A metà mattina sono arrivate le burrate, dal sud, fresche e stillanti latte. Non ho assistito all’arrivo, all’apertura del pacco collettivo in ufficio ma spero che, visto quanto sono buone, sia il primo di una lunga serie. Vedi a conoscere gente che viene da dove vengono le burrate? Alla faccia del chilometro zero. Io compro tutto quello che la mia terra offre ma certe cose non ci sono e, se ci sono, non sono così buone e così, a volte, è bello gettare lenze gastronomiche e vedere che qualcosa abbocca. Non c’ero, dicevo, perchè ero in una delle ultime riunioni prima delle ferie, riunioni fiume, di cui si discute in fretta di cose che meriterebbero altre riflessioni ma sono sulla lista della roba da finire e bisogna farle perchè agosto è uno spartiacque e all’autunno ci si vuole arrivare leggeri. Ero su, al piano sopra, in una riunione appunto e quando sono scesa ho visto queste scatole di polistirolo bianche, dal contenuto bianco, e ho capito che erano arrivate le burrate, e i bocconcini e le treccine e che mi ero persa il caos allegro della spartizione. Ero su in riunione, avevo iniziato tesa, combattiva poi ho capito che era inutile fare resistenza e che non riuscivo a spiegare perchè fossi contraria a certe cose ma d’accordo su altre e allora ho iniziato a pensare ad altre cose, dentro di me, ad esempio a che ora sarebbero arrivate le burrate, se sarei stata in grado di finire tutto prima di venerdi, quando tanti se ne andranno e finalmente, per l’ultima settimana, ci saranno le ridde degli inventari in magazzino ma la quiete altrove, a cosa avrei dovuto fare nel tardo pomeriggio prima di tornare a casa, a cosa avrei voluto fare a casa la sera. Pensavo e saltavo da un pensiero all’altro, controllando mentalmente le liste, riaggiornandone altre col pensiero, lisciando le ore del giorno per trovarne il miglior utilizzo e pensando che tre ore per una riunione di fine luglio fossero un po’ troppe e che mi scappava la pipì di nuovo e che avevo fame ma la banana di metà mattina era rimasta nel cassetto della mia scrivania. Potrò scendere e poi tornare? Poi la riunione si è arenata in una conclusione concordata ma non definitiva e tra le ultime battute sento il capo, di punto in bianco: “Busi?” e mi viene una faccia scema perchè non ho capito se stiamo ancora parlando di meccanica e dei suoi orifizi in un qualche gergo ma poi continua “tu che sei letterata che dici di Busi?”. ” Che non venderebbe se non farcisse le pagine di porcate”. La risposta, capisco subito, non gli piace. Non è quella che si aspettava, non è solidale, non è l’appoggio di una sua opinione. Lo deludo credo, come tante altre volte ma io non ci riesco ad essere come gli altri, quelli che hanno capito le regole del gioco. “E’ un gran traduttore dal greco”, insiste lui che di greco non so quanto ne sappia. “Lo so, è un uomo colto”, mi sento di rassicurarlo anche se non so se sia vero o no che Busi sia colto. Mica lo conosco dal vivo. Sto pensando però, mentre lo dico, che anche la mia profe del liceo era un’ottima traduttrice ma non aveva bisogno di fare il pavone in televisione, lo si capiva semplicemente mentre faceva il suo mestiere in aula e come lei moltissimi altri – “però è un maiale” prosegue la mia spontaneità acida inzittibile. “Beh, è un omosessuale” ribatte. “Omosessuale è una cosa, maiale un’altra.” gli faccio. Però mi arrendo subito. Non l’ha detto col tono cattivo, non è cattivo e nemmeno ignorante; lo ha detto col tono neutro di chi constata l’ovvio. Penso che i miei amici gay più raramente di me dicono parolacce e che dovrei avere tantissimi amici gay e parlarci per ore e ore prima di raccogliere il numero di oscenità che sento in una normale riunione lavorativa di eterossessuali ogni santo giorno. Però mi arrendo subito. L’uomo è buono, il gatto è buono, l’uomo è un gatto. Certi sillogismi è inutile confutarli, teniamoceli così, belli legati ai preconcetti, è solo abitudine inamovibile a pensieri automatici, e scendiamo per le scale che forse sono arrivate le burrate. Insieme alle burrate ai piedi della scala mi aspetta uno dei miei collaboratori che, a sua volta, ne gestisce una dozzina. Mi prende in disparte, dove le orecchie lunghe degli altri, nell’open space, non ci possono sentire. Andiamo in mezzo al rumore delle macchine. Uno dei suoi è in periodo di formazione; l’esito della prova è negativo. Prima volta che , nonostante una strigliata epica, per la quale mi sono servite ore a calmarmi, dopo, nonostante le proroghe concesse, un tizio non vada proprio bene per questo lavoro. Compilo una valutazione col dispiacere che si mescola alla rabbia per la sua indolenza, per il nostro insuccesso con lui. E poi ci si aggiorna su un altro ancora che combatte contro una malattia più forte di lui e spesso lo penso, e spero. E il ginocchio fa male, fa ancora e sempre male. E mi sale alla gola la voglia di scappare, di prendere il battello sotto il sole e di fare il giro del lago, nel ponte sopra, con una bottiglia di acqua fresca in mano, l’acqua negli occhi e il niente in testa. Ma nel frattempo il tavolone dell’ufficio si è sgombrato dall’acquetta stillata dai pacchi trasferiti nel minibar – un riciclo di vecchissimi arredi, speriamo nessuno ce lo tolga, palliativo alla mancanza di aria condizionata e custode dei nostri strani pic-nic – e ci sono tanti files che mi aspettano per le prossime ore. Basta dai. Dai, facciamo basta per oggi. Lasciatemi stare con i miei files, che so come prenderli, che non si stropicciano, come le ore di questa interminabile mattina. E quando non ne potrò più mi metterò a pensare alla musica. Qui vicino c’è un festival internazionale di flauto e un pot pourri di concerti gratuiti che nemmeno si potrebbero immaginare in desiderio e un po’ più lontano, ma non troppo, sabato sera, c’è spettacolo, sulle acque di un altro lago.
Dopo è andata meglio. Molto meglio. E adesso è sera. C’è arietta fresca che muove la fiammella di una candela di citronella, accesa per la compagnia e per i riflessi rossi che ballano sulla scrivania, non certo per l’efficacia. Ci sono le parole che scrivo e che non si sgrovigliano, c’è stata la burrata bianchissima con la valeriana fresca e il pane fatto in casa. C’è la mia casa coi suoi odori e i suoi rumori tutta quieta in attesa della notte. C’è la mia stanza, mio guscio, mio fortino. E un pacco di spolette nuove, tutte colorate, piccolo pensiero inatteso di una zia che si diverte ad assecondare le mie manie. C’è il sonno che sta arrivando, lentamente, accompagnato da un bicchiere di acqua e limone e dalla sensazione altrettanto asprigna che certe volte sarebbe meglio rimanere qui dentro, al sicuro e lasciare che siano gli altri a vivere là fuori.
E guardarli da lontano, con l’occhio freddo di chi non prova niente al contatto.