Io confesso: John Grisham torna con il suo cavallo di battaglia preferito, l’odiosità della pena di morte.

Creato il 14 marzo 2011 da Rstp
Quando in una fredda mattina d’inverno uno sconosciuto si presenta nella sua parrocchia e chiede insistentemente di vederlo, il reverendo Keith Schroeder non può immaginare che quell’incontro cambierà la sua vita per sempre.
L’uomo si chiama Travis Boyette, ha subito varie condanne per reati sessuali, è in libertà vigilata e sostiene di custodire da molti anni un terribile segreto che è deciso a confessare. Perché proprio adesso? Dice di avere un tumore incurabile al cervello e di volersi liberare dal peso che grava sulla sua coscienza.
Con la sua testimonianza potrebbe scagionare Donté Drumm, un giovane di colore condannato a morte in una piccola città del Texas per l’omicidio di una ragazza bianca il cui corpo non è mai stato ritrovato.
Donté si è sempre proclamato innocente, la sua famiglia e Robbie Flak, il suo avvocato, noto per l’impegno sociale e il carattere bellicoso, si sono battuti per nove anni con ogni mezzo per dimostrarlo; il caso ha suscitato un enorme scalpore, ma finora tutto è stato inutile. Boyette afferma di sapere chi è il vero assassino, ma non ha intenzione di rivelarlo a nessuno se non al reverendo Schroeder. Mancano quattro giorni all’esecuzione.
Basteranno per salvare Donté, o almeno per una sospensione della condanna? Come può un pregiudicato convincere avvocati, giudici e politici che stanno giustiziando l’uomo sbagliato? In una spasmodica corsa contro il tempo, il reverendo e l’avvocato faranno di tutto per ottenere un rinvio.
Ma, come spesso accade, la verità, se clamorosa, sembra avere vita più difficile della menzogna.

John Grisham torna con il suo cavallo di battaglia preferito: l’odiosità della pena di morte e la fallibilità di verdetti che spesso – a condanna eseguita – si rivelano basati su falsi presupposti. Con Io confesso (in uscita per Mondadori, pp. 437, e20; qui ne anticipiamo l’incipit) l’inventore del legal thriller ripercorre in sostanza la strada iniziata nel 2008 con Innocente, incurante degli effetti collaterali di simili atti d’accusa: il pubblico americano sembra infatti irritarsi profondamente e ogni volta lo penalizza nelle vendite.
Fortunatamente per lui, l’Italia – e l’Europa in generale – non la pensano così e gli restituiscono ciò che perde in patria tifando incondizionatamente per il poveraccio di turno, anche se colpevole. Prigioniero comunque di una civiltà giudiziaria barbara, insopportabile alle nostre coscienze. In questo caso però pare proprio che l’imputato, il nero Dontè Drumm, a 24 ore dall’esecuzione, sia innocente.
O, per lo meno, è quanto sostiene Travis Boyette, criminale fuori sulla parola, fedina penale costellata di ogni tipo di reato, ma con un tumore maligno al cervello e dunque pronto a confessare al reverendo Keith Schroeder il vero nome dell’assassino della bianca Nicole Yarber, il cui corpo non è mai stato ritrovato, pur di ottenere l’assoluzione prima di morire. Come in gran parte dei romanzi di Grisham, anche qui il ritmo, l’ansia e il colpo di scena sono dirompenti e attanagliano qualsiasi tipo di lettore
Il custode della chiesa di Si Mark aveva appena grattato via dieci centimetri di neve dal marciapiede, quando comparve l'uomo con il bastone. C'era il sole, ma il vento ululava e la temperatura era bloccata sullo zero. L'uomo indossava soltanto dei pantaloni da lavoro di tela, una camicia estiva, un paio di logori scarponcini da trekking e una giacca a vento leggera che poteva opporre ben poca resistenza al gelo. Ma comunque non sembrava soffrire il freddo, e neppure avere fretta. Camminava zoppicando, con una leggera inclinazione a sinistra, il lato su cui si appoggiava al bastone. Avanzò faticosamente lungo il marciapiede accanto alla cappella e si fermò davanti a un ingresso laterale contrasse­gnato dalla scritta ufficio in caratteri rosso scuro. Non bussò e aprì la porta, che non era chiusa a chiave. Entrò proprio mentre un'altra raffica di vento lo colpiva alle spalle.

La stanza era un'area ricevimento, con quell'aspetto polve­roso e disordinato che ci si aspetta di trovare in una vecchia chiesa. Sulla scrivania al centro del locale c'era una targhetta che annunciava la presenza di Charlotte Junger, la quale sedeva poco dietro il proprio nome. «Buongiorno» salutò la donna con un sorriso.
«Buongiorno» disse l'uomo. Una pausa. «Fa molto freddo fuori.»
«Sì, è vero» concordò la donna, mentre dava una rapida oc­chiata al visitatore. Il problema più evidente era che non aveva il cappotto né qualcosa che gli riparasse testa e mani.


«Immagino che lei sia Miss Junger» disse l'uomo, fissando il nome sulla targhetta.
«No, Miss Junger oggi non c'è: ha l'influenza. Per il momento la sostituisco io. Mi chiamo Dana Schroeder, sono la moglie del pastore. Cosa, possiamo fare per lei?»
C'era una sedia davanti alla scrivania e l'uomo la guardò speranzoso. «Posso?» domandò.

«Naturalmente» rispose Dana. L'uomo si sedette quasi con cautela, come se ogni movimento richiedesse un'attenta rifles­sione.

«C'è il reverendo?» domandò, guardando una grande porta chiusa sulla sinistra.
«Sì, ma è occupato. Cosa possiamo fare per lei?» Dana era minuta, con un bel seno sotto il maglione aderente. A causa della scrivania, l'uomo non poteva vedere nulla al di sotto della cintura. Le donne piccole di statura erano sempre state le sue preferite. Questa aveva un viso grazioso, grandi occhi azzurri e zigomi alti; nel complesso una bella ragazza, la perfetta mogliettina del pastore.

Era passato parecchio tempo dall'ultima volta che aveva toccato una donna.
«Ho bisogno di parlare con il reverendo Schroeder.» L'uomo congiunse le mani in un gesto di preghiera. «Ieri ero in chiesa, ho ascoltato il suo sermone e... be', mi serve un consiglio.»

«Mio marito è molto occupato, oggi» disse Dana con un sorriso. Bei denti.

«È che si tratta di una questione piuttosto urgente» insistette l'uomo.

Dana era sposata con Keith Schroeder da abbastanza tempo per sapere che nessuno era mai stato cacciato via dal suo ufficio, avesse o meno un appuntamento. Inoltre era un gelido lunedì mattina, e Keith non era poi così occupato. Qualche telefonata, un colloquio con una giovane coppia che stava battendo in ritirata davanti all'imminente matrimonio - incontro in corso proprio in quel momento - e poi le solite visite negli ospedali. Dana frugò tra i fogli sulla scrivania e trovò il questionario che stava cercando.

«Okay, adesso le chiederò qualche dato personale e poi vedremo cosa si può fare.»

Aveva già la penna in mano.

«Grazie» disse l'uomo, chinando leggermente la testa.


«Nome?»

«Travis Boyette.» L'uomo sillabò istintivamente il proprio cognome. «Data di nascita: 10 ottobre 1963. Luogo: Joplin, Missouri. Età: quarantaquattro anni. Single, divorziato, nessun figlio. Nessun indirizzo. Nessun lavoro. Nessuna prospettiva.»

Dana assorbì i dati mentre la penna cercava freneticamente gli spazi giusti da riempire. Le informazioni dell'uomo suscitavano molte più domande di quelle che prevedeva il suo elementare modulo. «A proposito dell'indirizzo...» disse, continuando a scrivere. «Dove abita attualmente?»

«Attualmente mi trovo sotto la responsabilità del dipartimento Amministrazione penitenziaria del Kansas. Mi hanno mandato in un centro di recupero in Seventeenth Street, a qualche isolato da qui. Sto per essere rilasciato, o "reinserito", come piace dire a loro. Qualche mese nel centro qui a Topeka e poi sarò un uomo libero, con niente in cui sperare se non la libertà vigilata per il resto della vita.»

La penna smise di scrivere, ma Dana continuò comunque a fissarla. Il suo interesse nel questionario era improvvisamente scemato. Esitava a chiedere altro. Tuttavia, avendo lei dato inizio all'interrogatorio, si sentiva obbligata a continuare. Cos'altro avrebbero potuto fare mentre aspettavano il reverendo?

«Le andrebbe del caffè?» domandò, sicura che quella fosse una domanda innocua.
Ci fu una pausa, troppo lunga, come se Boyette non riuscisse a decidersi. «Sì, grazie. Nero, con poco zucchero.»

Dana uscì in fretta dalla stanza. Boyette la guardò allontanarsi, osservandola attentamente nei particolari, notando il bel sedere rotondo sotto i pantaloni sportivi, le gambe affusolate, le spalle atletiche, perfino la coda di cavallo. Un metro e sessanta, forse sessantadue. Cinquanta chili al massimo.

Dana se la prese comoda, e quando rientrò trovò Travis Boy-ette esattamente dove l'aveva lasciato, ancora seduto come un monaco, la punta delle dita della mano destra che picchiettava­no la punta delle dita della sinistra, il bastone di legno scuro di traverso sulle cosce, gli occhi che fissavano il nulla sulla parete di fronte. La testa era calva, piccola, perfettamente rotonda e lu­cente. Un inquietante tatuaggio risa­liva strisciando lungo il lato sinistro del collo. Boyette prese la tazza e ringraziò. Dana riguadagnò la propria posizione, con la scrivania tra di loro.

«Lei è luterano?» domandò, impugnando di nuovo la penna.

«Ne dubito. In realtà non sono niente. Non ho mai sentito il bisogno di appartenere a una chiesa.»

«Però ieri era qui. Perché?»

Boyette teneva la tazza davanti al mento con tutte e due le mani, come un topo che rosicchia un boccone. Se la risposta a una semplice domanda sul caffè richiedeva dieci secondi, per quella sulla chiesa poteva forse servire un'ora. L'uomo bevve un sorso e si passò la lingua sulle labbra. «Quanto tempo pensa che ci vorrà prima di poter vedere il reverendo?» domandò alla fine.

"Non sarà mai abbastanza presto" pensò Dana, a quel punto ansiosa di passare il visitatore a suo marito. Guardò l'orologio appeso alla parete e rispose: «Solo pochi minuti, ormai».

«Sarebbe possibile restarcene seduti in silenzio, mentre aspet­tiamo?» domandò Boyette con grande educazione.

Dana assorbì il colpo, e decise rapidamente che il silenzio non era poi una cattiva idea. Ma la curiosità ebbe la meglio. «Certo. Solo un'ultima domanda.» Aveva lo sguardo abbassato sul questionario, come se il modulo esigesse un'ultima risposta. «Per quanto tempo è stato in prigione?»

«Metà della mia vita» rispose Boyette senza esitare, quasi fosse abituato a fornire quell'informazione cinque volte al giorno.

Dana scribacchiò qualcosa, poi rivolse l'attenzione alla tastiera del computer. Picchiettò sui tasti con gesti decisi e teatrali, come se all'improvviso avvertisse un'urgenza. L'e-mail che aveva inviato a Keith diceva: "Qui c'è un ex detenuto che vuole par­lare con te. Non se ne andrà finché non lo avrà fatto. Sembra abbastanza a posto. Offerto caffè. Sbrigati".

Cinque minuti più tardi, la porta dell'ufficio del reverendo si aprì. Una giovane donna sgusciò in fretta all'esterno. Si stava asciugando gli occhi. La seguiva il suo ex fidanzato, il quale riuscì a produrre contemporaneamente un'espressione seria e accigliata e un sorriso. Nessuno dei due rivolse la parola a Dana. Nessuno dei due notò Travis Boyette. Tutti e due scomparvero.


Quando la porta d'ingresso si richiuse sbattendo, Dana disse a Boyette: «Solo un minuto». Poi entrò in fretta nell'ufficio del marito per un rapido briefing.

fl reverendo Keith Schroeder aveva trentacinque anni, era felice­mente sposato con Dana da dieci ed era padre di tre ragazzini, nati a intervalli di venti mesi l'uno dall'altro. Era il pastore di St Mark da due anni; in precedenza c'era stata una chiesa a Kansas City. Anche suo padre era un pastore luterano, ora in pensione, e Keith non aveva mai sognato di essere qualcosa di diverso. Era cresciuto in una cittadina vicino a St Louis, aveva frequentato scuole non molto lontane da casa e, a parte una gita scolastica a New York e la luna di miele in Florida, non si era mai allontanato dal Midwest. Era per lo più ammirato dalla sua congregazione, anche se qualche problema c'era stato. Lo screzio più grave si era verificato l'inverno precedente quando, durante una bufera di neve, aveva aperto il seminterrato della chiesa per ospitare diversi senzatetto. Dopo che la neve si era sciolta, alcuni ospiti si erano dimostrati riluttanti ad andarsene. Il comune era intervenuto con una citazione per uso non consentito dei locali e il quotidiano della città aveva pubblicato un articolo piuttosto imbarazzante.

Il tema del suo sermone del giorno prima era stato il perdono: il potere infinito e grandioso di Dio di perdonare i nostri peccati, per quanto odiosi possano essere. I peccati di Travis Boyette erano atroci, incredibili, orrendi. I suoi crimini contro l'umanità lo avrebbero sicuramente condannato alla sofferenza eterna. A quel punto della sua miserabile vita, Boyette era convinto che non avrebbe mai potuto essere perdonato. Ma era curioso.

«Abbiamo avuto parecchia gente che veniva dal centro di reinserimento» stava dicendo Keith. «Vi ho addirittura celebrato delle funzioni.» Erano in un angolo del suo ufficio, lontani dalla scrivania, due nuovi amici che facevano una chiacchierata seduti sulle poltroncine di canapa semisfondate. Accanto a loro, finti ceppi ardevano in un finto caminetto.

«Il centro non è un brutto posto» disse Boyette. «Di sicuro migliore della prigione.» Era un uomo fragile, con la carnagione pallida di chi è rimasto confinato in luoghi privi di luce. Il ba­stone scuro era posato di traverso sulle ginocchia ossute, così vicine da toccarsi.



«Dov'è stato in prigione?» Keith aveva in mano una tazza di tè bollente.

«Qua e là. Gli ultimi sei anni a Lansing.»

«E per cosa è stato condannato?» domandò Keith, ansioso di scoprire di quali reati fosse colpevole in modo da sapere qualcosa di più di quell'uomo. Violenza? Droga?

Probabilmente. Oppure Travis poteva essere stato condannato per appropriazione in­debita o evasione fiscale. Di sicuro non sembrava tipo da fare del male a qualcuno.
«Un mucchio di brutte cose, reverendo. Non riesco a ricordarle tutte.» Boyette preferiva evitare il contatto visivo. Il tappeto sotto i piedi sembrava catturare tutta la sua attenzione. Keith bevve un sorso di tè, osservò bene il suo ospite e fu allora che notò il tic. Ogni pochi secondi la testa di Boyette si inclinava leggermente a sinistra. Era un movimento rapido, seguito da un più deciso scatto per riportare la testa in posizione eretta.

Dopo qualche minuto di totale silenzio, Keith domandò: «Di cosa volevi parlarmi, Travis?».

«Ho un tumore al cervello, reverendo. Maligno, mortale, praticamente incurabile. Se avessi un po' di soldi potrei cercare di combatterlo... radiazioni, chemio, la solita roba, il che forse mi darebbe dieci mesi, magari un anno. Ma è un glioblastoma, di quarto grado, e questo significa che sono un uomo morto. Sei mesi, un anno, non ha molta importanza. Tra un po' me ne sarò andato.» Come se avesse aspettato la battuta per l'entrata in scena, il tumore si presentò. Boyette fece una smorfia, si piegò in avanti e prese a massaggiarsi le tempie. Il respiro era affannato, faticoso, e tutto il corpo sembrava in preda al dolore.

«Mi dispiace molto» disse Keith, rendendosi pienamente conto di quanto la frase fosse inadeguata.

«Maledetti mal di testa» si lamentò Boyette, gli occhi ancora chiusi. Lottò contro il dolore per qualche minuto. Keith lo guar­dava impotente, mordendosi la lingua per impedirsi di dire qualcosa di stupido come: "Vuoi un Tylenol?". Poi la sofferenza si attenuò e Boyette sembrò rilassarsi. «Mi scusi.»

«Quando le è stato diagnosticato?» chiese il reverendo.

«Non lo so. Un mese fa. Il mal di testa è cominciato a Lansing, in estate. Può immaginare la qualità delle cure in quel posto: non ho avuto nessun aiuto. Dopo che mi hanno rilasciato e mandato qui, mi hanno portato al St Francis Hospital, dove mi hanno fatto tutti gli esami e le tac, e mi hanno trovato un bell'uovo in mezzo alla testa, proprio tra le orecchie, troppo in profondità per intervenire.» Fece un respiro profondo, buttò fuori l'aria e sorrise per la prima volta. Gli mancava un dente nell'arcata superiore, a sinistra, e il buco era vistoso. Keith sospettò che in prigione le cure odontoiatriche lasciassero un po' a desiderare.

«Immagino che lei abbia già incontrato gente come me» riprese Boyette. «Gente vicina alla morte.»

«Ogni tanto. Fa parte del mestiere.»

«E immagino che queste persone tendano a prendere parec­chio sul serio Dio, il paradiso, l'inferno e tutta quella roba lì.»

«Proprio così. È la natura umana. Quando dobbiamo con­frontarci con la nostra mortalità, pensiamo all'aldilà. E cosa mi dici di te, Travis? Tu credi in Dio?»

«Certi giorni sì e certi altri no. Ma, anche quando ci credo, sono comunque abbastanza scettico. Per lei è semplice credere in Dio, ha avuto una vita facile. La mia storia è molto diversa.»

«Ti va di raccontarmela?»

«Non proprio.»

«Allora perché sei qui, Travis?»

Il tic. Quando la testa fu di nuovo ferma, gli occhi di Boyette si guardarono intorno nella stanza e poi si fermarono su quelli del pastore. I due si fissarono a lungo, entrambi senza sbattere le palpebre. Poi Boyette disse: «Reverendo, io ho fatto delle brutte cose. Ho fatto del male a persone innocenti. Non sono sicuro di volermi portare tutto nella tomba».
"Adesso finalmente arriviamo da qualche parte" pensò Keith. Il peso del peccato non confessato. La vergogna di una colpa sepolta. «Parlarmi di quelle brutte cose ti sarebbe d'aiuto. E il punto migliore da cui partire è la confessione.»

«Sarebbe confidenziale?»

«In linea di massima sì, ma ci sono delle eccezioni.»

«Quali eccezioni?»

«Se tu ti confidi con me e io mi convinco che costituisci un pericolo per te stesso o per altri, il vincolo di segretezza non vale. Posso fare i passi che ritengo necessari per proteggere te o l'altra persona. In altre parole, posso chiedere aiuto.»

«Sembra complicato.»


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