Intervista esclusiva a Livio Romano

Creato il 30 maggio 2011 da Pablito @PaoloMerenda

Ho avuto la fortuna di conoscere Livio Romano qualche anno fa, durante una presentazione del suo romanzo Niente da ridere. Ero lì più che altro spinto dalla curiosità di vederlo, dato che di fama lo conoscevo da anni e comunque, in quel periodo, collaboravamo per la stessa rivista.

Amico squisitissimo e molto disponibile, si trattenne, a presentazione finita, per autografare libri (tra cui la copia che avevo io, e che conservo gelosamente) e per parlare con i presenti.

Livio Romano è uno di quegli scrittori che porta, nelle sue storie, personaggi “reali” alle prese con problemi reali: trentenni che non vogliono crescere; coppie alle prese coi quotidiani problemi familiari; ragazzi che devono “esiliare” per trovare lavoro. Lo fa mantenendo uno stile peculiare, e con una sensibilità quasi unica. I suoi romanzi ti trascinano, non riesci a staccartene prima della parola “fine”, che è uno dei massimi pregi di uno scrittore.

Ha già dato alle stampe tre storie, dal suo esordio del 2001. Si tratta di Mistandivò (Einaudi, 2001), Porto di mare (Sironi, 2002), Niente da ridere (Marsilio, 2007).

Da qualche settimana nelle librerie di tutt’Italia Il mare perché corre (Fernandel, 2011). In quest’intervista esclusiva, affronta i temi trattati nell’ultimo, riuscitissimo, romanzo.

D: Da poche settimane è uscito il tuo nuovo romanzo, “Il mare perché corre”, edito da Fernandel. Spulciando le altre tue storie, vedo che ognuna è di un editore diverso. Si tratta di una precisa scelta per raggiungere un pubblico sempre diverso, o il motivo è un altro?

Ba’ francamente non ho mai creduto a questa storia delle “leggi di mercato”. Quello dei libri, almeno in Italia, è un mercato che segue logiche e dinamiche assolutamente separate dalle leggi della microeconomia. Semmai ci son delle “mode”. Il periodo in cui vanno i precari, quello in cui si sfornano docu-fiction, o noir, o, nel passato meno recente, cannibalismi e splatter. E non è assolutamente detto che uno fa un libro à la page e glielo pubblicano e diventa ipso facto un successo. Detto questo, a me non interessano lontanamente le voghe letterarie. Io ho una storia da raccontare, e 9 volte su 10 è una storia che va nel senso opposto rispetto ai pruriti passeggeri dei grandi editor – ché di questo si tratta, in sostanza: dei gusti del momento di questo o quel potente direttore editoriale. Ho imparato a seguire il mio istinto. Noi viviamo per scelta in provincia, lontani dai salotti che contano, dai party, dalle chiacchiere che producono buoni contatti. Per due o tre anni ho provato a mantenere un rapporto civile con le major. Prendevo aerei e andavo a pranzo con questo e quello. Grandi apprezzamenti, stima, curiosità esotica, anche, per il terrone venuto dal profondo Sud. Ma poi: batoste, rimpalli, distinguo, tempi biblici di risposta. Un grande -quanto umanamente imperscrutabile- editor mi ha detto una volta: “Fai altro, lascia stare questa storia”. E io: “Ma se hai appena detto che è la cosa migliore abbia fatto”. “La pubblicherai fra 10 anni”. No, io non son così. Vengo dal giornalismo. Sono abituato ad avere un pubblico a stretto giro di scrittura. Sapevo che non avrei più scritto finché Il mare perché corre non avesse visto la luce. Ho trovato un editore piccolo e curioso, coltissimo e stimato. Mi ha detto “Lo faccio”. Gli ho risposto: “Bene, quanto prima possibile”. Poi, se vogliamo tediare il lettore con questo circo Barnum che è l’editoria italiana, sia io che te sappiamo che cambiare editore di continuo è malvisto nelle major. Che questo girovagare è costato al grandissimo Cosimo Argentina, per esempio, la possibilità di uscire con Mondadori e altri. Ma cosa ha perso Cosimo? Assolutamente niente, rispondo io. Maschio adulto solitario è e resterà per sempre uno dei libri migliori degli ultimi 10 anni, alla faccia di tanta spazzatura sfornata dai Grossi, spesso seguendo logiche di Do ut des, io ti pubblico questo, tu mi compri i diritti cinematografici di quello, egli dà una rubrica sul magazine a quell’altro.

Ecco, io son lontano proprio geograficamente da questi traffici. Onestamente credo che vivessi a Roma ci sarei dentro fino al collo. Mi conosco. Conosco la mia propensione al compromesso. La mia penna è in vendita. È l’unica cosa che so fare, e ho tre figlie. Però ho deciso 12 anni fa di tornare al Sud. Tanto vale coltivare caparbiamente quest’autonomia masochistica. Fare, insomma, quel che mi pare. Non sarà qualche migliaio di copie o qualche passaggio TV in più o in meno -come pateticamente chiedono i cosiddetti TQ*- a far di me un narratore migliore. La mia scrittura è migliorata soltanto da due elementi: la Vita, quella vera, quella fra la gente qualsiasi. E le letture, i classici, i Grandi, tutti ancora da esplorare.

*TQ: trenta-quarantenni. Si fa riferimento a un convegno, organizzato qualche settimana fa dal Sole 24 ore, durante il quale si parlava del ruolo e della visibilità degli scrittori fra i 30 e i 49 anni [nda]

D: Parlando de “Il mare perché corre”, come mai questo titolo? Trovo che rispetto ad altri tuoi lavori, sia meno immediato.

Trovi? Mi dicono tutti l’opposto. È un verso di Bigongiari, poeta che amo molto. Trovo che contenga in sé tutta la complessa trama di questo romanzo d’amore dal sapore noir.

D: Mi è piaciuto molto il primo incontro dei due Piero, e l’inizio del loro viaggio in BMW. La decisione di ambientare gran parte della storia in auto è stata una scelta precisa?

Pensavo da tempo di fare un on the road con degli uomini in macchina. All’inizio quattro. L’abitacolo di un’auto è un non-luogo perfetto per far incontrare storie diversissime fra loro, provenienti da personaggi con vissuti assai lontani. E si presta anche a raccontare il paesaggio che via via si incontra –tanti altri non-luoghi, nel caso del Mare. Poi un giorno ho visto al mare, in novembre, ‘sto tipo emaciato coi baffetti che guidava una vecchia e potente automobile con i finestrini tutti aperti. Mi son chiesto dove andasse. Ho deciso di seguirlo con l’immaginazione. È nata la mia storia nella quale ho innestato due temi a me cari: la nascita dello Stato di Israele e le Nuove Brigate Rosse.

D: Molti temi sfiorati, dal terrorismo di Al Qaeda, all’assassinio di Marco Biagi, passando per molti altri. Quanto ti ha aiutato la tua formazione giornalistica?

Molto. La mia narrazione ha sempre contenuto una propensione forte all’impegno civile. Trasfigurando la realtà, osservandola con una lente che deforma, rende grottesco, ridicolizza: provo a denunciare mali eterni o nuovi del nostro Paese. Ma senza usare il puramente “detto”. Narrare significa mettere in scena. “Show, don’t tell”, diceva Mark Twain. Tuttavia la letteratura non si preoccupa di “valorizzare” aspetti positivi né negativi. Con Oscar Wilde: L’artista non ha preferenze etiche. Una preferenza di tal genere costituirebbe per un artista un manierismo stilistico imperdonabile. Nel senso che la preoccupazione maggiore è e resta di tipo “estetico”, letterario. Una letteratura che si proponga soltanto di denunciare, stigmatizzare, valorizzare, promuovere non è più arte. È giornalismo, non letteratura. Come disse la Ballestra anni fa: “Diventa una brochure di promozione turistica”.

D: Sicuramente molti ragazzi si rivolgeranno a te per avere consigli. Quali in particolare senti di dare a un esordiente? Qualcosa che dovrebbe fare e qualcosa che non dovrebbe fare mai?

Chiunque scrive ti dirà che l’ha sempre fatto, e che ha letto a sua volta moltissimo nella vita. È un bisogno, quello di raccontare servendosi della parola scritta, che nasce già nell’infanzia. Poi pian piano si affina quella che potremmo definire la propria “voce narrativa”, il proprio stile, l’immaginario intorno al quale si continuerà a lavorare per sempre (ogni scrittore, si dice, sviluppa nella vita due o al massimo tre argomenti, e su quelli gira intorno in tutti i suoi lavori). Chi scrive capisce da sé, o glielo fanno notare, che ha una notevole capacità di utilizzare la penna per creare narrazioni efficaci, dotate di verve, puntuali, precise, raffinate. Questo di “saper scrivere”, di utilizzare, cioè, la lingua madre al meglio e nella maniera più corretta e creativa: è un prerequisito indispensabile che spesso sfugge agli aspiranti narratori. Mi capita di leggere manoscritti pieni di errori di grammatica, che raccontano storie magari anche interessanti, ma che provano a farlo con una lingua sciatta, convenzionale, manierata. Dal “saper scrivere” al talento c’è un passo ulteriore. Il talento ha a che fare con la capacità di inventare un proprio universo anzitutto linguistico, poi emotivo, immaginativo. Non importa che storia racconti, insomma, ma come lo fai. Si può fare grandissima letteratura, non dico niente di nuovo, anche descrivendo l’orizzonte che si vede dalla camera angusta del proprio paesello sperduto. Il talento, insomma, non si inventa così come non si inventa un’anima. Poi si può imparare (con le scuole ma, soprattutto, leggendo moltissimo) a costruire delle storie, a inventare dei plot più avvincenti, a delineare dei personaggi in maniera più precisa. Ma quel misto di capacità affabulatoria e temperamento romantico è dote che nessuno al mondo potrà mai insegnarti.

Un consiglio? Evitate come la peste un mestiere come questo. Carmina non dant panem! Se proprio non riuscite a liberarvi dell’ossessione della scrittura, nel senso che nessuna attività al mondo vi fa stare bene come quando siete con un pc o un taccuino davanti e siete liberi di lasciare andare la fantasia, allora vuol dire che siete nati per scrivere. Leggete moltissimo. Come diceva Calvino, soprattutto classici, tanti. Ma non trascurate i contemporanei. Fate fuori un contemporaneo ogni due classici. Non abbiate remore nell’imitare. Imitando i modelli, esattamente come fanno i pittori, pian piano si trova un proprio stile e ci si libera, si “uccide” il grandissimo scrittore che ci ha folgorati e si vede nascere un linguaggio che è solo e soltanto vostro. Ma non crediate neppure per un momento che vivrete di quello che scriverete. Il grande successo di pubblico è un evento del tutto eventuale e completamente casuale. Trovatevi un lavoro che vi dia da vivere e tenete presente che per tutta la vita inseguirete la Scrittura come un’amante da vedere di nascosto, in un tempo che appartiene solo a voi e Lei. Anche se siete ricchi di vostro, non statevene rinchiusi nel vostro studio per tutto il tempo. Frequentate molta gente e viaggiate e amate e soffrite poiché la scrittura si nutre di vita e viceversa.

Oggi in Italia c’è molta più gente che scrive rispetto a quella che legge. Nelle case editrici arrivano ogni giorno migliaia e migliaia di manoscritti che spesso restano lì in attesa di essere cestinati. Infatti spesso gli editori, nel proprio sito, vietano i cosiddetti “invii spontanei”. Esistono agenzie letterarie che leggono a pagamento un’opera e ne danno un giudizio la cui serietà è direttamente proporzionale alla somma sborsata (se un’agenzia vi chiede 100 euro per una scheda di lettura, diffidatene…). Quando l’opera è poi particolarmente apprezzata, a volte questi agenti si impegnano in prima persona a cercare un editore. Il modo migliore per farsi notare resta scrivere per le riviste, cartacee e sul web. Fatevi pubblicare i vostri racconti, qualcosa succederà, prima o poi perché gli editori sono molto attenti a quei laboratori spesso interessantissimi che sono le riviste. Se credete di aver scritto un romanzo davvero buono, cercate qualcuno che vi proponga agli editori. Scrittori, editor, agenti, talent scout. Carpite qualche ora della loro attenzione: non sono delle carogne come li si dipinge spesso, e anzi provano un gusto molto narcisistico a “scoprire” nuovi talenti…

D: Hai progetti futuri a cui già stai lavorando? Qualche anticipazione?

Quel che progetto per il futuro è un ritorno al grottesco, al pastiche linguistico, alla grande storia corale allegorica. Si sa, lo diceva anche Tondelli: all’inizio i narratori son molto concentrati a inventare una propria voce, a calibrare il timbro, lo stile. Poi arriva il momento di imparare a fare dei plot avvincenti, a utilizzare gli eterni trucchetti della drammaturgia e della narratologia. Ecco, con questo romanzo che già molti definiscono “perfettamente congegnato”, e dopo Niente da ridere, parimenti lavoratissimo quanto a intreccio: credo di aver imparato la lezione. Posso adesso coniugare ricerca linguistica e densità del plot. Poi, per ritornare a quel che dicevamo prima, se le major avranno il coraggio di investirci, ben per loro. Senò resto nel circuito indie.


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