«Se c’è una ragione per la quale scrivo,
è perché qualcuno mi salvi da me stessa»
(Alejandra Pizarnik, 30 luglio 1962)
A partire, difatti, dalle indicazioni sulla poetica lasciateci da Aristotele, la letteratura è stata sempre considerata, in quanto arte, atta ad imitare la realtà. Senza addentrarci oltremisura nel dibattito, tuttora irrisolto, sul concetto di mimesis, sia qui sufficiente chiarire che l’imitazione, intesa in senso aristotelico, non prevede la presa immediata e priva di filtri sulla realtà, ma piuttosto il suo aspetto «verosimile». Quando si tratta di una tragedia, bisogna allora amplificare le azioni degli uomini, se, invece, si tratta di una commedia, ridicolizzarle. Il concetto di verosimile ha da sempre implicato l’imitazione della realtà non come essa è, ma come essa potrebbe essere.
Il genere del diario mette profondamente in crisi questi assunti. Finzione o auto-finzione, racconto di se stessi oppure tentativo di creare e imporre il proprio personaggio letterario, il diario pone un elevato numero di problemi esegetici, a causa della fragilità del suo statuto e della difficoltà a inserirlo in una categoria definita della narrazione.
Certo è che il presupposto di questo genere si manifesta nella propensione all’intimismo del suo scrivente, più che in qualsiasi altro contesto narrativo. Nel diario, lo scrittore lascia la traccia del suo vissuto, dipana il suo quotidiano, sciorina i dettagli pulsionali, i lati osceni e i desideri irrisolti. «Da adesso scrivo tutte le cose sanguinolente che mi vengono in mente» (6 gennaio 1957), ci lascia detto Susan Sontag nel suo diario. A primo impatto, pertanto, il diario sembra implicare un attaccamento al concetto di verità, superiore alla finzione. In esso, lo scrittore si spoglia dei “retorismi” che imbrigliano la sua prosa, degli effetti di stile e delle malattie dell’immaginario che dominano la narrazione.
Tutto ciò sembra, però, accettabile solamente all’apparenza. Scavando difatti più a fondo, diventa evidente (benché non si tratta di una regola, ma piuttosto di una possibilità interpretativa) che il diario rappresenta il luogo in cui lo scrittore crea il mito di se stesso, la propria personalità letteraria, oltre che la propria identità. Sempre Susan Sontag ci lascia delle riflessioni particolarmente interessanti a proposito: in data 31/12/1957 annota qualche riflessione alla quale lei stessa attribuisce il titolo Sullo scrivere un diario: «È superficiale pensare al diario solamente come a un ricettacolo per pensieri privati e segreti – come se si trattasse di un confidente sordo-muto e illetterato. Nel diario, io non esprimo solo me stessa più apertamente che con un'altra persona: io creo me stessa».
Quest’affermazione si può facilmente riferire anche al caso di Anaïs Nin, la quale ci ha lasciato gran parte della sua opera sotto forma di diario. Avendo iniziato a scrivere all’età di undici anni un quaderno di lettere dedicate al padre, il quale aveva allora abbandonato la famiglia, la Nin ha trascorso il resto della sua vita a lavorare alla creazione del proprio personaggio letterario. Il diario come esperienza di sé e il diario come creazione del sé, quindi. Il rapporto che Anaïs Nin intesse tra la sua opera narrativa e il suo diario è ambiguo. Difficile diviene conseguentemente discernere quanta verità e quanta finzione interviene nell’una e nell’altra espressione letteraria: «Il mio diario e il mio libro camminano continuamente uno sopra ai piedi dell’altro. Non li posso separare e neppure conciliare. Tradisco entrambi. Tuttavia sono sicura di essere più fedele con il mio diario. Mi capiterà d’inserire delle pagine del mio diario nel mio libro, mai invece il contrario. Ciò dimostra la fedeltà umana all’umana autenticità del diario!» (10 novembre 1932).
La cosiddetta «autenticità» di cui la Nin vanta il primato, permette sì di mettere in scena e mettersi in scena, ma al tempo stesso mette anche in crisi, come ci rivela per esempio Alejandra Pizarnik: «Mi vergogno di scrivere un diario. Preferirei che sia un romanzo. Sono confusa. Come sempre. Penso di non volere nulla e allora mi sento in colpa» (10 luglio 1959).
Se Virginia Woolf commenta una pagina del suo diario asserendo: «Ciò non è scritto veramente sul serio –certo che no – solo per testare una penna, credo» (30 aprile 1926), Sylvia Plath drammatizza invece la sua tendenza auto-lesionista anche nel suo scrivere e confessa: «Scrivere è l’unico mio modo di vivere» (Maggio 1952).
Luogo di sfoghi personali (sempre Sylvia Plath riserva ampio spazio alle sue tendenze depressive), occasione d’interrogazione sulla propria scrittura (Virginia Woolf analizza e autocritica la sua prosa nel suo diario) e spazio della memoria, del percorrere la vita e ripercorrersi contemporaneamente, come testimonia, per esempio, l’opera autobiografica di Simone De Beauvoir, la quale si racconta non più seguendo l’impostazione di un diario, ma scegliendo invece la forma di un romanzo, nella sua saga personale: Memorie di una ragazza perbene (1958), L’età forte (1960), La forza delle cose (1963), A conti fatti (1972).
Il diario svela e maschera allo stesso tempo, indugia sul privato benché sempre consapevole della possibilità di ritrovarsi davanti a un pubblico. Sono, pertanto, spesso ambigue le pagine dei diari, soprattutto quando vengono dalla penna di uno scrittore, il quale – benché umano – sublima la propria realtà nella parola e allora anche il privato – sempre in procinto di sfiorare l’opportunità di farsi eco ed essere spettacolo – diventa scrittura.
Media: Scegli un punteggio12345 Nessun voto finora