Intervista di Irene Gianeselli all’attore Michele Placido: la passione e la libertà

Creato il 02 marzo 2015 da Alessiamocci

 Ama la poesia Michele Placido e attraverso la poesia (e l’incoraggiamento della sorella) giovanissimo scopre la vocazione di attore. Si forma all’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica, nel 1970 debutta diretto da Luca Ronconi ne “L’orlando Furioso” di Ludovico Ariosto.

Nel 1973 incontra il cinema con “Teresa la ladra” di Carlo De Palma cui seguiranno ”Romanzo popolare” di Mario Monicelli, “Mio Dio, come sono caduta in basso!” di Luigi Comencini e ”Marcia trionfale” di Marco Bellocchio.

Poi una lunga ed intensa carriera di attore diretto, fra gli altri, da Damiano Damiani, i fratelli Taviani, Marco Risi, Gianni Amelio, Nanni Moretti e Giuseppe Tornatore.

Dal 1985 al 1989 è il commissario Cattani nella serie televisiva di successo internazionale de “La Piovra” cui seguiranno ruoli di grande impegno sociale da Falcone a Provenzano a Padre Pio.

Firma numerose regie teatrali e cinematografiche fra cui “Romanzo criminale”, “Il grande sogno”, “Vallanzasca – Gli angeli del male”, “Il cecchino” fino a “La scelta” tratto da “L’innesto” di Luigi Pirandello in uscita ad aprile 2015.

Il 13 e 14 febbraio al Teatro Petruzzelli di Bari è andato in scena “Re Lear” di William Shakespeare tradotto, diretto e interpretato da Michele Placido che dopo lo spettacolo mi ha incontrato per i lettori di Oubliette Magazine con grande disponibilità.

“Re Lear” è ancora in scena fino all’8 marzo al Piccolo Teatro di Milano, il 10 e l’11 marzo sarà al Teatro Sociale di Como.

I.G.: La ringrazio per la disponibilità. Lei è regista, interprete e traduttore del “Re Lear”. Può parlarci del suo lavoro sul testo shakespeareano?

Michele Placido: La traduzione è sempre un tradimento. È molto complesso riuscire comprendere come adattare il significato del testo al proprio corpo, alle proprie intenzioni. Peter Brook che con quattro attori metteva in scena la tragedia, ma specialmente Carmelo Bene che ha ricostruito il testo in maniera molto provocatoria, sono esempi eccellenti dei vari approcci che si possono avere a “King Lear”. Il modo migliore per avvicinarsi ad una traduzione che rispetti il significato dell’originale è proprio fare riferimento al Teatro di Shakespeare stesso, per esempio, noi diciamo “recitare”, ma in inglese si dice “to play”, in francese “jouer”: il Teatro è esattamente un gioco. Ed ancora, nel teatro elisabettiano la tempesta era metafora della distruzione di un equilibrio, riuscire a rendere oggi questa immagine non è poi così difficile: basta non delegare ad effetti esageratamente tecnologici la forza di Shakespeare. Con Marica Gungui abbiamo lavorato molto anche sulle traduzioni precedenti ed ogni attore, tutti i giorni, proponeva un suo contributo sul proprio personaggio. Per quanto riguarda la regia, una scena in particolare mi sta molto a cuore, quella della trasformazione di Edgard: ho voluto che Francesco Bonomo dicesse ogni battuta accompagnando la parola con il gesto. Molti registi mostrano la trasformazione di Edgard in Tom quando è già avvenuta. Vincendo le piccole resistenze di Francesco ho voluto che il pubblico vedesse Edgard mentre si spoglia e si lacera le carni: la nudità – che ho scelto di inserire nella scena ricordando quella di San Francesco – deve evidenziare che il corpo è realmente oggetto di trasformazione nel Teatro.

I.G.: L’intera tragedia è percorsa da un conflitto generazionale tremendo. Lei ha voluto al suo fianco, nel ruolo del Matto, suo figlio Brenno: un esempio di quanto il Teatro possa essere un sano momento di scambio generazionale.

Michele Placido: Prima di Brenno avevo in mente un altro attore, ma la scelta è ricaduta su di lui perché ragionando sul personaggio shakespeareano sono arrivato alla conclusione che la figura del Matto è una proiezione, un alter ego dello stesso Lear. Volevo che ci fosse una somiglianza, anche fisica, tra me e l’attore che avrebbe dovuto interpretare il Matto. Così ho proposto a Brenno la parte, non che all’inizio sia stato facile: questo è il suo debutto teatrale nella nostra compagnia – una compagnia privata che si sostiene da sola -. Mettere in scena questo spettacolo mi dà la possibilità di riflettere sulla condizione dell’Attore nel Paese: c’è una nuova generazione di attori che non hanno la possibilità di lavorare. Ed è un peccato, i giovani sono importanti e bisogna farli crescere.

  

I.G.: Come ha visto crescere lo spettacolo in questi anni?

Michele Placido: Dopo centocinquanta repliche qualunque spettacolo si trasforma, molti critici però scrivono sugli spettacoli dopo avere visto solamente la prima. Credo sia un errore. Gli attori seguono una regia, ma sento di potere dire che esiste anche una regia del pubblico. Una scena funziona o meno, un gesto funziona o meno, una intonazione è coinvolgente e provoca l’applauso perché sottolinea la parola, ma tutto questo lo si scopre osservando la reazione del pubblico. Per me è molto importante ascoltare i consigli silenziosi del pubblico. So, per esempio, che l’ultima battuta di Edgard – “dobbiamo dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene” – è sempre accompagnata da un applauso e non solo perché è l’ultima battuta della tragedia.

I.G.: Un momento importante nella tragedia è quello in cui Edgard accompagna il padre cieco, il Conte di Gloucester. In questo passo a due tra padre e figlio, cieco e folle, ancora una volta Shakespeare propone una metafora dell’Attore. Per dirla con Artaud una metafora dello “straniamento” dell’Attore che si lascia guidare dal personaggio.

Michele Placido: Il senso straordinario di questa scena è nell’immagine del figlio quando prende il padre sulle spalle e allontana il peso della negatività che lo ha costretto a travestirsi, il figlio allora si assume una responsabilità e supera il conflitto generazionale, assume su di sé il mandato di ristabilire un ordine che nella tempesta era crollato. La cecità di Gloucester è anche morale, è importante perciò che il figlio, dopo avere conosciuto la follia, per tornare ad essere forte, attraversi con lui un percorso verso un’etica ed una morale che aveva perduto.

I.G.: In Shakespeare c’è continua tensione tra unità e divisione, ogni tragedia in cui un potere viene meno perché è usurpato o crolla per remissione,  si conclude con un ritorno all’ordine necessario. Lei come crede si possa ritornare ad una unità nei nostri giorni?

Michele Placido: Shakespeare sparge sangue per fare riflettere sullo stato delle cose nel genere umano di ogni epoca. Pensa al secolo scorso, quest’anno ricorre il centenario dalla Prima Guerra Mondiale. Non bisognerebbe ricordare le guerre celebrandole con orgoglio nazionale, ma per riflettere sulla nostra condizione. Shakespeare non celebra mai l’uomo nel sangue, ma arriva un momento, come in Re Lear, in cui l’uomo tocca il fondo senza speranza. Shakespeare azzera ogni possibile spiraglio di speranza a meno che non si cominci a parlare per ciò che si sente e non per ciò che conviene. Penso al destino dell’uomo ed alla ripetitività dei massacri, della non tolleranza. C’è sempre più una disgregazione dell’idea di comprensione: la convenienza corrompe le religioni, la parità tra uomo e uomo e tra uomo e donna. Tolleranza non è solo rispettare, ma sapere riconoscere che è necessario individuare negli altri sensibilità e culture differenti. Abbiamo assistito ad un momento terribile in Francia e noi stessi viviamo con la paura di questi attacchi continui. Ovviamente è inconcepibile che quei giornalisti siano stati uccisi, ma questo deve portarci a ripensare il rispetto: fare una vignetta non costa nulla, ma ci si deve fermare a riflettere sulla sensibilità altrui, sulla cultura, sulla necessità e sul senso. Come Edgard suggerisce, bisogna dire ciò che si sente, non ciò che conviene. Altrimenti, davvero, non c’è speranza.

I.G.: Le donne in “King Lear” sono manipolatrici, ma si fanno anche condurre dagli uomini, a loro volta manipolate. Sono donne violente che si abbruttiscono e mortificano la propria etica e moralità, donne che uccidono. Lei come vede la condizione attuale della donna?

Michele Placido: Non esistono personaggi buoni o cattivi, questo bisogna sempre considerarlo. Nel Lear le donne hanno un mandato al maschile e nel gioco di potere hanno anche una certa parità con l’uomo. Shakespeare, diversamente da quello che ci piacerebbe vedere, ha poca fiducia nei confronti delle donne, specialmente nei confronti delle donne in cui la sessualità fa leva sul loro lato peggiore, infatti mostra spesso il meccanismo corrotto tra il loro ruolo etico e quello affettivo. Le donne moderne hanno più esperienza e possono raggiungere grandi risultati: sono degne di essere regine – proprio come Cordelia, la pura Cordelia – e penso alla Regina d’Inghilterra o alla Regina d’Olanda di oggi. Sicuramente bisognerebbe cercare di distaccarsi dal tabù e da una certa tradizione che costringono le donne a ruoli marginali o non dignitosi. Credo che anche nella religione il ruolo delle donne dovrebbe essere diverso: ricordo quanto mi ha commosso vedere nella Chiesa Anglicana una donna con accanto i suoi figli dare i sacramenti, essere ministra del rito. Le mani degli uomini non sono delicate come quelle delle donne. Eppure oggi scandalizzerebbe vedere una donna fare il Papa. In Italia la condizione di parità dovrebbe essere incentivata. Più dignità alle donne significa dare loro lo spazio che meritano. Sono convinto che eticamente le donne possano essere anche migliori degli uomini.

I.G.: Ha spesso detto che i giovani sono importanti per il Teatro e per l’arte: cosa direbbe ad un giovane che voglia fare Teatro?

Michele Placido: Rimanendo nell’ambito pugliese, ci sono tantissimi attori eccellenti che potrebbero insegnare molto. Ai Maestri si deve tutto. Ricordo sempre gli insegnamenti pazienti e la dolcezza di Costa, quelli di Strehler (per me è indimenticabile il provino che feci per la parte di Calibano), quelli di Ronconi quando mi prese per l’Orlando Furioso. I Maestri sono importanti perché coltivano la creatività dei giovani. Organizzare corsi accessibili a tutti, anche in ambiti come l’Università, sarebbe importantissimo. Ai giovani dovrei rispondere come rispondeva Eduardo: «Non fate questo mestiere, perché logora», ma poi… 

Written by Irene Gianeselli


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