Si tratta di un vero e proprio reportage narrativo, arricchito da un bell’apparato fotografico, tra i luoghi dell’archeologia industriale italiana, dal duro e freddo acciaio dell’ILVA di Taranto alle rovine di un tempio dell’immaginario e del gioco come il Luneur di Roma, attraverso la centrale elettronucleare sul Garigliano e le miniere sarde di Montevecchio, e ancora le epopee, non solo economiche, degli Olivetti a Ivrea, i Florio a Palermo e i Crespi in Lombardia. Lavoro serio e documentato, in cui lo scrittore è intimamente coinvolto e sempre in prima linea, mostrando «non una commozione sentimentale, epidermica, ma nell’unico modo credibile che credo abbia un uomo per commuoversi, cioè dopo una certa resistenza probatoria», coinvolgimento che regala all’impianto saggistico un afflato intenso a tratti lirico, una letterarietà notevole, grazie anche al linguaggio ricercato e al ritmo della narrazione, che ha fatto tirare in ballo riferimenti a Sebald, peraltro esplicitamente citato nel testo.
Racconto dolente, mai lamentoso, impietoso, mai rassegnato, è il resoconto impressionante di un passaggio epocale, dalla produzione industriale classica al postfordismo e alla finanziarizzazione dell’economia, l’età della “dismissione”, per dirla col titolo di un romanzo di Rea dedicato a Bagnoli, che ha lasciato dietro di sé, come relitti, fabbriche, ma non solo, interi mondi sociali; ognuno dei luoghi visitati da Liviano D’Arcangelo è un «residuo fossile, reliquia in grado di simboleggiare il superamento di un intero sistema di vita economico, oltre che antropologico». Basti leggere le pagine sui minatori sardi o sui tentativi di costruzione di un autosufficiente e armonico sistema sociale da parte di Olivetti o il capitolo su Crespi d’Adda. Particolarmente intenso il capitolo iniziale, perfetta introduzione all’intero percorso, sull’ILVA, quella «medaglia simbolica dell’orgoglio produttivo nazionale», in cui lo scrittore, accompagnato dal cieco Amedeo, novello Virgilio, tanto quanto Doppiacoppia nella visita a Baia Domizia, è di fronte alla plastica rappresentazione di un dramma, che porta qualcuno a dire «meglio morire di cancro che di fame», là dove si era avuta la sensazione di fare la storia: «noi eravamo lì per costruire il futuro, il futuro, capisci, mica una fabbrica».
Sono storie di occasioni perdute o di possibilità ormai superate dalla storia, ma lo sguardo attento di Liviano D’Arcangelo, impegnato a capire nel momento stesso in cui osserva e racconta, avverte di essere «parte integrante di una potente forza del passato, molto più che viva, la cui eredità concreta contiene più potenziale rivoluzionario nel momento storico in fieri che nell’ormai trascorsa grandezza, lontana mezzo secolo» e dopo il racconto di tanti fallimenti propone una soluzione, una forse ingenua ma ineludibile utopia, ovvero la necessità di «ricreare una nuova economia politica come mezzo, liberazione dall’ossessione del profitto, non ai fini di perseguire un’uguaglianza utopica da manuale, ma ai fini della conservazione della ricchezza planetaria e del diritto alla vita».
Letteratura e impegno civile possono ancora coniugarsi, in un libro che, se non fosse un’espressione abusata, non si esiterebbe a definire necessario.
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