Intervista al Regis Roinsard

Creato il 31 ottobre 2012 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Pubblicato il 31 ottobre 2012 con Nessun Commento

Al Festival internazionale del Film di Roma la nuova pellicola del regista Regis RoinsardPopulaire che sarà presentato fuori concorso.

Populaire è il suo primo lungometraggio. Quale percorso l’ha portata alla regia?

Ho sempre avuto voglia di raccontare storie attraverso le immagini e quando ero al liceo avevo iniziato a fotografare le persone che i miei compagni consideravano strane. A onor del vero, credo di aver fatto anch’io parte di quella categoria, visto che passavo tutto il mio tempo a registrare i film che venivano trasmessi in televisione per poterli esaminare in dettaglio in un secondo momento. Poi ho studiato cinema e in seguito mi sono cimentato in tutti i mestieri cinematografici: macchinista, scenografo, fonico, ecc. Volevo confrontarmi con la realtà tecnica della costruzione di un film. Nel giro di breve tempo, ho girato il mio primo lungometraggio, a cui ne sono seguiti altri tre e mentre lavoravo al terzo ho iniziato a realizzare spot pubblicitari, videoclip e documentari musicali per artisti quali Jean-Louis Murat, Jane Birkin e Luke. Ho fatto completamente miei tutti questi lavori su commissione, ma nel frattempo ho continuato a coltivare l’idea di passare al lungometraggio. Penso che il motivo per cui ho impiegato tanto per riuscirci è stato che volevo a tutti i costi innamorarmi di una storia.

Come le è venuta l’idea di rievocare le gare di dattilografia in un’opera di finzione?

Nel 2004, mi è capitato di vedere un documentario sulla storia della macchina per scrivere che comprendeva una piccolissima sequenza sui campionati di velocità dattilografica: quei brevi trenta secondi mi hanno talmente affascinato che ho subito percepito le potenzialità cinematografiche e drammaturgiche di quel tema e quindi ho cominciato subito a delineare la trama. L’universo della dattilografia mi sembrava folle: trovavo incredibile che fosse potuto diventare uno sport ed ero incantato dal rapporto uomo/macchina. All’inizio avevo soltanto la giovane campionessa e il personaggio maschile non esisteva. Ma avevo già immaginato che lei venisse da un villaggio e le avevo dato il nome di una delle mie nonne. C’è da dire che, esattamente come Rose, anch’io vengo da una piccola città della Normandia e che Parigi, per me, rappresentava la metropoli inaccessibile.

A partire da questo spunto, come si è documentato?

Ho cominciato a indagare sulla «disciplina sportiva» di velocità dattilografica e sulle scuole che insegnavano stenografia e dattilografia. Era il 2004 ed è stato un lavoro complicato, perché in quegli anni tutte le scuole stavano scomparendo e non era stato conservato quasi nessun documento d’archivio. Su Internet ho trovato qualche breve video delle gare di velocità dattilografica. Tra i documenti più interessanti, ho scoperto una fotografia di un campionato americano che si svolgeva in una sala simile a un velodromo davanti a migliaia di spettatori. Ho anche scovato le pubblicità della Japy, l’azienda francese che fabbricava macchine per scrivere e organizzava gare di velocità dattilografica, che elencano i campionati regionali. Inoltre, ho incontrato ex campioni e campionesse di velocità che mi hanno raccontato la pressione mentale che subivano e le strategie di destabilizzazione degli avversari attraverso lo sguardo, confortandomi nell’idea che fosse un vero e proprio sport. Ma in quella fase, non sapevo assolutamente se il film avrebbe preso la strada del dramma o della commedia.

E a quel punto si è lanciato nella scrittura?

Sì, con l’idea di adottare un registro che fosse squisitamente mio. Ho iniziato scrivendo un trattamento di una trentina di pagine, in cui ho creato i personaggi che gravitano attorno a Rose, e con Daniel Presley, un amico produttore musicale grande fan delle commedie americane degli anni ’50, abbiamo inventato i personaggi di Bob e Marie. Di conseguenza, abbiamo deciso di scrivere la sceneggiatura a quattro mani. Daniel è estremamente esigente e ha un umorismo alla Woody Allen: avevamo pensato di scrivere i dialoghi in inglese, di cui io avrei in seguito proposto un adattamento in francese, in modo da realizzare una alchimia perfetta tra commedia americana e «French touch»! Ho anche apprezzato molto il fatto che Daniel mi facesse osservazioni pertinenti sulla musicalità e il ritmo dei dialoghi. Alla fine della prima stesura, eravamo soddisfatti solo al 60%, nello specifico perché avevamo l’impressione che l’evoluzione psicologica di Rose fosse troppo semplicistica. Casualmente avevo letto alcune sceneggiature del ventiseienne Romain Compingt, un fan di Britney Spears e Marilyn Monroe, e per qualche strano motivo percepivo in lui una sensibilità particolare che avrebbe potuto dare corpo alla psicologia di Rose. Mi sono quindi rivolto a Romain e, tre settimane dopo, ci ha restituito una versione della sceneggiatura che ci ha soddisfatto all’85%! Con lui, la storia d’amore è diventata più audace. Ci siamo rimessi al lavoro tutti e tre insieme, chiedendoci se potesse funzionare una collaborazione tra un giovane fan di star decadute, un musicista americano e me, cosa tutt’altro che scontata!

In quale fase Alain Attal è entrato a far parte del progetto?

È stato il primo a leggerlo: gli abbiamo dato la sceneggiatura un venerdì e il martedì seguente ci ha detto che voleva fare il film! Ci siamo incontrati e ci siamo subito resi conto che la mia visione del film corrispondeva alla sua. La cosa straordinaria è che Alain si pone lui stesso come un «allenatore»: mette i registi in condizione di dare il meglio di sé. Alain è il mio Louis Echard! È anche una persona animata da un’autentica follia e dalle sue ossessioni artistiche: mi ha messo costantemente con le spalle al muro, incoraggiandomi ad avere dei dubbi e questa è una dialettica che amo molto. Inoltre, è un grandissimo cinefilo e condividiamo gusti e riferimenti visivi, quindi ci siamo a lungo confrontati su cineasti come Nicholas Ray o Godard, che lui conosce come le sue tasche, o sui film a colori di Joseph Losey.

Il progetto è partito anche dal desiderio di rievocare la fine degli anni ’50?

C’era anche questo, anche se non volevo in alcun modo fare un film che rendesse omaggio a quell’epoca. In realtà, sono affascinato dagli anni ’50 sul piano estetico, musicale, letterario e cinematografico. Prova ne è che amo molto film recenti ambientati in quel periodo, come PLEASANTVILLE o PEGGY SUE SI È SPOSATA, e volevo che la messa in scena e il montaggio si inscrivessero nella modernità.

Qual era il suo obiettivo per quanto riguarda lo stile visivo del film?

Abbiamo lavorato alla direzione artistica in modo periferico: volevamo ricreare gli anni ’50 mescolando l’aspetto documentario, il cinema dell’epoca che amo, in particolare i film americani, e l’immagine fantastica che ha la gente di quel periodo. Tutto quello che riguarda i protagonisti trae ispirazione dal cinema e dalla fantasia, attingendo ai codici di cineasti quali Billy Wilder e Douglas Sirk, e più ci si allontana dalla cerchia dei personaggi principali, più ci si avvicina a una visione documentaria. Per esempio, i ruoli secondari e le comparse sono ancorati in una visione realistica poiché abbiamo voluto che avessero profili e fisionomie tipici dell’epoca.

Ha avuto altri riferimenti oltre a quelli cinematografici?

Come riferimento abbiamo preso anche l’insieme delle opere di un illustratore, Alex Steinweiss, che in quegli anni ha ideato un discreto numero di copertine di dischi. Nel suo lavoro c’è tutta la gamma cromatica, sia nei vestiti, sia negli ambienti, che abbiamo utilizzato per la totalità del film. Ho anche fornito al reparto scenografie una serie di riferimenti di designer e stilisti dell’epoca: volevo che il film esprimesse la mia visione estetica degli anni ’50. L’aspetto più difficile era far credere agli spettatori che gli esterni siano quelli degli anni ’50. Per questo motivo, abbiamo consultato immagini d’archivio a colori per aderire alle tonalità insature di quel periodo. E ci siamo resi conto che, per esempio, le automobili erano sempre monocromatiche perché in quell’epoca le vernici delle carrozzerie non erano ancora industriali o erano appannaggio di una clientela agiata. Abbiamo quindi optato per un’insaturazione dei colori, mantenendo le dominanti di rosso, verde e blu perché volevo che l’occhio fosse incessantemente sollecitato.

Ci parli della scelta degli attori…

Volevo riunire un cast dove ogni attore avrebbe apportato la propria unicità, come un direttore d’orchestra che sceglie dei musicisti che si rispondono e si accordano reciprocamente. Un po’ alla maniera di Tim Burton che mescola attori celebri ad attori di profilo più basso e ad attori teatrali. Nella selezione del cast non ho fatto alcuna concessione perché era essenziale che tutti i personaggi fossero pienamente incarnati. Per questo motivo gli attori che ho scelto provengono da orizzonti diversi. Romain Duris si è imposto subito poiché sono impressionato dal suo senso del ritmo e della commedia. Si è impegnato moltissimo per incarnare il personaggio: ha chiesto che venissero riscritte alcune parti della sceneggiatura per approfondire il ruolo e ha svolto lui stesso una ricerca sul contesto del film, arrivando a incontrare un allenatore di calcio per farsi spiegare in cosa consiste il suo mestiere. Romain è sempre alla ricerca di qualcosa e a un certo momento ne sapeva più lui di noi del personaggio. Quello che mi piace in lui è il fatto che, come Louis, mantiene su di sé un alone di mistero. Non parla molto di se stesso e questo tipo di atteggiamento è stimolante per me e affascinante per i suoi partner.

 Come ha scelto le musiche preesistenti?

Innanzitutto non mi sono fissato in modo inderogabile sull’anno in cui si svolge la storia: ho preferito lasciarmi un margine di circa tre anni prima e tre anni dopo il 1958. Per quanto riguarda la musica americana, adoro la musica lounge e il jazz varietà di musicisti come Les Baxter o Martin Denny, e sono anche un appassionato di tutti quei compositori degli anni ’50 che hanno scritto per Sinatra e altri crooner. Volevo utilizzare quel genere di musica, ma anche le canzoni francesi dell’epoca. Nella Francia del dopoguerra dominavano cantanti come Montand, Ferré, Brassens e Piaf e quindi non trovavo l’equivalente del jazz varietà americano. Poi ho scoperto artisti misconosciuti come Jack Ary, che dirigeva un’orchestra di cha-cha-cha e mambo. Ha pubblicato una ventina di 45 giri ed è così che ho scovato «il cha-cha-cha della segretaria».

 E le musiche originali?

Mi sono reso conto che ne avevo bisogno perché le musiche preesistenti non mi bastavano. Mi sono rivolto a Rob, che lavora con la band Phoenix e che è molto forte sul fronte melodico, e a Emmanuel d’Orlando, e insieme hanno composto dei brani che apportano al film un grande impatto emotivo. Mi ero sempre detto che era necessario andare verso il melodramma! Per la registrazione, mi sono ispirato ai metodi degli anni ’50-’60, in particolare per il posizionamento dei microfoni. Abbiamo inciso in Francia con musicisti che abitualmente suonano opere liriche e che sono stati entusiasti di assaporare la musica pop guardando le immagini del film. Tutto sommato, la colonna sonora si avvicina a una commedia musicale e sono felice di questo poiché, se ci sono due cineasti che adoro per il loro senso del ritmo e delle tonalità, sono Stanley Donen e Bob Fosse.

Fonte: quattrozeroquattro


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