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Intervista di Irene Gianeselli al regista Alessandro Greco per “Io sono il vento” di Jon Fosse

Creato il 16 marzo 2015 da Alessiamocci

Il Teatro India dal 23 febbraio al 1° marzo 2015 è stato la cornice di un trittico proposto dal Teatro di Roma e ATCL sul drammaturgo norvegese contemporaneo Jon Fosse. In scena “Suzannah” per la regia di Thea Dellavalle, “Io sono il vento” per la regia di Alessandro Greco e ”Inverno” per la regia di Vincenzo Manna.

Presso la Sala Squarzina del Teatro Argentina ed il Teatro India sono stati organizzati due convegni “Jon Fosse. Paesaggio nordico con figure” a cura di Antonio Audino e “Jon Fosse. Luci e ombre” moderatori Rodolfo di Giammarco e Sergio Lo Gatto con Valerio Binasco, Walter Malosti e Gian Maria Cervo, fondatore e direttore del Festival della Drammaturgia Contemporanea “Quartieri dell’arte”.  Nel 2001 nell’ambito dello stesso Festival era stata rappresentata in prima nazionale assoluta l’opera di Fosse, “Qualcuno arriverà” per la regia di Sandro Mabellini.

Alessandro Greco nasce a Roma nel 1980. Nella capitale completa gli studi e si laurea in Letteratura Musica e Spettacolo all’Università La Sapienza. Dal 2000 è al fianco del padre Emidio Greco come aiuto regista in tre film: “Il consiglio d’Egitto” (2002), “L’uomo privato” (2007) e “Notizie degli scavi” (2011). Negli stessi anni scrive e dirige diversi cortometraggi presentati in numerosi festival italiani e stranieri fra cui “La preparazione” (2004, Festival du Cinema Italien de Annecy, Dakino Film Festival, Cittadella del corto), “E adesso raccontami di te” (2007, Festival du Cinema Italien de Annecy) e “Gioco da ragazzi” (progetto ritenuto di interesse culturale nazionale dal Mibac).

Lavora anche con altri registi: nel 2010 con Roberto De Paolis per “Bassa marea” (presentato alla 67^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Controcampo e ad altri numerosi festival nazionali ed internazionali) e nel 2011 con Roberto De Paolis per “Alice” (68^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel concorso Controcampo).

Dal 2011 è autore di diverse trasmissioni televisive per RAI Cultura.

Alessandro Greco aveva già curato la regia di “Io sono il vento“ (traduzione italiana di Graziella Perin): lo spettacolo prodotto da Morel Film in collaborazione con RIC Festival 2014 ed interpretato da Giulio Maria Corso ed Eugenio Papalia aveva debuttato con successo lo scorso luglio a Rieti.

 

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Come hai conosciuto “Io sono il vento” di Jon Fosse e perché hai scelto di rappresentarlo?

Alessandro Greco: Mi è stato proposto di dirigere una pièce di quello che è il più grande drammaturgo norvegese contemporaneo. Non conoscevo Fosse e non avevo mai curato una regia teatrale. Così mi ci sono buttato come ci si butta dal nono piano di un palazzo. Ho letto molto di ciò che è stato tradotto di Fosse. Quando si mette in piedi uno spettacolo o ci si prepara a girare un film non è possibile trascurare il budget che si ha a disposizione. Tra tre testi ho scelto “Io sono il vento”, era la pièce che maggiormente poteva appartenermi.

 

I.G.: La drammaturgia di Fosse ha molteplici possibilità di messinscena. In base a quale criterio o poetica ha scelto la sua messinscena? Che rapporto c’è tra testo e regia?

Alessandro Greco: La lingua di Fosse è una lingua artificiale, ricostruita. È neonorvegese (nynorsk) in cui vengono eliminati i riflessi del danese; è come se fosse un distillato di puro norvegese. Si tratta di una lingua artificiale perché nessuno la parla. In Fosse ci sono una forte astrazione, realismo, assurdo e naturalismo. Ho voluto rispettare questo equilibrio tra invenzione e realismo. Nella didascalia iniziale Fosse scrive “tutta l’azione è immaginata” e gli attori compiono azioni immaginate, ma per rappresentare il meccanismo della vita gli attori in scena mangiano, bevono, dormono. Fosse è autore del non detto. Le pause non potevano essere vuoto fine a se stesso: le figure raccontate, i personaggi, diventano realmente vivi, acquistano forza espressiva maggiore nel non detto che nei momenti in cui discutono sul senso della vita.

 

I.G.: Quali sono gli elementi di confluenza tra il Teatro di Fosse e quello di Ibsen, entrambi norvegesi?

Alessandro Greco: Il collegamento tra Fosse ed Ibsen è inevitabile, non si può prescindere dalla tradizione. Ci sono parecchie analogie ed altrettante differenze tra i due drammaturghi. Mentre Ibsen scava nel dramma familiare, Fosse non precisa mai i personaggi connotandoli con una funzione sociale determinata, si tratta piuttosto di involucri svuotati dai rapporti interpersonali. Lo stesso Fosse è molto legato alla figura di Henrik Ibsen che presenta in “Suzannah” nel progetto del trittico per la regia di Thea Dellavalle. In questa pièce Suzannah Thoresen viene rappresentata in tre differenti età: diciannovenne, trentacinquenne e ormai in vecchiaia, “le tre donne” coesistono insieme sulla scena e raccontano del marito Henrick, disvelando il rapporto tra i due.

 

I.G.: In “Io sono il vento” un uomo interroga sul senso della vita un altro uomo che, presumibilmente, ha scelto di suicidarsi. Un dialogo che corre sul filo dell’impossibile, ma che potrebbe essere un monologo fichtiano, la coscienza si pone fondamentalmente un’unica domanda: “perché accettare la finitudine umana?” cui consegue la domanda ben più complessa “come accettarla?”. Il dialogo è ancora più interessante: nella tua interpretazione i protagonisti sono un padre ed un figlio che si incontrano sullo stesso piano temporale. È anche questo un modo per riflettere sull’esigenza di un rapporto aperto tra le generazioni?

Alessandro Greco: Il testo è stato rappresentato nella sua interezza e il poter interpretare la pièce in questo modo ha permesso che il mio immaginario si compenetrasse con quello del drammaturgo norvegese. Bisogna dare vita ai due personaggi ed ho cercato di rispettare il più possibile la poetica di Fosse. Sono convinto che gli eventi e le cose coesistano sempre anche in luoghi e tempi differenti. Sono anche convinto che il nostro Paese debba affrontare il gravissimo problema della mancanza di comunicazione tra generazioni, però quando ho pensato a ricostruire il testo sono partito da un’esigenza individuale, privata: volevo che il testo parlasse, non ad un pubblico, ma a ciascuno spettatore nella sua unità e che ciascuno spettatore potesse trovare personalmente la chiave per aprire le porte che Fosse lascia socchiuse. Il tentativo era di fare parlare personaggi e pubblico in un rapporto diretto (di 1:1 per dirla in termini matematici), anche se i personaggi in scena sono due si tratta di unicità che devono incontrarsi.

 

I.G.: Ne “Il libro del riso e dell’oblio” Milan Kundera scrive «Gli uomini gridano di voler creare un futuro migliore, ma non è vero. Il futuro è solo un vuoto indifferente che non interessa nessuno, mentre il passato è pieno di vita e il suo volto ci irrita, ci provoca, ci offende, e così lo vogliamo distruggere o ridipingere. Gli uomini vogliono essere padroni del futuro solo per poter cambiare il passato». Credi che questo sia anche l’atteggiamento dei due personaggi in scena?

Alessandro Greco: Nella pièce si svolge una indagine vicendevole, reciproca, biunivoca. “L’uno” e “l’altro” di “Io sono il vento” sono due inconsapevoli, prigionieri di uno stato che li condanna a rivivere quel determinato momento, quell’evento che ha stravolto il passato. Non sono proiettati nel futuro. Nel testo Fosse non fa riferimento a ciò che nella regia viene descritto con la partitura fisica, si tratta unicamente di un mio intervento. Ho scelto di proporre l’immagine – il pretesto perché si possa sviluppare tutta la problematicità dei due personaggi – di questo “altro” che raccoglie sulla sua zattera questo “uno” dal passato: il passato determina il presente e quindi anche il futuro. Credo sia sempre necessario metabolizzare ciò che è accaduto “prima” per affrontare il “dopo”, il futuro nel migliore dei modi.

 

I.G.: I due uomini si trovano su una barca, nel mare, ma solo uno è il vento. Chi dice di esserlo?

Alessandro Greco: L’uno, il possibile suicida. Parla di un movimento, di una necessità di leggerezza. Ma dice anche di essere una pietra, di sentirsi pesante. In questo c’è una vena kunderiana da “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: i due uomini sono sospesi in una zattera che è pesante, mentre il mare sotto di loro è leggero. L’uno comincerà dicendo «Io sono il muro di cemento. No, sono il muro che si crepa. No, io sono la crepa». E concluderà di essere diventato il vento. Pesantezza e leggerezza convivono.

 

I.G.: Viviamo un momento storico in cui spesso l’appuntamento con la morte sembra possa essere rimandato con un colpo di bisturi o con l’atteggiamento da eterni ragazzini. Il tempo sembra non avere una dimensione definita, ma pare essere unicamente una condanna. Credi che il teatro possa essere ancora il luogo per ridefinire e ripensare se stessi nel tempo?

Alessandro Greco: L’esperienza teatrale è sicuramente fondamentale per chi recita, per chi la vive nel proprio corpo e per gli spettatori. Il Teatro è sempre qualche cosa di vivo. Ognuno vive il passare del tempo come può. Purtroppo il trascorrere del tempo è una condanna, ma il Destino, per me, è una scusa e forse non ho superato la fase post adolescenziale, ma mi piace pensarmi immortale, pensare di avere davanti davvero tanto tempo. Fuggire senza utilizzare, o tentare di utilizzare, il tempo che abbiamo a disposizione nel migliore dei modi è deleterio, potremmo accettare di vivere “con un piede nel passato e lo sguardo nel futuro” direbbe Bertoli. Accettare di vivere il qui e ora e se il tempo che abbiamo lo passiamo nel teatro o andando a teatro, certamente non è tempo perduto.

 

I.G.: Coma hai scelto gli attori per questo spettacolo? Puoi parlarci della tua esperienza con loro?

Alessandro Greco: Per scegliere gli attori ho fatto dei provini. Volevo lavorare con ragazzi che fossero più giovani di me (io ho circa trentacinque anni) e li ho cercati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e al Centro Sperimentale di Cinematografia. Il primo che ho scelto è stato Eugenio Papalia, poi ho scelto Giulio Maria Corso. Mi hanno davvero colpito. Ho chiesto a tutti di leggere il monologo finale di “Io sono il vento” e loro mi hanno sorpreso. È stato molto interessante lavorare con Giulio ed Eugenio: è la prima volta che dirigo senza il filtro della macchina da presa, non ho dovuto parcellizzare la loro recitazione in fase di montaggio, ma ho visto tutto il loro corpo nel movimento, nei tempi di una battuta. Non ho scelto di fare vedere allo spettatore un primo piano o una mano, ma era tutto in un uno stesso momento molto intenso. Può sembrare banale per chi abitualmente dirige gli attori a teatro, ma questa nuova esperienza mi fa sentire più completo.

 

I.G.: Morel è il nome della produzione dello spettacolo e ricorda il primo lungometraggio “L’invenzione di Morel” di Emidio Greco. Quanto è stata importante per il tuo percorso l’eredità artistica di tuo padre?

Alessandro Greco: È stata fondamentale. Mio padre mi ha insegnato tutto quello che so. I padri non si scelgono nella vita, io sono stato molto fortunato. Il nome della società è una piccola citazione: alla fine, anche per me, anche se non ero nato, tutto inizia con “L’invenzione di Morel“. 

 

Written by Irene Gianeselli

 


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