Invidia, o inferiorità e tristezza per i beni altrui

Da Quipsicologia @Quipsicologia

L’invidia è una costellazione di emozioni, comprendente rabbia, rancore, astio, ostilità, che nasce nell’individuo nel vedere qualcuno che è felice, sta bene, è soddisfatto, è riuscito in una certa cosa, un sentimento che a volte ha un’intensità tale da far desiderare che il benessere altrui si trasformi in male: nel guardare l’altra persona stabiliamo, senza neanche volerlo, un confronto e questo confronto ci rimprovera per ciò che non abbiamo e ciò che non siamo.

L’invidia è un’emozione sgradevole che ammettiamo a fatica e con imbarazzo. Nell’invidia, l’altra persona con cui stabiliamo un paragone è il vincitore e non importa se quanto gli invidiamo e vorremmo per noi gli è costato lacrime e sangue. Quando siamo preda dell’invidia, diventiamo ciechi e vediamo solo noi stessi. L’altro funziona come uno specchio e ci mostra, non necessariamente in modo intenzionale, la nostra inferiorità.

L’invidia è aggressività

Per difenderci dall’invidia ricorriamo a volte alla svalutazione di ciò che in realtà ci sembra carico di pregio: la calunnia, il pettegolezzo, la critica gratuita sono tutte strategie che talora possono aiutarci a tenere l’invidia lontana dalla nostra consapevolezza e al tempo stesso forme di invidia. La favola di Esopo sulla volpe e l’uva  è un bell’esempio di svalutazione di ciò che non riusciamo a ottenere. Del resto, se una cosa non ha valore, non c’è motivo per provare invidia verso chi quella cosa ce l’ha.

L’invidia può così spingerci a cercare di annientare chi, volontariamente o meno, mette a nudo la nostra nullità e la nostra impotenza. La letteratura ha magnificamente illustrato il carattere distruttivo dell’invidia: pensiamo, ad esempio, allo Iago dell’Otello di Shakespeare o al Salieri del Mozart e Salieri  di Pûskin, tetre figure dilaniate da un confronto schiacciante con l’altro e decise a eliminarlo.

L’invidia come raffigurata da Giotto

L’invidia, sentimento fastidioso, inquietante, sia per chi lo nutre che per chi lo subisce, comincia negli occhi di chi guarda. L’invidioso trova la vista dell’altra persona intollerabile e dolorosa: l’altra persona sottolinea, con il suo stesso esistere, quanto le siamo inferiori e non ci permette di avere di noi una buona immagine, di riconoscere e apprezzare le nostre qualità. Dinanzi all’altro siamo uno zero, la nostra identità e la nostra autostima vacillano.

Che peccato!

Riconoscerci invidiosi comporta allora ammettere di sentirci inferiori rispetto all’altro. Ammettere un sentimento che è considerato dalla tradizione giudaico-cristiana un peccato capitale, un peccato che, a differenza degli altri, non dà neanche piacere.

E allora è più comodo chiamare l’invidia non con il suo nome, ma chiamarla gelosia, che almeno non è un peccato ed è connessa all’amore. Così ci sembra di avere dentro di noi un sentimento non così brutto.

Post scriptum: era Tommaso d’Aquino che, seguendo Giovanni Damasceno, definiva l’invidia  “tristezza per i beni altrui”.

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