Intervista di Luisa Ruggio a Mario Desiati attorno al suo Ternitti edito da Mondadori

Creato il 28 aprile 2011 da Stefanodonno

"Ternitti" è un eterno, un tetto, dedotto dalle assonanze di una lingua minore; un materiale - l'eternit - che uncina il respiro e fa la tana nei polmoni. Lo ha scoperto morendo di lavoro la classe operaia del Settanta, gli emigrati che hanno riempito le fabbriche concentrandosi sul miraggio di un benessere lontano da casa e che per tanto tempo - finché la tosse di troppi non ha rotto il silenzio omertoso dei produttori di amianto blu - hanno trafficato con la morte ignorandone i costi prima, provando una forma di pudore per la propria storia poi. Proprio come i salentini che tra il 1960 e il 1980 lavorarono nella fabbrica d'amianto di Niederurnen, nel cantone Glarus in Svizzera. Eppure esiste il momento in cui le storie la fanno finita col pudore, si fanno prendere per mano dalla rabbia e dalla compassione, tentano il travaso affinché chi ascolta possa restituire verità a un passato talmente brutto che corre il rischio di voler essere dimenticato. Chi ascolta resiste, resiste a questo impulso, riceve il passaggio - come si intercetta una palla di gomma sulla propria traiettoria, giocando ai Mondiali in una partita da cortile - lo protegge e corre, questo fa, corre a beneficio di tutti. Mario Desiati è uno che ascolta, protegge e corre. Il suo nuovo romanzo, "Ternitti" (Mondadori, Milano 2011, pp. 264, euro 18,50), appena arrivato in libreria è tra le opere presentate al Premio Strega, nella rosa dei 12 presentati mercoledì 27 aprile al Teatro San Marco di Benevento. Desiati, che nel frattempo impara a gestire la strana sensazione di trovarsi faccia a faccia con il proprio alter ego sul set del film di Pippo Mezzapesa, liberamente ispirato al suo "Il paese delle spose infelici" (Mondadori), commenta la notizia con la particolare mitezza che lo contraddistingue. E ci tiene a precisarlo: "Io non ho la puzza sotto al naso come molti miei colleghi che parlano male dei premi letterari perché non li vincono, secondo me sono un'ottima occasione di ribalta, io partecipo con spirito olimpico. L'ultimo mese prima dello Strega so che sarà molto duro, nel caso dovessi essere ammesso nei 12, conosco bene le pressioni di questo Premio che è come un campionato." Tra l'altro, Desiati ha letto alcuni degli altri libri in corsa per lo Strega, libri che gli sono piaciuti e per i quali prova una forma di gratitudine tutta sua. Un misto di grazia, gentilezza, forza, gli stessi elementi costitutivi della mappa geografica che stende sullo sfondo del suo nuovo romanzo (Tricase, il Ciolo, Lucugnano, Marina Serra, il Capo di Leuca, Torre Paduli e ancora e ancora), una bellezza - non solo quella di Mimì, il personaggio chiave in "Ternitti", poiché capace di amare - che fa da contrappunto alla miseria e alla vergogna, senza mai venire a patti con la mancanza di coraggio degli uomini che incontra o seppellisce. Persino davanti all'unico che ha amato e perduto - il padre di sua figlia Arianna - Mimì si impone come la coscienza. Lui, Pati, un operaio conosciuto al Nord in un capannone diviso troppi, lei, Mimì, qualcosa a metà tra una bambina e una donna che guida il lettore su e giù per il ponte che collega gli anni trascorsi con la sua famiglia in Svizzera e quelli del ritorno nel Salento degli antenati. Quest'ultimo è il luogo in cui Desiati colloca il secondo tempo di questa storia amara, attraversata da personaggi come Celestino, il fratello ubriacone di Mimì, capofila di alcuni tipi umani sui quali lo scrittore muove una carezza.

A parte il dato che espliciti nella pagina dei Ringraziamenti, questa storia com'è entrata nella tua vita?

"Per alcuni anni ho vissuto la realtà del Capo di Leuca e tantissimi ragazzi della mia età avevano un genitore, un parente, che aveva lavorato in una fabbrica e si portava addosso una malattia, un segno forte di questo lavoro lontano dal paese, un segno che veniva trasmesso ai loro figli nella forma delle relazioni che cambiavano. In ogni famiglia pugliese c'è un pezzo che è andato via, questa è l'ossessione dei miei ultimi lavori, raccontare chi è andato via e anche chi è rimasto."

Il retrogusto femminile di questa storia è una grazia ruvida, quella di Mimì, un personaggio che ascolta e diffida della poesia o crede solo in quella involontaria.

"Sì, forse perché sa che dietro una poesia si possono nascondere le inadempienze degli uomini. Mimì va sulla sostanza dei fatti, sulla qualità del proprio amore. La grazia per lei è anche un senso della forza che si può cogliere dai fatti della vita."

Tra le voci degli antenati che Mimì ascolta, c'è anche lo spirito del poeta nella biblioteca di Lucugnano, Girolamo Comi. Ma il romanzo è pieno di voci, di omaggi (anche a Don Tonino Bello, n.d.r).

"Il Salento è pieno di percorsi interrotti e di voci dimenticate dall'editoria nazionale, ho cercato di farne conoscere qualcuno attraverso questo romanzo. Ci ho messo Stefano Coppola che è un poeta di Tricase, è morto a trent'anni. Ce ne sono tanti altri: Bodini, Claudia Ruggeri, e via elencando. Devo tanto alla poesia, questo libro è un canto di vita ma è anche un canto di morte. La Puglia è un grande ossario, questo fa sì che le nostre case antiche, i nostri muri, siano stati costruiti con la pietra a secco, quella pietra è l'anima dei nostri morti e con le loro voci Mimì cerca di restare in contatto."

I personaggi di Ternitti a un certo punto si giocano i segreti nelle partite a biliardino, un oggetto simbolo di certi anni.

"Il biliardino nel libro è un'ancora di salvezza, sia all'inizio quando è l'unico strumento per distrarsi dalla fatica, sia alla fine quando diventa un mezzo per sfogare la rabbia e ritrovarsi."

Quando gli stranieri eravamo noi, in Svizzera - come scrivi nel libro - ci chiamavano "cingoli". E' un periodo questo in cui la Puglia ha mostrato anche il suo lato meno ospitale, si è parlato e scritto di ronde a Manduria intorno alla tendopoli dei nuovi migranti. Cosa vedi in tutto questo?

"Mi viene in mente una frase molto semplice di un filosofo tedesco: "Questo Paese che chiede braccia oggi si è ritrovato degli uomini". Un modo per dire che loro chiamavano braccia quello che noi chiamiamo clandestini, materiale da usare soltanto nelle fabbriche. Quel filosofo cercava di trasmettere l'umanità di quegli uomini che hanno cambiato in meglio un Paese - gli effetti si sono visti cinquant'anni dopo - e che sono come i clandestini di oggi mal sopportati da chi a sua volta è stato clandestino per un periodo."

In questo libro sei dalla parte di Mimì, è in questo modo che racconti anche la ferita di essere donna, parliamo di questo aspetto della faccenda.

"E' difficile fare un discorso che esuli dalla politica, il conflitto più forte in Italia è un conflitto di genere. Il potere italiano è un potere maschile, machista, della peggior specie, vecchio e spaventato, è una maschera. Basta vedere le immagini di questi tunisini sbarcati a Lampedusa, tutti giovani, in contrapposizione con gli schiumanti anziani della Lega o altri esponenti xenofobi che hanno il potere nel nostro Paese. Manca la grazia, la gentilezza delle donne. Sono contrario alle quote rosa, penso che ci debba essere la parità, cinquanta per cento e cinquanta per cento. Come in questo libro, Mimì si è guadagnata i galloni della propria forza nella propria terra."

Gentilezza, grazia e libertà. A un certo punto in Ternitti emerge un senso della libertà, ovvero quello del poter restare nei propri luoghi.

"Sicuramente, un Paese è libero quando uno è libero di poter restare nella sua terra. In questi anni ho seguito i flussi migratori, è il senso dello studio che ho pubblicato in un reportage narrativo. La mia generazione è largamente emigrata, siamo tornati ai flussi degli anni Sessanta. Oggi sembra che si sia ripreso ad emigrare, vanno via persone qulificate che non hanno la possibilità di fare nella propria terra quello per cui hanno studiato. Fa impressione. Io non mi reputo un emigrante perché vivere tra Roma e Milano non è la stessa cosa che vivere lontanissimo, anche se c'è un verso di De Angelis che dice "Basta scendere dal letto per sentirsi emigranti". Però il fatto di essere fuori, essere lontano ti fa sembrare la Puglia come il posto più bello del mondo, poi quando torni anche se i posti si sono imbruttiti riesci a trasfigurarli, è una carta che ho giocato spesso nella scrittura. Lo diceva Kafka di Praga: questa città se vai via ti lascia artigliato."

Intanto sono in corso le riprese del film tratto dal tuo "Il paese delle spose infelici", la vivi da spettatore o ci sei dentro?

"All'inizio ho fatto un pò il superiore, non ho partecipato alla sceneggiatura, ho detto non mi interessa ma ho resistito poco, ero troppo curioso e sono corso sul set a conoscere gli interpreti. E' stato un poco traumatico, mi ha fatto impressione vedere il mio alter ego. E' come se tu vedi qualcosa di tuo che non c'è più, dopo tanti anni."

Il Desiati lettore che lettore è? Quando leggere diventa un mestiere come si vive questo piacere?

"E' un esercizio distinguere, ma anche la lettura professionale può essere una lettura di piacere. Cerco di mantenere questi due mondi distinti, a uno affido le ore migliori della mia vita, l'alba e la sera. E all'altro dedico le ore più operative, che trascorro nel mio ufficio a leggere manoscritti."

Hai letto qualcuno dei libri presentati allo Strega?

"Sì, "Storia della mia gente" di Edoardo Nesi (Bompiani), credo che sia un bel libro, è un reportage, ti racconta anche come questo Paese sta cambiando, Nesi è uno scrittore che ammiro molto. C'è il libro di Severini, "A cosa servono gli amori infelici" (Playground) che considero un maestro, uno scrittore marchigiano che pubblica sempre con piccoli editori, per scelta, è una bella consacrazione per lui ed è un onore per me stare accanto ad autori come questi."

Facciamo quel vecchio gioco usurato, sei all'inferno e puoi leggere soltanto un libro, quale? E il tuo Virgilio, potendo scegliere, chi sarebbe?

"Eh, qui tutti rispondono La Bibbia. Però penso di portarmi dietro i diari di Kafka perché lui lo conosceva bene l'inferno quindi potrei scoprire qualche trucco per cavarmela meglio. Il mio Virgilio sarebbe il buon Bohumil Hrabal, lo scrittore praghese che passava le ore migliori della sua vita nelle bettole di Praga ad ascoltare le storie dei vari personaggi. Sì, sarebbe proprio adatto."

articolo pubblicato su Paese Nuovo

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