Intervista di Irene Gianeselli alla scrittrice Elisabetta Bucciarelli: “La resistenza del maschio” e l’arte di misurare la distanza

Creato il 20 marzo 2016 da Alessiamocci

 “«C’è una geometria in ogni circostanza della vita. E ogni esistenza ha una sua forma geometrica» dice quasi tra sé ma lo sentono tutti.

«Bella prof» commenta un ragazzo in prima fila.

«Questo è un altro motivo per cui credo sia importante insegnarvi a misurare le distanze, una volta che avremo stabilito come si procede e ci saremo allenati a farlo, tutto sarà più semplice. Non solo nella professione. Ricondurre l’esistenza a un segno è un’operazione di sintesi. Noi siamo ancora fermi all’analisi, riconoscere le parti, trovare le invarianti, ecco cosa mi aspetto da voi».

È convinto che ci siano molti segreti nella misura degli oggetti. Lui misura per trovare qualcosa che sente ma non conosce ancora. Per cogliere le relazioni tra le cose e tra le persone. Per trovare il suo posto nello spazio.” – Elisabetta Bucciarelli, La resistenza del maschio, NN Editore, 2015

Elisabetta Bucciarelli è nata e vive a Milano. Diplomata presso il Laboratorio di Scrittura Drammaturgica del Piccolo Teatro di Milano, ha esordito a vent’anni con il testo teatrale Forte come un toro, messo in scena al Macello comunale di Milano con la regia di Michele De Vita Conti. Ha scritto per il teatro, la televisione e il cinema. La sua sceneggiatura Amati Matti ha partecipato alla 53° Biennale del Cinema di Venezia con menzione speciale della giuria. Ha pubblicato i saggi Io sono quello che scrivo, la scrittura come atto terapeutico e Le professioni della scrittura Scrivo Dunque Sono. Trovare le parole giuste per vivere e raccontarsi.

Ha firmato numerosi racconti, distribuiti tra quotidiani (italiani e stranieri) e antologie, quali La listaL’abbraccio e L’ordinanza contenuti in tre volumi di Guanda editore. È autrice di testi d’arte, divulgatrice poetica e letteraria, conduttrice di laboratori di Scrittura Espressiva. Nell’autunno 2005 è uscito il primo romanzo Happy Hour che inaugura la serie con l’ispettrice milanese Maria Dolores Vergani, cui fanno seguito Dalla parte del torto (2007), Femmina de luxe (2008), Io ti perdono (2009), Ti voglio credere (2010), Dritto al cuore (2013).

Nel settembre 2015 è uscito per i tipi di NNE La resistenza del maschio, in prima ristampa nel novembre 2015 che Elisabetta Bucciarelli racconta per i lettori di Oubliette Magazine. Ringrazio NN Editore per avermi permesso la pubblicazione del passo in apertura.

I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. “La resistenza del maschio” potrebbe essere definita la corale presa di coscienza di come l’amore a volte diventi il corpo della lontananza. Com’è nata questa storia?

Elisabetta Bucciarelli: Il “corpo della lontananza” mi piace. Siamo in grado di osservare e capire ma solo nella distanza riusciamo a vedere con chiarezza. Sentire e accettare è un’altra cosa. La resistenza del maschio è nato dalla necessità di raccontare la fatica che facciamo a entrare in sintonia con l’altro da noi, a trovare un modo per non dominare e costringere. Un punto di vista sul maschile che sta cambiando ma anche sulla determinazione e sul desiderio delle donne e degli uomini.

I.G.: «Prima giovani, poi improvvisamente vecchie e nel mezzo c’è il vuoto pneumatico, l’infinita attesa» sono le parole di Marta, una delle protagoniste del romanzo. Direi che questo è un romanzo scritto da una donna per le donne primariamente e poi per gli uomini. È una storia che fa anche il punto sulla condizione femminile attuale. Siamo davvero così emancipate quanto speriamo?

Elisabetta Bucciarelli: Abbiamo raggiunto alcuni obiettivi, c’è maggiore consapevolezza, una forza che deriva dal passato ma anche dall’esempio spontaneo delle nuove generazioni. Credo resti da risolvere il grande problema della dipendenza dal maschile (padri, fratelli, mariti, amanti e figli). Dipendenza psicologica, esistenziale, emotiva e in taluni casi, ancora economica, sociale, politica.

I.G.: Questo è anche un romanzo rischioso, corre sul filo della definizione “comune” di maschio/uomo. Come hai superato il rischio di cadere nella trappola dello stereotipo maschile?

Elisabetta Bucciarelli: Ho provato a mettere in discussione la fragilità maschile e l’inconsistenza che gli attribuiamo partendo proprio dalle gabbie in cui gli uomini si muovono e si divertono. Sono vittime degli stereotipi, come la forza fisica e mentale, il doversi far carico di una famiglia, lo stipendio mensile che “mantiene”. Ho disegnato un Uomo che prova a disubbidire, con una specie di eleganza, alle regole imposte, qualcuna dal pensiero femminile.

I.G.: «Tenere il silenzio, mantenere la posizione è una cosa che sa fare bene. [...] Il desiderio, nel bene e nel male, si alimenta di assenze, lui lo sa» è questo un passo che si riferisce alla reazione dell’Uomo in un litigio con la Moglie. Quando il desiderio è “bene” e quando invece è “male” a tuo avviso?

Elisabetta Bucciarelli: Il desiderio è sempre uno stupore meraviglioso. Il diritto a desiderare delle donne è un tema che mi è caro, ne ho parlato anche in altre mie storie. Ma come diceva Barthes negli anni Settanta, il desiderio spinge a dominare, a rinchiudere, a possedere. L’Uomo del libro prova a controllarlo, lo chiude nelle sue misure e nelle regole, prova a diventarne maestro. Il risultato è provvisorio e parziale, è un inizio, che produce una forma di educazione e gentilezza, direi una buona risposta alla violenza cui molte di noi hanno dovuto assistere e subire.

I.G.: È davvero necessaria la “distanza” per desiderare l’altro?

Elisabetta Bucciarelli: Sono convinta che misurare la distanza sia un’arte e una disciplina. Le discipline orientali praticano esercizi estremamente validi. Dovremmo imparare a conoscersi così bene rispetto alla danza del vicino-lontano, da poter dedicare il nostro tempo a osservare, conoscere e possibilmente vedere l’altro. Questo per me è amare. Spostarsi, avvicinarsi, sfiorarsi, ascoltarsi, stare fermi, saper retrocedere e procedere ogni volta, infinite volte, per sempre. Abitare lo spazio dell’altro senza occuparlo.

I.G.: Non è certo un Uomo, questo, che non sa usare le parole giuste per comunicare, ma sceglie di stare in silenzio. Credi che nella comunicazione odierna in generale si possa dire che chi sceglie di rimanere in silenzio lo fa anche perché vorrebbe essere ascoltato?

Elisabetta Bucciarelli: Il silenzio è una concessione, un diritto ma anche un’arma strategica potente. Esistono molti tipi di silenzi. Tra quelli presenti nel libro sono affezionata a uno in particolare. Lo definirei il silenzio della proiezione. È una partitura che permette all’interlocutore di aggiungere, creare, vestire, proiettarsi e quindi, di rendere quasi perfetto ciò che desideriamo amare. Un silenzio fertile e ambiguo al tempo stesso. A volte siamo costrette a difenderci da questi silenzi altre volte possiamo utilizzarli. Ma non dobbiamo temerli. Le storie d’amore possono continuare anche quando non le stiamo più “praticando”, nei silenzi c’è una narrazione parallela che può contenerle.

I.G.: Ogni esistenza ha una sua forma e geometria dice l’Uomo, e in alcuni momenti mi ha ricordato l’Amleto shakespeareano, quando raccomanda agli attori di fare corrispondere la parola al gesto e il gesto alla parola. L’amore, però, il rapporto affettivo tra questi personaggi spesso sembra travalicare i limiti della naturalezza. Qual è il legame con il teatro in questa storia, se c’è?

Elisabetta Bucciarelli: Il teatro è presente nel libro anche nella struttura narrativa. Una parte della storia si svolge all’interno di una stanza chiusa dove è solo grazie alla parola che possiamo uscire. La mia scrittura arriva da una formazione teatrale, uno dei miei Maestri mi ripeteva sempre che nelle gabbie più strette possiamo trovare la libertà maggiore. Questa è la mia storia di persona e di autrice. Chiudo i personaggi negli spazi, li metto in difficoltà e poi scopro che sono forti abbastanza per uscire dai perimetri. Così accade nella vita, mi sembra una bella speranza e un augurio per ogni lettrice e lettore.

I.G.: Si può amare con naturalezza?

Elisabetta Bucciarelli: Quando succede di innamorarsi comprendi che in fondo è sempre malgrado la tua volontà. Poi devi decidere se amare, se puoi permetterti di farlo, se te la senti. La naturalezza esiste quando siamo giovani, più avanti si chiama incoscienza.

I.G.: «Le donne si innamorano perché vengono scelte. A volte unicamente dalla quantità di amore che un uomo riesce a dimostrare» è la considerazione di una delle protagoniste. È davvero così oppure si può dire che le donne scelgano di farsi scegliere?

Elisabetta Bucciarelli: Non ho una risposta certa, è un momento storico dove i ruoli, per fortuna, sono in discussione. Ho notato che molto spesso le donne decidono, faticosamente, di rinunciare a un uomo perché non è all’altezza delle aspettative. Piano di realtà e fantasie non coincidono. Spesso vivono con uomini che le vogliono e le desiderano ma di cui loro si lamentano. Non so, credo che siano le modalità dello “stare insieme” che andrebbero ripensate.

I.G.: Gli uomini perché si innamorano?

Elisabetta Bucciarelli: Intendi gli uomini come Emme, il mio protagonista? In questo caso lui s’innamora dell’imprevedibile. Viene spiazzato da ciò che non si aspetta. E resiste per liberarsene. Posso risponderti solo per lui, gli altri li conosco troppo poco.

I.G.: C’è una forte componente di aggressività in queste donne. Si può quasi affermare che l’Uomo sia costretto a resistere perché non riesce a farsi carico dell’ossessiva necessità delle donne di “costruire” in maniera convenzionale, mi spiego: queste protagoniste sono combattute, da un lato cercano una famiglia “tradizionale” dall’altro sono consapevoli che spesso il matrimonio è una menzogna. Da un lato cercano di emanciparsi dalla necessità di usare il seme maschile per avere un figlio, dall’altro devono impiegarlo. É quindi una reciproca resistenza quella cui si sottopongono i personaggi?

Elisabetta Bucciarelli: Tutti abbiamo la nostra resistenza, in queste donne ci sono differenti tipi di reazione agli obblighi e molte pretese convenzionali. Penso che il problema vero sia la chiarezza degli obiettivi. Apprezzo Marta (la Moglie) proprio per la determinazione con cui persegue i suoi, Silvia ci prova ma il suo è un modello preso a prestito, non è convinta fino in fondo. Chiara è vittima della sua scelta e cerca una specie di “coerenza originale” un ossimoro difficile da ottenere all’interno delle regole che ha “sposato”. Fare i figli o decidere di non farli, sposarsi o convivere, vivere insieme ma in luoghi separati, portare avanti relazioni multiple, ogni opzione dovrebbe rispondere a una profonda esigenza personale non a un modo di procedere condizionato o reattivo. Sappiamo molto della sofferenza umana dentro i recinti delle imposizioni sociali, religiose e di educazione. Ciò che è bene per convenzione, quasi mai ci rende felici. Nella pratica sto osservando che qualcuno sta provando a seguire tracciati differenti. Le visioni originali e le sperimentazioni esistenziali sono quelle che m’interessano.

I.G.: Come la società influisce sul sistema “coppia”?

Elisabetta Bucciarelli: Condiziona, reprime, giudica. E pensa di risolvere legiferando.

I.G.: Credi viviamo un tempo in cui è possibile amare in assoluta libertà?

Elisabetta Bucciarelli: Siamo nel tempo dell’illusione e della fantasia, un momento molto interessante. Dobbiamo prima imparare a immaginarci nelle situazioni per poi provare a viverle. Siamo una società che sta ricominciando a immaginare. Qualcuno passa ai fatti, ci prova e soffre più degli altri.

I.G.: Come hai scelto le canzoni che accompagnano le vicende dei personaggi?

Elisabetta Bucciarelli: Il linguaggio della musica è una buona alternativa alle parole scritte e pronunciate. Ho sentito che i miei personaggi avrebbero potuto comunicare meglio con alcuni brani e non con altri. Pop e hard rock, ballate e jazz. Cantautori a cui abbiamo rubato il lessico e gli slogan, che ci hanno insegnato a parlare d’amore. Se il lettore avrà voglia di aggiungere trama potrà ascoltarli e le parole del libro aumenteranno. Anche nella vita è così, dedichiamo canzoni e spesso chi le riceve si limita al refrain, altre volte riascolta e magari, riesce a sentire meglio il nostro campo emotivo.

I.G.: La scelta del tempo verbale è molto indicativa, spezza i cliché narrativi. Come l’hai elaborata?

Elisabetta Bucciarelli: È stata naturale, ho tenuto una distanza di sicurezza con il narratore in terza persona, ma ho messo il lettore molto vicino al personaggio con il tempo presente. Ero certa che così avrebbe potuto sentirlo vibrare come lo percepivo io mentre lo stavo restituendo alla carta.

Written by Irene Gianeselli

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