Da più di mezzo secolo mi occupo di musica e, avendo avuto la fortuna per molto tempo di farne anche la mia professione, ho avuto l’accesso a luoghi abbastanza interdetti alla gente comune, ad esempio una sala di registrazione; non sto parlando di tempi recenti, ormai un musicista (anche non) professionista ha il suo studio personale a casa sua; parlo degli anni 60/70 quando davvero entrare in una sala di registrazione era cosa difficile e costosissima.Forse non tutti sanno che la cosiddetta ‘’camera eco’’ era realmente una camera, una stanza vuota, trattata acusticamente a volte anche in modo complicatissimo, dove un altoparlante emetteva un suono da un angolo e dove un microfono o più riprendevano lo stesso suono da altri angoli con un ritardo tale da diventare ‘’un alone’’ che ai tempi era l’effetto più usato. E che dire delle macchine per il riverbero che erano per lo più uno cassone di legno pesantissimo dove un microfono eccitava una sottilissima lastra di metallo tale da metterla in oscillazione e riprodurre quindi l’effetto di riverbero. I compressori di dinamica, come tutto le altre apparecchiature, erano valvolari e si utilizzavano trucchi artigianali per fare in modo che le valvole si riscaldassero fino a diventare viola per ottenere dei suoni leggermente distorti ma carichi di armoniche che arricchivano i suoni in maniera del tutto simile ‘’ma più calda’’ a quella che oggi gli ingegneri hanno riprodotto nei plug-ins in forma digitale.Quando dovevi portare un ‘’provino’’ da qualche parte in sala ‘’transfer’’ si faceva una lacca, un ‘pronto ascolto’, cioè un disco di metallo ricoperto di materiale vinilico che permetteva velocemente un ascolto per uno ristretto numero di volte fino a quando si deteriorava a tal punto da diventare inascoltabile.Lo stato dell’arte di quegli anni permetteva sicuramente di fare ottime cose anche se il costo per produrlo era decisamente altissimo per i più. Questo perché il maggior numero di ore impiegate per registrare un brano era ‘’perso’’ per ‘fare i suoni’ (questa era l’espressione che si usava); partendo dal mio strumento infatti passavano ore in studio per mettere a punto i microfoni, la loro posizione, poi i compressori e/o i limitatori, poi gli equalizzatori per dare il suono finale che fosse giusto per il palato degli artisti e del produttore: non ricordo quante registrazioni ho fatto come ‘session man’ alla batteria, comunque un numero ingombrante, ma ricordo di non averci mai messo meno di due ore per fare i suoni, ripeto, di un brano; quando si faceva un LP infatti non era detto che i suoni iniziali andassero bene per tutto il lavoro e quindi, in questo caso, si ripartiva da capo. Non c’era possibilità alcuna di memorizzare alcunché (regolazioni, livelli e quant’altro quindi si prendevano appunti su fogli prestampati nella speranza di riuscire a riprodurre quei suoni la session successiva; nonostante l’alta professionalità dei fonici di studio rigorosamente in camice bianco, spesso bastava la diversa temperatura delle macchine che si stavano usando per non ritrovare più, mai più, la sonorità che si stava cercando.Come tutte le cose del passato, quando se ne parla, si prova un sentimento misto tra nostalgia e tenerezza. Il motivo però di quanto scritto è prodromo a quanto vorrei affermare qui. Registrare nei 70 era bellissimo perché musicisti, tecnici e produttori dedicavano moltissimo tempo alla ricerca dei suoni; mi azzarderei a dire che gruppi come i Beatles che in studio avevano praticamente un budget illimitato, si ricordano sempre volentieri proprio per la qualità dei suoni. la loro particolarità, la loro incisività, la loro perfetta assonanza con i brani e qualche volta anche con i testi.I tempi sono cambiati, questo non lo si può negare, ed anche il modo di scrivere musica. Oggi una miriade di aziende, per lo più tedesche e americane, hanno costruito passo dopo passo una libreria di suoni campionando praticamente tutto lo strumentario disponibile in questo mondo; orchestre di archi, ottoni, pianoforti dalle marche più prestigiose, pianoforti trattati e stonati, tutti i synth prodotti dagli anni 70 in poi, mellotron, piano fender, clavinet e chi più ne ha più ne metta; per noi batteristi sono stati campionati tutti i kit che hanno caratterizzato la musica pop, rock, progressive e dintorni; per i chitarristi e i bassisti sono stati riprodotti suoni di tutti i migliori chitarristi del XX secolo e pure tutti gli amplificatori universalmente conosciuti (Vox, Fender, Marshall ecc) non solo ma sono state riprodotte tutte le situazioni di ripresa in studio con diversi microfoni posizionati in diversi punti e il tutto con delle interfacce grafiche realistiche e molto facili da usare.Tutto questo se è vero che ha permesso ad ogni musicista creativo di avere a disposizione una biblioteca sonora pressoché illimitata, ha in qualche modo viziato i musicisti stessi ad un modo di lavorare sempre più lontano da quello che personalmente ritengo dovrebbe essere. Il musicista creativo dovrebbe ritornare a passare meno tempo a cercare ‘’il suono giusto’’ sfogliando questa enorme massa di suoni registrati in maniera professionale e perfetta e ricominciare a creare dei suoni propri. Magari meno belli di quelli preconfezionati da altri ma personali, originali e provarli sui brani che si stanno scrivendo perdendo ore, giorni finché diventino parte dell’idea che si sta tentando di realizzare, arricchendola.E’ retorico aggiungere che uno dei problemi della musica d’oggi è quello di una accresciuta omologazione di stili e di sonorità per me causato proprio dalla mancanza di personalità non dei musicisti che la suonano ma dei suoni che alla fine essi decidono di usare che sono purtroppo sempre più simili fra loro.Una batteria compressa e filtrata in un modo diverso dagli schemi convenzionali, il suono di una chitarra effettata in modo bizzarro, l’intervento di un pianoforte magari un po’ scordato, se il gusto del musicista lo richiedesse, credo sarebbero più intriganti e innovativi rispetto a ciò che si ascolta tutti i gironi, quasi la musica fosse diventata parte del rumore di fondo che ci accompagna nella quotidianità. Chi scrive musica dovrebbe farsi carico di spendere un po’ di tempo alla ricerca, azzardo la parola invenzione, dei suoni che vorrà proporre al pubblico.
Da più di mezzo secolo mi occupo di musica e, avendo avuto la fortuna per molto tempo di farne anche la mia professione, ho avuto l’accesso a luoghi abbastanza interdetti alla gente comune, ad esempio una sala di registrazione; non sto parlando di tempi recenti, ormai un musicista (anche non) professionista ha il suo studio personale a casa sua; parlo degli anni 60/70 quando davvero entrare in una sala di registrazione era cosa difficile e costosissima.Forse non tutti sanno che la cosiddetta ‘’camera eco’’ era realmente una camera, una stanza vuota, trattata acusticamente a volte anche in modo complicatissimo, dove un altoparlante emetteva un suono da un angolo e dove un microfono o più riprendevano lo stesso suono da altri angoli con un ritardo tale da diventare ‘’un alone’’ che ai tempi era l’effetto più usato. E che dire delle macchine per il riverbero che erano per lo più uno cassone di legno pesantissimo dove un microfono eccitava una sottilissima lastra di metallo tale da metterla in oscillazione e riprodurre quindi l’effetto di riverbero. I compressori di dinamica, come tutto le altre apparecchiature, erano valvolari e si utilizzavano trucchi artigianali per fare in modo che le valvole si riscaldassero fino a diventare viola per ottenere dei suoni leggermente distorti ma carichi di armoniche che arricchivano i suoni in maniera del tutto simile ‘’ma più calda’’ a quella che oggi gli ingegneri hanno riprodotto nei plug-ins in forma digitale.Quando dovevi portare un ‘’provino’’ da qualche parte in sala ‘’transfer’’ si faceva una lacca, un ‘pronto ascolto’, cioè un disco di metallo ricoperto di materiale vinilico che permetteva velocemente un ascolto per uno ristretto numero di volte fino a quando si deteriorava a tal punto da diventare inascoltabile.Lo stato dell’arte di quegli anni permetteva sicuramente di fare ottime cose anche se il costo per produrlo era decisamente altissimo per i più. Questo perché il maggior numero di ore impiegate per registrare un brano era ‘’perso’’ per ‘fare i suoni’ (questa era l’espressione che si usava); partendo dal mio strumento infatti passavano ore in studio per mettere a punto i microfoni, la loro posizione, poi i compressori e/o i limitatori, poi gli equalizzatori per dare il suono finale che fosse giusto per il palato degli artisti e del produttore: non ricordo quante registrazioni ho fatto come ‘session man’ alla batteria, comunque un numero ingombrante, ma ricordo di non averci mai messo meno di due ore per fare i suoni, ripeto, di un brano; quando si faceva un LP infatti non era detto che i suoni iniziali andassero bene per tutto il lavoro e quindi, in questo caso, si ripartiva da capo. Non c’era possibilità alcuna di memorizzare alcunché (regolazioni, livelli e quant’altro quindi si prendevano appunti su fogli prestampati nella speranza di riuscire a riprodurre quei suoni la session successiva; nonostante l’alta professionalità dei fonici di studio rigorosamente in camice bianco, spesso bastava la diversa temperatura delle macchine che si stavano usando per non ritrovare più, mai più, la sonorità che si stava cercando.Come tutte le cose del passato, quando se ne parla, si prova un sentimento misto tra nostalgia e tenerezza. Il motivo però di quanto scritto è prodromo a quanto vorrei affermare qui. Registrare nei 70 era bellissimo perché musicisti, tecnici e produttori dedicavano moltissimo tempo alla ricerca dei suoni; mi azzarderei a dire che gruppi come i Beatles che in studio avevano praticamente un budget illimitato, si ricordano sempre volentieri proprio per la qualità dei suoni. la loro particolarità, la loro incisività, la loro perfetta assonanza con i brani e qualche volta anche con i testi.I tempi sono cambiati, questo non lo si può negare, ed anche il modo di scrivere musica. Oggi una miriade di aziende, per lo più tedesche e americane, hanno costruito passo dopo passo una libreria di suoni campionando praticamente tutto lo strumentario disponibile in questo mondo; orchestre di archi, ottoni, pianoforti dalle marche più prestigiose, pianoforti trattati e stonati, tutti i synth prodotti dagli anni 70 in poi, mellotron, piano fender, clavinet e chi più ne ha più ne metta; per noi batteristi sono stati campionati tutti i kit che hanno caratterizzato la musica pop, rock, progressive e dintorni; per i chitarristi e i bassisti sono stati riprodotti suoni di tutti i migliori chitarristi del XX secolo e pure tutti gli amplificatori universalmente conosciuti (Vox, Fender, Marshall ecc) non solo ma sono state riprodotte tutte le situazioni di ripresa in studio con diversi microfoni posizionati in diversi punti e il tutto con delle interfacce grafiche realistiche e molto facili da usare.Tutto questo se è vero che ha permesso ad ogni musicista creativo di avere a disposizione una biblioteca sonora pressoché illimitata, ha in qualche modo viziato i musicisti stessi ad un modo di lavorare sempre più lontano da quello che personalmente ritengo dovrebbe essere. Il musicista creativo dovrebbe ritornare a passare meno tempo a cercare ‘’il suono giusto’’ sfogliando questa enorme massa di suoni registrati in maniera professionale e perfetta e ricominciare a creare dei suoni propri. Magari meno belli di quelli preconfezionati da altri ma personali, originali e provarli sui brani che si stanno scrivendo perdendo ore, giorni finché diventino parte dell’idea che si sta tentando di realizzare, arricchendola.E’ retorico aggiungere che uno dei problemi della musica d’oggi è quello di una accresciuta omologazione di stili e di sonorità per me causato proprio dalla mancanza di personalità non dei musicisti che la suonano ma dei suoni che alla fine essi decidono di usare che sono purtroppo sempre più simili fra loro.Una batteria compressa e filtrata in un modo diverso dagli schemi convenzionali, il suono di una chitarra effettata in modo bizzarro, l’intervento di un pianoforte magari un po’ scordato, se il gusto del musicista lo richiedesse, credo sarebbero più intriganti e innovativi rispetto a ciò che si ascolta tutti i gironi, quasi la musica fosse diventata parte del rumore di fondo che ci accompagna nella quotidianità. Chi scrive musica dovrebbe farsi carico di spendere un po’ di tempo alla ricerca, azzardo la parola invenzione, dei suoni che vorrà proporre al pubblico.
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