Intervista di Irene Gianeselli ad Yvonne Capece, attrice e regista de “La Monaca di Monza” di Giovanni Testori

Creato il 13 dicembre 2014 da Alessiamocci

Yvonne Capece è una giovane attrice e regista teatrale. Dal 2001 al 2010 è diretta da Carlo Cerciello in “Norway.today” di Igor Bauersima, in “Macbeth” di William Shakespeare, in “Le confessioni”, in “Il cielo di Palestina”, in “Italietta” da “Petrolio” di Pierpaolo Pasolini e in “Genova 01″ di Fausto Paravidino. Paolo Coletta la dirige in “Toledo Strasse”, Umberto Serra in “Mahabarata” e Salvatore Sonnino in “Le bugie con le gambe lunghe” di Eduardo De Filippo.

Negli stessi anni è assistente volontaria per Claudio Longhi (Il matrimonio di Figaro, Omaggio a Koltes, Sallinger, Nella solitudine dei campi di cotone).

Dal 2011 al 2014 ha allestito e diretto diversi spettacoli teatrali tra cui: “Corto viaggio sentimentale”, “Sei soste nell’eros femminile” (giugno 2012), “Nel buio. Attraverso il labirinto dei pensieri inconfessabili” (luglio 2012 – luglio 2014 con vari allestimenti), “(S)Oppressori di coscienze. Interludi etico-teatrali” (giugno 2013), “Salem” (aprile 2014), “Gli Immorali” (luglio 2014).

Attualmente è insegnante ed organizzatrice di corsi di teatro inerenti alla performance dal vivo quali “I vicoli delle emozioni” (2011-12), “La metà oscura” (2012-13), “Tentazioni. Gli inganni di eros”, “Armonie aeree”, “Dannazioni”, “Indagini sul silenzio”, “L’altro specchio”, “Qi Gung per attori”, “Che ne dici”. Da tre anni è inserita nel panorama teatrale bolognese e collabora con numerose Associazioni culturali (“Fucine Vulcaniche”, “Rosencranz e Guildestern”, “Leggere Strutture”, “Spazio in 2”, “Officina teatrale dei Maicontenti”, “Il chiostro”, “La baracca Testoni Ragazzi”). Nel 2013 fonda l’Associazione culturale “(S)Blocco5” di cui è presidente e per la quale cura la direzione artistica e collabora in qualità di regista ed insegnante.

Yvonne Capece con Walter Cerrotta sarà in scena con “La Monaca di Monza“ di Giovanni Testori dal 18 al 21 dicembre 2014 al Teatro Elicantropo di Napoli.

I.G: Affrontare “La Monaca di Monza di Giovanni Testori” è una scelta complessa e felicemente ambiziosa. Com’è nato il progetto?

Yvonne Capece: È stato un incontro inaspettato. Un paio di anni fa lavorando per un corso di teatro (“La metà oscura”) nel quale veniva indagato il rapporto tra bene e male, studiavo personaggi positivi e negativi dal punto di vista teatrale e drammaturgico. Per un lungo periodo volli far concentrare gli allievi su un grande classico italiano “I Promessi Sposi” nel quale viene ampiamente trattato il problema del rapporto tra bene-male, azioni eticamente lecite e no, sfumature tra i gradi di coscienza dell’individuo. Per far in modo che potessero sperimentare teatralmente il testo, oltre ad un riadattamento di alcuni brani dell’opera di Manzoni, mi sono imbattuta nei “Promessi Sposi alla prova” di Giovanni Testori, e me ne sono follemente innamorata. La lingua e il modo in cui venivano trattati i simboli contenuti nell’opera di Manzoni mi affascinò moltissimo. Fu in quella circostanza che ho saputo che Testori aveva scritto anche una “Monaca di Monza”, riservata esclusivamente al personaggio di Gertrude, ma indagato sotto il profilo della verità storica e non della finzione letteraria. La lettura de “La Monaca di Monza” fu un’autentica rivelazione. Capii da subito che avrei desiderato metterlo in scena. Ho continuamente riletto il testo per più di un anno prima di decidermi sul serio. Alla fine l’ho fatto leggere al mio collega Walter Cerrotta, per sapere il suo parere sulla cosa, e ci siamo lanciati. “La Monaca di Monza” è un testo di grande impatto linguistico, un autentico capolavoro. La scelta di un testo di questo genere e di un autore come Testori è nata dalla volontà di dare risalto ad un teatro fondato sulla parola: una parola italiana, pura, fortemente letteraria ma dotata di una forza carnale e sanguigna straordinaria. “La Monaca di Monza” è inoltre un testo raro, andato in scena pochissime volte e solo per la regia di grandissimi registi, come Luchino Visconti o Elio De Capitani, e con l’interpretazione di grandissimi attori, come la Brignone o la Morlacchi. La prima messinscena risale al 1967, ad opera di Visconti appunto, che ne fece una realizzazione di forte impatto registico, tale da suscitare non poche polemiche, anche da parte dello stesso Testori, il quale accusò Visconti di aver rimaneggiato il testo e alterato le atmosfere sceniche andando ben oltre le intenzioni originarie dell’autore. Scegliere “La Monaca di Monza” ha significato, dunque, anche questo: confrontarsi con un classico problematico, controverso, al quale pochissimi addetti ai lavori nel corso degli ultimi cinquant’anni hanno rivolto la loro attenzione e le loro sperimentazioni artistiche. La preparazione dello spettacolo è durata qualche mese soprattutto per la complessità del lavoro drammaturgico. Dopo aver parlato con Alain Toubas – illustre erede di Testori, grazie al quale abbiamo ottenuto l’esclusiva nazionale assoluta per la messinscena di quest’opera e che ha approvato con grande entusiasmo la nostra idea – abbiamo ristrutturato il testo affinché fosse praticabile da due attori soltanto (contro gli oltre dieci personaggi dell’originale) e ci siamo preoccupati che non perdesse la forza del suo contenuto originario. Il lavoro a tavolino è stato piuttosto lungo e impegnativo, ma credo che il risultato possa ritenersi soddisfacente. Il nostro allestimento si sviluppa come un dialogo astratto tra Suor Virginia (la Gertrude manzoniana) e i principali artefici della sua prigionia e del suo calvario. L’universo nel quale si muovono i personaggi è dunque esclusivamente mentale: la scenografia scarna, scura, fatta di poche e semplici linee – che richiama ciò che rimane, nel ricordo di Virginia, di un’intera vita vissuta tra panche ecclesiastiche e scranni da feudataria – restituisce il senso di un non-luogo, di un limbo oscuro nel quale volti e parole galleggiano senza tregua, in cerca di una rivendicazione che dia senso al dolore e agli errori della vita. La parole dei personaggi si riverberano nell’aria attraverso una struttura audio che ne amplifica i sensi e la simbologia. Parole, musiche (tutte datate 1570-1610, periodo in cui si svolsero i fatti), suoni e luci vanno e vengono come echi, fantasmi, assenze, quali simboli di una verità che appare solo a lampi, e continuamente corre via per scomparire, lasciando l’uomo nel silenzio del vuoto e del Niente.

I.G.: Protagonista è la donna. In che modo credi che lo spettacolo potrebbe far riflette sulla dilagante violenza con cui vengono colpite le donne sia fisicamente che psicologicamente?

Yvonne Capece: Lo spettacolo è – come si immaginerà – interamente incentrato sul problema dell’oppressione diretta o indiretta della libertà di scelta e della volontà individuale, e sull’universo femminile quale principale vittima di questo genere di violenza. La storia di Marianna de Leyva (la Gertrude manzoniana) è soprattutto la vicenda di un’oppressione familiare e la manifestazione di come la violenza del potere si annidi (o possa annidarsi) prima che altrove tra le mura domestiche. Marianna viene costretta a monacarsi essenzialmente da suo padre, il quale desidera sottrarre alla figlia la cospicua eredità materna, il giorno in cui decide di sposarsi con una nuova donna. Si tratta di una forma di violenza non diretta che Marianna subisce fin dall’infanzia e alla quale non può e non sa ribellarsi (“La libertà si può ucciderla in molti modi.. i miei genitori scelsero quello contro cui non avrei potuto fare niente”, le fa dire Testori). Nel monastero la violenza (questa volta sociale e culturale) si manifesta nell’ipocrita esaltazione di una religione vissuta come rispetto dei divieti, delle regole e come una serie infinita di formalistiche pratiche, e viene costantemente svuotata di ogni autentico contenuto spirituale o morale. La relazione con Gianpaolo Osio, un delinquente aggressivo, violento, depravato che Marianna ama e desidera follemente, segna l’inizio della sua discesa criminale: per paura fisica dell’amante ma anche per desiderio e per fascinazione psicologica, Marianna si lascia trasportare in una spirale di delitti e di efferatezze che avrà come esito il processo e la terribile condanna. “La Monaca di Monza” è quindi soprattutto il processo ad una femminilità amputata, non riconosciuta, abusata. Ed è la storia di una prigionia durata tutta la vita. Essa dà voce ad un cammino doloroso e privo di redenzione che dal carcere familiare giunge al carcere monastico e si conclude con il carcere penale. All’interno di questa spirale di violenza il maschile acquista una rilevanza eccezionale. I principali artefici del calvario di Marianna sono il conte Martino De Leyva, suo padre, Gianpaolo Osio, il suo amante, e successivamente Federico Borromeo e i vicari criminali inviati per torturarla e condannarla ad essere murata viva. Il femminile appare solo per significare la sua assenza, la sua mancanza di forza, la sua non volontà di ribellione: le madri, le suore, le mogli presenti nella vicenda di Marianna appoggiano tacitamente (per quieto vivere) o fattivamente (come la madre superiora Francesca Imbersaga) la prepotenza e l’abuso maschile. La famiglia, il rapporto di coppia, le autorità giudiziarie e politiche, le convenzioni e la morale sociale (accolta anche da molte donne): questi i 4 tramiti attraverso i quali si esercita la violenza fisica e psicologica su Marianna de Leyva. Inutile precisare come – in forme diverse – ancora oggi essi detengano (proprio nell’ordine in cui li ho esposti) il primato della violenza sul genere femminile, che si esplica in forme fisicamente aggressive o inibitorie del comportamento naturale nel silenzio delle case, tra le carezze e le liti con i partner, nell’assenza politica e di tutela giuridica dei diritti femminili presso numerose società in forme più o meno gravi e scandalose, in una mentalità maschilista istillata in forma silenziosa e continua fin dal momento della nascita (tanto negli uomini quanto nelle donne) e che condiziona più o meno consapevolmente l’operato di molte donne e i loro orientamenti etici, sessuali, di vita ecc. La storia della Monaca di Monza è un concentrato di ogni forma di male che possa essere perpetrato ai danni di una donna, e che si riconosca in questa storia ancora così tanto del mondo in cui viviamo, è una cosa che deve fare riflettere e deve fare paura.

I.G.: Cosa significa per te, da giovane attrice e regista, essere donna di Teatro?

Yvonne Capece: Il teatro è una forma di creazione particolare, che permette di indagare attraverso il proprio corpo e le personali dinamiche emotive il mondo in cui si vive e se stessi. La fisicità e la concretezza del teatro, che fa delle nostre paure, delle nostre debolezze, del nostro corpo e della nostra intera persona un’opera d’arte, qualcosa che vale la pena guardare e di cui vale la pena parlare, è uno strumento di ricerca interiore molto potente. Per poter realizzare ed affrontare la spigolosità, la durezza o l’indecifrabilità di molte scene e di molti personaggi è assolutamente necessario guardare dentro se stessi, in quelle zone dell’anima che difficilmente scegliamo di esporre nella vita quotidiana al giudizio indiscreto degli altri. Il teatro pone in essere e dà voce a situazioni estreme e colloca l’individuo (prima di tutto l’artista, che sia interprete o regista) di fronte alle domande essenziali sulla vita e la società, costringendo chi lo fa (ma anche chi lo osserva) a scrutare nelle zone più remote della sua anima e della sua esperienza e a guardare in faccia se stesso, i propri limiti fisici o psicologici. È per questo che ha un potere liberatorio e catartico terribile e arcano. Per una donna, socialmente più esposta al dominio delle regole e delle consuetudini sociali, è una porta che permette la piena realizzazione e conoscenza di sé, in quanto crea una sospensione o una temporanea rottura dei vincoli etici comuni (anche e soprattutto di quelli personali). È un discorso che però vale nella sostanza sempre, a prescindere dal sesso di appartenenza, dall’età, dalla condizione sociale e dagli orientamenti culturali. È una magia propria del teatro mettere di fronte chiunque lo pratichi – attraverso strade e percorsi differenti – alle stesse essenziali domande. Ho avuto modo di osservare attraverso il lavoro con gli allievi o gli attori, come uomini e donne abbiano difficoltà a confrontarsi e manifestare agli altri pulsioni interiori opposte. Mi è capitato frequentemente di vedere come le donne, ad esempio, tendano a censurare l’espressione pubblica di pulsioni autenticamente aggressive o violente, mentre gli uomini hanno difficoltà in genere a manifestare stati di dolore (fisico o psicologico) e di debolezza: le attrici hanno difficoltà a picchiare in scena tanto quando gli attori a piangere. Sono le due facce della stessa medaglia, e in sostanza parlano ed affrontano da angolazioni diverse lo stesso genere di inibizione e la stessa verità.

I.G.: Che donna è la tua Monaca di Monza e come ti sei avvicinata a questo personaggio?

Yvonne Capece: La Marianna di Testori è una Furia nel senso pieno e pagano del termine: è la Vendetta e l’Ira implacabile che si solleva dall’oblio dei tempi (e della letteratura) per pronunciare la sua sentenza e la sua condanna definitiva contro Dio, contro la vita, contro la società e contro gli uomini. Il personaggio di Testori è calato in una dimensione tragica assoluta, e in molte delle sue invettive è possibile respirare il soffio terribile dei monologhi della grandi eroine classiche e delle loro maledizioni (Medea, Electra o Clitemnestra, ma anche Didone e la schiera delle amanti abbandonate). Essa dava voce ad una parte di me molto dominante ma anche a risvolti di odio e di impotenza feroce che mi erano sconosciuti. È stato tanto facile comprenderla quanto faticoso (anche fisicamente faticoso) farla vivere. L’energia terrificante del suo dolore, che non ammette requie dall’inizio alla fine dello spettacolo, andava oltre le mie forze naturali e quello che credevo di riuscire fisicamente e psicologicamente a sostenere mentre recitavo. Provare mi ha causato diversi acciacchi fisici – anche dal punto di vista vocale – ma la parte di me che ho potuto indagare ed esprimere ha ricompensato ampiamente gli sforzi fatti per riuscirci.

I.G.: Ai nostri tempi si ha spesso la sensazione che nonostante l’ostentazione del nudo, questa programmatica esposizione sia fine a se stessa ed eluda la possibilità che al corpo sia finalmente restituito un significato. Lo spettacolo tocca problematiche attualissime: dal rapporto conflittuale con la religione e con chi la impone alla sofferta accettazione della propria fisicità e delle proprie passioni. Credi che la nostra società sia pronta a smettere di riconoscere il corpo solo come una merce di scambio o come una maledizione da nascondere con vergogna?

Yvonne Capece: Il cammino verso un’appropriazione completa e pacifica del corpo è socialmente ancora molto lungo, eppure molti passi avanti sono stati fatti in questa direzione. L’ostentazione del corpo e della sessualità (anche femminile) è parte di un percorso di liberazione e riconoscimento dell’eros e delle passioni che è ancora in atto e di cui il mondo, dagli anni ’50 in poi, sta prendendo via via sempre maggior coscienza. Non rappresenta in sé una maledizione o una condanna, purché si sia socialmente ed eticamente coscienti che esso è un passaggio verso qualcosa che ancora collettivamente non riusciamo a vedere, e non il punto di arrivo. Per quanto concerne il lavoro che abbiamo fatto su “La Monaca di Monza” abbiamo tuttavia deciso di non forzare la linea corporale e sessuale che il testo e la vicenda pure suggerivano, proprio per non cadere in facili ostentazioni del corpo e della sessualità, di forte impatto scenico e mediatico ma altrettanto vuote di significato. Il semi-nudo, presente in alcune delle scene dello spettacolo, viene trattato con molta naturalezza e discrezione e non rappresenta affatto il nodo cruciale delle nostre scelte registiche: abbiamo privilegiato la restituzione del senso dei grandi interrogativi sul dolore e sugli errori della vita, piuttosto che la sconcia vicenda erotica di una suora puttana. Io credo in definitiva che una buona strada verso quel riconoscimento pieno del corpo e dei suoi significati, anche carnali, passi attraverso politiche culturali e sociali che insegnino a non esulare dal corpo nascondendolo quando si vuole cercare un senso etico e spirituale delle cose, ma neppure considerarlo il contenitore materiale di tutto, ritenendo che sia l’unico tramite per la comprensione delle cose e per la soddisfazione personale. Ed è quello che nello spettacolo abbiamo cercato di fare.

I.G.: Essere costrette a seguire Dio rinchiudendosi tra le mura di un convento e allontanarsi dagli affetti e dal mondo, rinunciare ad appartenersi e nascondersi tra le pieghe di un velo nero: si potrebbe dire che questo personaggio rappresenti la contraddizione di una umanità che cerca il divino senza ammettere il confine della propria dimensione fisica e che perciò cerca di annullarsi pensando di potere attribuire solo alla forma, al corpo, la corruttibilità della sua natura umana?

Yvonne Capece: È questo esattamente il nodo cruciale dell’opera di Testori: un dialogo incessante e inappagante con Dio, e quindi con la dimensione mistica dell’esistenza, vissuto nella esasperata contraddizione di spirito e corpo, di esigenze della carne ed esigenze dell’anima. Il Dio contro il quale Marianna si scaglia è un principio spirituale che nega al corpo la sua voce, pur teologicamente ammettendo che tale corpo è il solo tramite verso la verità e la conoscenza. In una delle prime battute dello spettacolo Marianna si rivolge a Dio in questi termini: “Il verbo s’è fatto carne, e tu lo sai Dio di materia e di sangue che ci guardi in questa notte di sortilegi e di paure. Ma adesso è la carne che si alza per farsi verbo, a chiamare in giudizio Te, i tuoi disegni, la tua stessa natura”.

I.G.: Manzoni non approfondisce realmente la figura di Egidio. Come avete scelto di renderla nel vostro spettacolo?

Yvonne Capece: In effetti l’Egidio manzoniano è un personaggio dai tratti piuttosto indistinti e confusi: Manzoni ne fa il simbolo della sregolatezza, della violenza e della vacuità di una certa società aristocratica, arroccata nei suoi privilegi e in un narcisistico ed egoistico credo sociale che non ammette sentimenti quali la comprensione e il rispetto degli altri, e non riconosce l’umanità come un insieme omogeneo di individui dotati dei medesimi, inviolabili diritti (primi fra tutti quello alla vita e alla libertà di scelta e di espressione). La visione etica di Manzoni e la sua critica sociale è da questo punto di vista molto emancipata. Si può dire che la coscienza collettiva attuale sia in parte frutto di simili evoluzioni del pensiero sociale. A Manzoni Egidio non serviva che per esprimere questo. Il Gian Paolo Osio di Testori è un individuo estremamente più complesso, la sua stessa violenza diventa la manifestazione di una ribellione estrema ai dogmi etici e all’ordine pre-costituito. Un ordine nel quale Osio non si riconosce. In questo senso egli si pone su una linea del tutto antitetica rispetto al personaggio manzoniano. In Egidio la violenza è una manifestazione dell’ordine sociale costituito e delle sue regole, in Osio essa rappresenta l’opposizione e la ribellione a tale ordine. Il personaggio di Osio sembra inoltre più aderente alla verità storica dei fatti. Manzoni fa di Egidio un godereccio signorotto di città che usa Gertrude per fini sessuali o politici. Dalle carte del processo contro Marianna si evince invece l’esistenza di un amore profondo e corrisposto tra lei e il conte Osio (durato quasi dieci anni, cioè fino alla morte di lui), oltre che una pari e consapevole complicità nelle vicende sanguinarie che li coinvolsero: Osio riconobbe i figli avuti con Marianna, accogliendoli nella sua casa e dando loro il nome del suo casato; dopo l’arresto di Marianna scrisse numerose lettere al cardinale Borromeo tentando di scagionare l’amata dalle accuse e pregando di poterla vedere; e nelle fasi finali della vicenda decise di tornare di nascosto a Milano per rivederla almeno una volta (quando lei era ormai chiusa in carcere e lui braccato dalla giustizia con una taglia sulla testa), trovando per tale ragione la morte per mano di un amico traditore. Nel nostro allestimento abbiamo ammorbidito gli elementi di violenza bruta del personaggio, dando risalto alla componente di ribellione e dunque alle motivazioni simboliche di quella violenza e di quell’opposizione.

I.G.: Quali aspettative per lo spettacolo?

Yvonne Capece: Onorati per i diritti che Alain Toubas, erede di Testori, ci ha concesso per un anno su quest’opera magistrale, contiamo di portarla in giro per l’Italia. È un grande onore per noi, che apparteniamo ad una generazione che non ha conosciuto Testori, poter dare una voce giovane ad uno dei più grandi autori che l’Italia abbia mai conosciuto, e alla sua parola letteraria, sanguigna e carnale insieme che dà voce ai grandi problemi esistenziali che attanagliano l’uomo e la società contemporanea. Scegliere Testori e un’icona letteraria famigerata come la Monaca di Monza è una scelta che dà voce alla nostra volontà di un teatro autenticamente nazionale, fortemente italiano, che abbia il punto di origine in ciò che più conosciamo e ci appartiene (come la nostra lingua e la nostra cultura, quanto viene studiato nelle nostre scuole) per parlare di ciò che riguarda l’essere umano nel suo complesso, senza distinzioni di nazionalità, credo religioso, condizione sociale, genere ed età di appartenenza.

I.G.: Puoi parlarci dello spazio bolognese “(S)Blocco5″?

Yvonne Capece: (S)Blocco5 è una giovane associazione culturale, della quale io sono il presidente. Nasce dall’idea di un contenitore per le arti e la cultura. Il teatro per (S)Blocco5 è un impegno etico, che adempie alla sua funzione solo se capace di generare una riflessione e un’azione profonda sulla società e sugli individui, offrendo un punto di partenza per la crescita, l’integrazione e lo sviluppo della coscienza collettiva. L’Associazione (S)Blocco5 nasce a Bologna e opera prevalentemente nel territorio bolognese ed emiliano. A partire dal 2011 organizziamo corsi legati al teatro e alla performance dal vivo e allestimenti teatrali. La linea guida di tutte le nostre attività è l’idea che il teatro sia qualcosa di pericoloso, perché può condurci in luoghi non civili, non etici, non facili e non comodi. Ma quando lasciamo che ci blocchi, qualcosa dentro di noi si sblocca e viene liberato. Si tratta di una scelta culturale precisa, forte, che seguiamo con grande tenacia. Stiamo cercando di fare qualcosa di nuovo, di importante, con le nostre regie, le atmosfere che cerchiamo di suggerire nei nostri allestimenti, l’attualità di temi e contenuti, la meticolosa preparazione degli attori provenienti in larga misura dai nostri corsi. Faticosamente ci stiamo riuscendo, grazie ad un pubblico meraviglioso che dimostra di amarci almeno quanto è amato da noi. A differenza della tradizionale distinzione di generi, modi di rappresentazione e settori disciplinari, il nostro approccio è teso a favorire la fusione delle diverse forme d’arte, della cultura e della comunicazione con le dinamiche proprie dell’interazione sociale. In particolare nella valorizzazione del teatro attraverso corsi e laboratori, c’è una costante ricerca di nuove modalità di interazione tra attore e spettatore. Questo perché crediamo che nello sviluppo della creatività e del senso critico stia il segreto del cambiamento, poiché crediamo in tutto ciò che spinge verso la liberazione: un teatro complice e audace, che provochi la passione e stuzzichi la perversione; un’arte nemica e valorosa, che punzecchi la coscienza e istighi l’intelligenza; una cultura coinvolgente e degna, che stimoli le idee e favorisca la condivisione.

I.G.: Progetti futuri?

Yvonne Capece: Alcuni progetti per quest’anno sono già in cantiere. Tra i più impegnativi posso ricordare il percorso di formazione annuale di quest’anno che è rivolto esclusivamente allo studio dell’Inferno dantesco e che avrà come finalità l’allestimento di uno spettacolo molto impegnativo, che coinvolgerà oltre 25 interpreti. La riproposizione di alcuni spettacoli, come “Salem”, un testo che racconta in termini di forte impatto scenico ed emotivo un eclatante caso di stregoneria del 1600. Ed infine un allestimento de “La filosofia nel boudoir” del Marchese De Sade, nel quale l’ateismo, il nichilismo e la corporeità erotica acquistano un valore etico ed esistenziale assoluto. Questi progetti – uniti a “La Monaca di Monza” – mi fanno pensare ad un anno rivolto essenzialmente alle dinamiche della fede e del religioso, e al difficile rapporto tra anima e materia, esigenze individuali ed imperativi collettivi, tra ciò che siamo e che crediamo e ciò che la società e il nostro corpo ci impongono di essere e credere.

Written by Irene Gianeselli


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