Forse si chiamava Francesco, il tizio, mi pare, e somigliava a Iggy Pop. Beh, gli somigliava appena visto che aveva labbra che parevano un bocciolo di rosa all’alba e la pelle liscia e bianca come quella di un neonato. Perché a sedici anni si ha quella faccia lì, i denti ancora da latte nonostante le prime sigarette e l’erba, e la birra che buttavamo giù al bar dell’angolo fino a sentirci male e sempre prima del compito di greco. Credo di non averlo mai studiato il greco. Penso di essermi rivenduta anche i libri e il grosso e maledetto vocabolario. Ma avevo un insegnante molto comprensivo, all’epoca stanco ma un tempo straordinario, che preferiva distribuire un bel sei politico piuttosto che spiegarci le ragioni per cui sarebbe stato assai più utile studiare, e io, che lavoravo a maglia nell’ultima fila, sotto i cappotti, me lo meritavo proprio tutto quel voto. Ero la rappresentante ufficiale dei talentuosi senza volontà, quella del dieci in italiano e il due in chimica: la ragazzina diversa di cui diffidare. Quella che se la faceva con quelli di terzo. Che se poi era solo per ascoltare musica nel sottoscala poco importava: il marchio a fuoco fa ancora parte della nostro vivere sociale. Anche se si sono fatti più colti non dimenticano mai chi sei. Gli stessi che non mi passavano la versione, credo. Quelli delle scritte calunniose nei cessi e la figuraccia pubblica a una festa di compleanno, davanti ai genitori. Ero la pietra dello scandalo, o solo quella che in molti avrebbero voluto avere.
Comunque, se loro non mi volevano con il mio chiodo nero e gli anfibi londinesi e il mio amore per la Beat Generation e il teatro, ebbene io avevo un mondo enorme da esplorare. Se il mio margine era la loro incapacità di capire e vedere al di là della propria dedizione verso le lingue morte, allora il mio rifugio sarebbe stato Francesco o come si chiamava e le infinite ore inutili sotto il magnolio di fronte al liceo vuoto, a parlare di Nietzsche che avevamo letto appena, ma che così fuori dagli schemi ci pareva il solo a poterci capire, lui e i suoi baffoni, e la sua aria antica.
Tra i cocci di bottiglia e le sigarette spezzate nelle tasche scucite, io e il mio ragazzo dimenticato ci scambiavamo timide occhiate, eravamo simili nella nostra malinconia immotivata, nella ribellione irrazionale verso chi e cosa ancora non ci era chiaro. Dovevamo ancora capirlo il mondo. Scoprirlo quantomeno. Forse, imparare a leggerlo. Perché a sedici anni siamo solo energia in potenza, un motore da accendere, un nucleo di capacità ancora tutte da sperimentare. Sono stata fortunata, io. Nonostante l’autostop e le passeggiate notturne in solitaria, nonostante la mia aria da ragazzina ribelle e navigata, le risposte pronte e il “vaffa” sempre a fior di labbra, nessuno mi ha pugnalata. Nonostante la mia propensione al rischio, io, non sono morta ammazzata, al ritorno da scuola, nel portone di casa e dalla mano armata del mio ragazzo inutile.
(Foto di: Nini Truden)