”

L.S “ Non credo che si tratti di un “imbarbarimento”. In fondo, la diffusa ipersensibilità in proposito può essere vista addirittura come un segno di attaccamento dei parlanti alla propria lingua: condizione decisiva, direi preliminare, per giudicare della buona salute di un idioma. L’impressione di una decadenza linguistica, che a me pare infondata o almeno sovrastimata, nasce da due fatti fondamentali. Prima di tutto la maggiore circolazione della lingua parlata (con le sue fisiologiche approssimazioni e la sua povertà lessicale: caratteristiche proprie della dimensione orale in sé, che valgono anche per qualsiasi altra lingua). A differenza di un tempo, il parlato ha intriso profondamente la prosa narrativa, che si è aperta ad accogliere regionalismi e soprattutto lessico colloquiale( fino al turpiloquio) e si coglie anche nelle pagine dei giornali. In secondo luogo, il tasso di rinnovamento neologico si è fatto molto più vivace, per certi aspetti addirittura turbinoso, e ciò comporta un parallelo aumento di anglicismi(uno su tutti spread). Ma bisogna guardare ai tempi lunghi della lingua: quanti saranno, tra questi neologismi, quelli destinati a impiantarsi stabilmente nel lessico? Probabilmente pochi: certo non è da essi che può venire una vera minaccia alla tenuta dell’italiano”.

I.V. “In che modo la nostra appartenenza all’Europa può aver contribuito a far diminuire l’importanza di tale lingua che, per questo, non è più lingua madre nei colloqui ufficiali ma è stata sostituita da una meno prestigiosa quale quella inglese? Ci sono motivazioni legate forse alla multiculturalità che contraddistingue attualmente il nostro paese e l’Europa stessa?”

L.S. “In Europa i rischi per l’italiano non vengono dall’inglese, ormai riconosciuto nella sua funzione di lingua veicolare, ma da altre lingue, in particolare francese e tedesco. Da una «triplice alleanza» come questa l’italiano rischia davvero di essere schiacciato, a partire dal suo statuto di lingua seconda, proposta allo studio degli stranieri. Il problema riguarda anche altre gloriose lingue della vecchia Europa, come lo spagnolo. I governi hanno l’obbligo politico di sostenere l’italiano, lingua di uno degli stati fondatori, nella comunità europea. Non si tratta solo di non ammainare la bandiera della dignità nazionale; allo studio e alla circolazione di una lingua sono legate attività economiche  facilmente quantificabili e sarebbe prova di ottusità non tenerne conto”.

I.V. “ C’è anche responsabilità da parte di chi dovrebbe continuare a sostenerne l’importanza con le nuove generazioni come gli insegnanti e tutte le persone di cultura?”

L.S. “Ho già accennato alle responsabilità politiche a livello europeo. Ma è giusto riconoscere che la lingua, come patrimonio condiviso da un’intera comunità, è responsabilità di tutti, a partire, certo, dalle persone di cultura. In proposito devo prendere le distanze dall’iniziativa di alcuni atenei di generalizzare l’uso dell’inglese come lingua usata nelle lezioni di alcuni corsi magistrali: va benissimo, naturalmente, che alcuni corsi siano offerti in inglese, ma è negativo il fatto che non esista- che non continui a esistere- una parallela offerta in italiano. Rinunciando a esprimere concetti relativi alla fisica delle particelle o alla scienza delle finanze, l’italiano perderebbe una parte essenziale di sé. La cultura, ricordiamolo, non è solo quella letteraria o latamente umanistica, ma anche quella tecnologica e scientifica; e una lingua che abdichi al dominio di queste aree cesserebbe dalla condizione di «lingua» avviandosi a essere un «dialetto».”

Ringrazio il prof. Serianni per l’esauriente disamina del problema e confido che si voglia far tesoro di consigli così pregevoli e condivisibili .

Featured image bibilioteca Riccardiana, una proprietà dell’Accademia della Crusca, fonte Wikipedia.


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