Regista e sceneggiatore, Gianmarco D’Agostino è nato ad Arezzo nel 1977 e si è laureato in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli Studi di Firenze. Vive e lavora tra Firenze e l’Europa, scrivendo e dirigendo documentari e campagne di comunicazione, commissionati da enti pubblici e fondazioni bancarie.
Molto attivo nel sociale, anche come volontario, ha lavorato con alcuni detenuti delle carceri di Firenze e Ferrara a un progetto di un anno sullo storytelling. Da questa esperienza è nato il documentario Oggi voglio parlare, prodotto da Regione Toscana. Per il progetto di lungometraggio Florence, the Consul and Me è stato ammesso al workshop europeo di sviluppo documentari Archidoc, finanziato dal programma Media, e selezionato ai pitching forum di Budapest, Firenze e Trieste.
Il film racconterà la ricerca personale sulle tracce del Console tedesco Gerhard Wolf, e della sua lotta per salvare Firenze dalla furia nazista. Durante le ricerche in Israele Gianmarco ha scoperto le sue origini ebraiche, riuscendo a trovare un ramo della famiglia ormai dimenticato.
Proprio a Gerusalemme, nell’ottobre 2013, ha diretto per la Jerusalem Opera la video arte per l’allestimento del Don Giovanni di Mozart.
Conosciamo Gianmarco D’agostino più da vicino, scoprendo ricordi, progetti ed esperienze legate alla sua passione e professione, la macchina da presa.
S.M.: Qual è il tuo primo ricordo legato alla macchina da presa?
Gianmarco D’agostino: La mia prima vera passione è stata il tennis. Per questo nell’estate dei miei 12 anni chiesi a mamma e papà una telecamera per farmi riprendere mentre giocavo e imparare dai miei errori. Li convinsi con questa scusa, eppure se oggi guardo le mini cassette VHS di quell’estate, vedo soltanto inquadrature della ragazzina che mi piaceva!
S.M.: C’è stato un momento preciso della tua carriera artistica in cui hai deciso di farne una professione? Quali sono state le tappe fondamentali della tua formazione?
S.M.: Nel 2012, hai realizzato, con l’aiuto dello scrittore Marco Vichi “Oggi voglio parlare”, 10 storie di uomini e carcerati che si raccontano davanti alla macchina da presa. Che ricordi hai di questa esperienza?
Gianmarco D’agostino: È stato uno dei progetti più difficili cui abbia preso parte. Per alcuni mesi Marco Vichi e io abbiamo ascoltato, con l’aiuto della regista teatrale Elisa Taddei, le storie di decine di detenuti nelle carceri di Firenze e Ferrara. Le abbiamo scelte, sceneggiate, e poi ce le siamo fatte raccontare di nuovo dagli autori davanti alla macchina da presa. Ne è venuto fuori un affresco duro e sincero della vita in prigione. Ma anche uno sguardo e una prospettiva fuori dalla prigione, grazie alla musica e alle registrazioni di Massimo Altomare che ha aiutato alcuni detenuti a esprimere il loro talento e forse, un giorno, a usarlo “fuori”. Ho sempre pensato che la cosa più bella per un regista sia quando il proprio film viene percepito come qualcosa di “utile” oltre che “bello”. In questo caso ho sperimentato qualcosa di nuovo: ho sentito che questo film era qualcosa di importante, per le persone che ne facevano parte, prima ancora di essere finito.
S.M.: Attualmente, tra i vari progetti, stai lavorando al documentario “Florence, the Consul and me”. Qual è stato il tuo punto di partenza nella costruzione di questo progetto e che cosa ti sta regalando?
S.M.: Puoi raccontarmi un aneddoto divertente della tua esperienza di regista?
Gianmarco D’agostino: Spesso i registi si prendono troppo sul serio, e girano il film “con la porta chiusa”, senza lasciare “la finestra aperta”, senza spazio all’improvvisazione. Anche io non facevo eccezione quando, nel 2009, stavo girando un docu-fiction in Mugello. La protagonista, Agnese Verdelli, doveva guidare un vecchio pulmino Volkswagen giallo per diverse scene quando, a un tratto, il pulmino si ferma, in salita, senza volerne sapere di ripartire. Mentre mi dispero seduto per terra, pensando a tutte le riprese che non avremmo fatto quel pomeriggio, e alla troupe di una quindicina di persone, ferma in attesa del soccorso stradale, Alessio Lavacchi, aiuto regista, montatore e amico, mi dà una scossa e organizza una ripresa in cui la protagonista si arrabbia perché il suo pulmino l’ha piantata. E ancora oggi quando rivedo quell’inquadratura mi viene da ridere, pensando che spesso un contrattempo può diventare un’opportunità.
S.M.: Da cosa ti lasci guidare per la realizzazione di un film… Qual è il tuo punto di partenza?
Gianmarco D’agostino: Come ti raccontavo per il film sul Console di Firenze, la prima molla è la curiosità. Il mondo è pieno di storie da raccontare, basta essere pronti ad ascoltarle. Poi c’è la scelta: a quale di queste storie vuoi consacrare i prossimi anni di vita? Perché spesso occorrono anni per fare di queste storie un film. E poi c’è il lavoro con i collaboratori, un momento fondamentale per la riuscita di qualsiasi progetto. Ad esempio in quasi tutti i miei lavori c’è la mano e la luce di Yari Marcelli, un direttore della fotografia con il quale ormai ci intendiamo con lo sguardo. Quello che mi manca di più è un rapporto solido con un produttore italiano. So che ce ne sono molti là fuori, capaci, affidabili, appassionati. Ma spesso la difficoltà, per me come per altri giovani autori, è riuscire a trovarne uno che legga i progetti e sappia dirti in tempi, ragionevoli, non biblici, un sì o un no. A volte penso che il problema più grave in Italia, sia proprio quello di non avere il coraggio di dire NO, evitando di lasciare in sospeso progetti e autori.
S.M.: Prossimi progetti?
Gianmarco D’agostino: Ho appena finito di scrivere un film con Matteo Bortolotti, romanziere e sceneggiatore di Bologna. È una storia che mi porto dentro da qualche anno, e grazie a Matteo è diventata il film che vorrei vedere al cinema stasera… È una commedia fresca, leggera e quindi profonda. È pronta per essere letta da uno di quei produttori di cui parlavo prima, è pronta per ricevere dei NO, ma soprattutto dei bei SÌ!
Written by Sarah Mataloni