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Intervista di Irene Gianeselli all’illustratore e pittore Mauro Vecchi: l’epifania dell’inattuale

Creato il 11 dicembre 2015 da Alessiamocci

Mauro Vecchi nasce a Parma nel 1963 dove frequenta l’Istituto d’Arte. Nel 1983 collabora con Bonvi e durante gli Anni Ottanta con le riviste “Zut” e “Comic art” impegnato anche come illustratore per riviste di moda a tiratura nazionale.

Negli Anni Novanta collabora con le edizioni “Panini” e con la casa editrice “Universo”.

Pubblica storie a fumetti per le riviste “Animals” e “Touch” e partecipa a pubblicazioni di fumetto d’autore. Dirige laboratori di fumetto per varie associazioni e per l’Istiuto d’Arte “Paolo Toschi” di Parma continuando tutt’oggi la sua attività di illustratore e pittore.

Mauro Vecchi racconta la sua “poetica” ai lettori di Oubliette Magazine.

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. La prima domanda non può essere che questa: perché hai scelto il disegno, perché hai scelto questa forma di rappresentazione?

Mauro Vecchi: Le cose sono andate in questo modo: come tutti i bambini, fino ad una certa età, disegnavo per così dire, naturalmente, poi come quasi tutti i disegnatori, semplicemente non ho smesso. Disegnare era un modo per appropriarmi delle cose che stimolavano la mia immaginazione, per ricreare contesti e situazioni come piaceva a me, e la cosa è semplicemente andata avanti. Non avevo un particolare gusto per la cosa fatta bene, il disegno era più un mezzo per operare perlustrazioni. Riempivo taccuini di fumetti avventurosi infarciti di lunghissimi dialoghi, ma anche altri dove c’erano osservazioni di tipo “scientifico” naturalistico, oppure mappe, mi perdevo a disegnare dettagliatissime cartine di paesi inesistenti, schemi di sommergibili o grandi battaglie, cose così. C’erano periodi in cui non mi si poteva staccare dai fogli ma spesso capitava che me ne dimenticassi e il disegno non era più così importante, c’erano altre cose, e devo dire che è continuato a succedere.  

I.G.: Ricordi quale è stato il tuo primo disegno?

Mauro Vecchi: Diciamo che certi disegni si lasciano ricordare più di altri, ma non posso dire che siano veramente stati  più importanti. C’erano dei temi nei quali entravo, e magari fra i vari disegni che facevo attraversando il tema che mi appassionava in quel momento, alcuni erano meglio di altri, ma la cosa importante era il tema, appropriarmene attraverso un mezzo che mi permettesse di esserne padrone. Il singolo disegno, anche venuto bene, non ha mai avuto una particolare importanza, giacché una volta finito ero preso dalla foga di farne immediatamente un altro e così via. Per cui mi viene difficile pensare ad uno dei tantissimi disegni che ho fatto nell’infanzia o anche dopo come decisivo o particolarmente significativo. D’altronde oggi la cosa continua esattamente nello stesso modo. Credo che il senso del mio disegnare stia semplicemente nel non smettere di farlo. Quanto più sto su un tema e tanto più l’esplorazione si estende ed esso prende forma. Ci sono disegni che sono vicoli ciechi, momenti di apparente inutilità, che nell’ottica dell’opera finita sono la parte rifiutata, quello che non vedrà mai nessuno, ma anche quelli hanno una loro importanza. L’esperienza di una fase o di un tema, che prenda forma in un’opera organica oppure no, sta nell’insieme di ciò che ho fatto, anche in questi disegni che sono vicoli ciechi. 

I.G.: Hai collaborato con la rivista satirica “Zut”, cosa puoi raccontarci di quel periodo? Cosa significava e cosa significa adesso fare satira attraverso le immagini?

Mauro Vecchi: La collaborazione con Zut fu qualcosa di fortuito. Un tizio che ci scriveva vide i miei disegni, li fece vedere al direttore del giornale e mi chiesero di andare. Si trattava di trasferirsi a Roma; ovviamente mi precipitai.  Non so come funzioni oggi, ma lì si lavorava in redazione con i ritmi serrati di un settimanale. Era piuttosto divertente per l’atmosfera che si respirava, era un via vai continuo di personaggi, ma devo dire che non ero molto interessato alla satira. Ero bravo e con uno stile aggressivo, e seppure avessi una tendenza a distorcere le figure con una sorta di feroce sarcasmo non ero un vero disegnatore satirico. Peraltro ho sempre guardato alla satira politica e di costume con un certo sospetto, c’era, per forza di cose quella vicinanza al potere che oltre a deriderlo mi pareva in qualche modo celebrarlo. Quando poi vedevi certi politici che telefonavano in redazione per chiedere in regalo le vignette in cui venivano dileggiati (e ci si andava pesante) allora ti rendevi conto che i primi a divertirsi erano loro, che il clima di scandalo palese era tale che tutto cadeva in un’ insignificanza imbarazzante. La rivista, pur in fase di aumento di vendite e con notevoli risorse alle spalle, implose per questa ragione. Fu un’esperienza istruttiva, conobbi persone interessanti, ma ebbi la conferma di una mia impressione, cioè di una sostanziale irrilevanza politica della satira. Posso apprezzarla come forma narrativa ma niente di più. Da allora non me ne sono più occupato, non mi interessa. 

I.G.: Quali sono stati i tuoi punti di riferimento nel fumetto prima di intraprendere il tuo personale percorso?

Mauro Vecchi: Del fumetto mi sono sempre piaciute pochissime cose. Il mio vero grande amore fu Moebius. Anche se disegnava western e fantascienza, cose che non mi piacevano, mi avvinceva il suo atteggiamento apparentemente lieve e insieme terribilmente serio e destinale. Devo dire che ero affamato di tutto, pittura, fotografia cinema, che studiavo con molta attenzione. Fumetti ne ho sempre comprati pochi. Ci sono autori che ancora adesso apprezzo, come Toppi, Breccia (padre) e Bill Sienkiewicz prima della fine degli Anni Ottanta (quello di oggi pur essendo uno straordinario disegnatore mi interessa meno). Oggi piuttosto che i grandi nomi apprezzo molto autori dell’underground italiano, ce ne sono di bravissimi, d’altronde la teoria della mia carriera mi ha visto collaborare da case editrici importanti a piccole etichette di nicchia. In genere capita il contrario ma nonostante le offerte che mi vengono fatte preferisco andare dove posso fare quello che mi piace. Vedi, il fumetto è un magnifico mezzo di espressione dove puoi lavorare con la scrittura e il disegno insieme, ed io credo di aver passato altrettanto tempo a scrivere quanto a disegnare, ma non posso dire di essere un amatore del fumetto più di altre forme di espressione, è semplicemente quello che so fare, e infatti quando entro in una libreria di fumetti trovo di rado qualcosa che suscita la mia curiosità. 

I.G.: I tuoi fumetti conservano un profondo e pungente sarcasmo, un umorismo aspro, molto schietto. Questo si traduce nel segno rigoroso, assolutamente originale, che ben definisce le dinamiche interne ed esterne ai personaggi. C’è un continuo scambio di umori tra i corpi e le città, le case, le stanze in cui si muovono. Come hai costruito il tuo stile e come scegli cosa raccontare?

Mauro Vecchi: Ecco, l’aspetto di crudeltà, diciamo in senso Artaudiano, e di sarcasmo sono un tratto distintivo di ciò che faccio, non è il risultato di un progetto ma solo ciò che mi viene. In generale ho un atteggiamento reattivo, mi lascio attraversare da ciò che vedo, poi comincia una reazione di tipo automatico. Ci sono stati anni in cui ho cercato di “progettare”, di dare un senso a quello che stavo facendo trovandomi immancabilmente in una dimensione inautentica. Da tempo ho abbandonato ogni presupposto ma questo non significa che non sia consapevole, anzi, la mia apprensione nei confronti dei temi che incontro è diventata diretta, priva di sovrastrutture fuorvianti. Ad esempio, non amo i personaggi, e questo per quel che riguarda il fumetto complica davvero le cose. Quando lavoro su un carattere, più ci sto sopra e più lo vedo scomparire. Quando cerco di fissare qualcosa, l’universo si fa trasparente, tende a dissolversi nell’insieme delle radianze, questo mi porta a prestare attenzione agli aspetti sottili della realtà, all’apparire di zone liminali in cui il commercio quotidiano vibra in modo quantico. Le storie che faccio sono un precipitato di questo atteggiamento, quindi i contesti possono essere i più disparati. Perlopiù colgo nel mazzo. 

I.G.: Bianco e nero, colori terrosi e poco saturi. Qual è il tuo rapporto con il colore?

Mauro Vecchi: Il bianco e nero puro, la grafica tipica dei fumetti, non mi interessa, è troppo formale. Ha la sua utilità di sintesi per mettere in evidenza le cose, ma per me bianco e nero significa che c’è anche il grigio, mezzo tono. Nella mia vita professionale ho fatto cose in bianco e nero ma ogni volta è stata una sofferenza e in definitiva un errore, un’uscita di pista. Se devo disegnare in bianco e nero spesso uso la penna biro, che mi permette di fare mezzi toni con una certa facilità. Quando entro nel mondo del colore, penso immediatamente ai colori. Capita, ad esempio, se devo fare un disegno, che mostri prima una bozza a matita, ma io so già quali saranno i colori, anzi è dai colori che in genere parto e non dalle figure, nell’esecuzione poi cerco il più possibile di evitare il disegno, di fare le cose direttamente a colori. Se si tratta di un lavoro che andrà in stampa la scelta che devi fare con i colori è sempre una sintesi mortificante. Per quanto ho una sufficiente esperienza per sapere cosa accadrà di quello che sto facendo nella trasposizione in stampa, c’è sempre in ciò che dipingo qualcosa che si perderà, ma da questa necessità non posso fare a meno di astenermi. Tieni conto che io non so cosa sia la post-produzione digitale. Ho cinquantadue anni e non ho la più pallida idea di come funzioni Photoshop o qualsiasi altro sistema di color-correction. In questo senso, l’unica cosa che faccio è usare al meglio il mio scanner per rendere il più possibile simile i colori del file con l’originale. Oggi nel fumetto praticamente tutto viene colorato ma di rado vedo un uso attento del colore. Ad esempio il fumetto americano degli ultimi dieci anni lo trovo inguardabile, seppure lì negli Anni Novanta sono state fatte cose molto belle; ora non è più che un modo per riempire le tavole in senso decorativo. In Europa si lavora un po’ meglio. Penso che ci sia una grande differenza fra una cosa colorata una cosa “a colori”. Riferendomi a quello che ho detto in precedenza penso sia chiaro cosa intendo. Per quello che riguarda la tavolozza posso dire di aver usato il colore in tutti i modi possibili e con tutte le tecniche, se non altro proprio per la mia esperienza di illustratore. Una ventina d’anni fa prediligevo tinte piatte, sature, dalle quali far emergere cose vive a tutto tondo, adesso apprezzo di più gli insiemi che risuonano, piuttosto che i contrasti. In generale in disegno ho uno stile sfuggente. Lo stile è il marchio per un disegnatore, più vai avanti più l’affermazione di uno stile è emblema di riconoscibilità, tuttavia per me eccedere in questo significa escludermi delle possibilità. Sono certo del fatto che il mio tratto sia sempre più definito e riconoscibile, ma non voglio includerlo in una tecnica che lo sclerotizzi, Ci sono autori che fanno questo volutamente, come un progetto definito di auto storicizzazione: è una scelta. Nell’uso del colore mi comporto nella stessa maniera: ho provato a definirmi in un criterio tecnico definito, ma alla fine ho realizzato che non fa per me. 

I.G.: Nelle tue tavole è presente l’eco dell’inquietudine di Munch, Schile, Kokoschka. Nei tratti spigolosi di alcuni soggetti o nella brutalità di alcune incisive situazioni il confine tra realtà ed incubo è molto sottile. A volte è un filo di fumo che esce minaccioso dalla ciminiera di una fabbrica a trasformare e deformare l’uomo.

Mauro Vecchi: Sulla scelta di un tema, di un soggetto, sul come trattarlo si gioca il modo in cui vuoi raccontare la realtà, e questo è una cosa che decidi fino ad un certo punto. Ogni volta che realizzi una figura, nel momento in cui lo fai, se lavori con spirito di autenticità, tutto il portato di cultura e sentimento di cui sei espressione si impone comunque. La tecnica in questo senso ha un’ importanza relativa, i temi sono importanti! I territori che vuoi esplorare o nei quali ti trovi tuo malgrado. Ci sono stati anni in cui disegnavo, o meglio, cercavo di ambientare tutto ciò che facevo in un contesto arboreo. La foresta, il santuario della natura arborea mi attraevano in maniera decisiva. Precedentemente avevo passato anni a disegnare esperienze psichiche limite in contesti urbani hardboiled, ma nel momento in cui ebbi a che fare con la nascita di mio figlio, che oggi ha vent’anni, da quell’ambito esasperatamente orizzontale in cui agivo divagando senza nessun vincolo, sentii la necessità di mettere quello che facevo in qualche modo in rapporto con la trascendenza e questo mi portò verso scenari in cui fosse il più possibile assente l’elemento della sofisticazione, aprendomi a visioni in cui la forma della natura a me più consueta mi presentasse più direttamente il dualismo vita-morte. La foresta non è solo luogo di crescita, è luogo nascosto, putrefazione; c’è l’arcadia, ma anche la trappola fangosa della forra. In quel momento quel grande organismo nel suo rituale di attuazione era un modo per riflettere il mistero dell’esistenza che in maniera così diretta la presenza di mio figlio mi imponeva. Ma poi le cose sono cambiate, e proprio lì, proprio in quel “waldgang” si sono aperti degli squarci in cui ho potuto osservare che tutto è in relazione con tutto, e capire questo è un aspetto del nostro destino. Quando disegno un personaggio, un ambiente, vorrei che questa cosa apparisse evidente. E qui viene il mondo che solo in apparenza è da incubo, quanto di illogica mutazione, in cui gli elementi dello scenario che abitiamo, organici e inorganici, tendono a confondersi. Quello che mi interessa, piuttosto che trattare di una attualità mistificante è il fatto che abitiamo un universo di radianze, di trasparenze, di forme ambigue, da cui, se si impone un’apparizione è l’epifania di qualcosa di inattuale.

Written by Irene Gianeselli

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Sito La Zona 314


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