Io e te
di Bernardo Bertolucci (Italia 2012)
Non tutto il male viene per nuocere. In alcuni casi gli
accidenti della vita forzano le cose verso direzioni impensate, non previste.
Senza invocare spiegazioni metafisiche ma chiamando in causa allo stesso tempo
delusioni politiche e malessere fisico, capita che l’empasse di un’artista si
trasformi in nuovi stimoli e, clamorosamente, in una
rinascita. E’ quello che è
successo ad uno dei massimi esponenti del cinema italiano, sicuramente il più
conosciuto ed acclamato a livello internazionale, un cineasta in grado di
parlare quel linguaggio universale costantemente invocato dai detrattori del
nostro movimento cinematografico. Per questi ed altri motivi Bernardo
Bertolucci si è trovato ad un certo punto senza ispirazione, e forse sì è
sentito superato quando ebbe modo di esternare la sua impotenza di fronte ad
una realtà che non riusciva più a capire, quindi a filmare. Da quel momento,
erano i tempi de "L’assedio" (1998), iniziò un progressivo disimpegno
a cui corrisposero lavori caratterizzati da una contrazione fisica e spaziale.
Storie di reclusioni che si ammantavano di nostalgia cinefila ed ideologica
(The Dreamers) e che in qualche modo sarebbero state il presagio della malattia
vera, quella che vide Bertolucci ridottoalla stregua dei suoi personaggi, come loro separato dal resto del
mondo. Fino a questo “Io e te”, giunto dopo lungo esilio per segnalare il nuovo
inizio .
Eppure a prima vista il progetto non sembrava diverso da
quelli precedenti, eccezion fatta per il soggetto, tratto dal libro di uno
scrittore attuale e di successo come Nicolò Ammaniti. Non sembrava nuova la
storia di Lorenzo e Olivia, i due ragazzi che alla stregua dei “sognatori
parigini” si incontrano e si riconoscono attraverso una convivenza esclusiva ed
iniziatica. E non dissimile da altri lavori era anche l’interesse per una
gioventù in via di formazione e di scoperte. Lorenzo ed Olivia sono
infattidue fratelli divisi dal
nuovo matrimonio del padre, sposatoa una donna con la quale Olivia è entrata in competizione ed a cui ha
finito per fare del male. Lorenzo invece è un ragazzo che sfugge a qualsiasi
contatto, immerso in un mondo di storie fantastiche e nei decibel di un ipod
perennemente acceso. Per questa ragioneinvece di andare in montagna decide di rifugiarsi all'insaputa dei
genitori nella cantina della propria abitazione. Sogna di restare solo ma il
destino gli mette davanti quella sorella dimenticata ed in difficoltà. Uno
presenza ingombrante ma decisiva nell'innescare il confronto che finirà per
cambiare le prospettive di entrambi.
A differenza di quanto accaduto nel più recente passato il
nuovo film di Bernardo Bertolucci è un'opera sorprendentemente fresca perché in
grado di liberare il regista dai
fantasmi e dagli orpelli di un cinema che
sembrava continuare a frugare nei magazzini della memoria, specchiandosi nella
bellezza della loro messinscena. Spogliato di ogni eccesso, a cominciare da una
forma divenuta essenziale, con movimenti di macchina ridotti al minimo, e
presenti in maniera significativa, come quando si tratta di annunciare il
rovesciamento esistenziale che di lì a poco si produrrà nella vita di Lorenzo
con una panoramica carpiata, che ritorna su se stessa dopo aver traguardato le
vette del condominio familiare, “Io e te” si concentra sui personaggi e sul
rapporto che tra loro si instaura, lasciando all’alchimia del set, povero,
angusto e scarsamente illuminato, ed alla presenza impalpabile della
telecamera, il compito di produrre il miracolo.
Bertolucci si avvicina a Lorenzo ed Olivia con la
delicatezza che si confàad un
cristallo pregiato. Si muove assieme a loro ma lo fa con discrezione, dando
l’impressione di diventare ora uno, ora l’altro, mentre questi emergono dai
recessi di quello scantinato. Dapprima li nasconde, rivestendoli con una
maschera di autistico rifiuto, alterandone i lineamenti con vestiti larghi ed
ingombranti. Poi in maniera naturale li fa venire a galla con una richiesta
d’amore suggellata da un ballo liberatorio, eseguito sulle note di un David
Bowie (Space oddity) in versione italiana.
Se Bertolucci è da sempre un infallibile pigmalione, capace
di inventare dal nulla le figure umane dei suoi paesaggi,questa volta mette il suo talento a servizio dei
soli personaggi, affrancandoli da metafore ed intellettualismi. Un suo è un afflato
animato da sguardi furtivi, fatto di contatti ruvidi e sgraziati, tipici di chi
teme il confronto con l'altro, e poi sempre più morbidi, come il nodo che si scioglie
quando la paura lascia il posto ad una fiducia infinita. Lavorando sui
contrasti e sulle affinità tanto dei personaggi quanto degli ambienti - la
continuità tra il dentro e fuori è realizzato con inserti brevi ma capaci di
imprimere al fuoriscena un' incombenza realistica-Bertolucci
riesce a portate sullo schermo l'infinito dell'animo umano con i sogni ed i
timori che dentro vi si addensano. Una capacità che amplifica i confini del
visibile, annullando di fatto i limiti fisici e spaziali della storia che
riesce a far dimenticare
il fatto di restare per tutto il tempo in un unico
ambiente. Ed ancora evitando la retorica della riconciliazione grazie ad un
montaggio secco, che uccide sul nascere qualsiasi tentativo di enfasi e di melò
con sequenze concluse mentre il climax è ancora in ascesa oppure lasciando allo
spettatore il compito di immaginare quello che succede, come accade nell'atto
conclusivo, con i due personaggi che si salutano sullo sfondo diun campo lungo che volutamente ci
impedisce di partecipare a quel commiato. Una scelta che ci toglie
definitivamente e senza preannunciarlo lo sguardo di Olivia, restituendola alla
precarietà della sua esistenza e che rende tangibile, con cio che non vediamo,
una fine aperta a mille ipotesi. A rimanere con noi è invece il fermo immagine
di Lorenzo, finalmente sorridente e sereno. Jacopo Olmo Antinori come il Jean
Pierre Leaud dei "400 colpi" è una cartolina d'auguri per il resto
della vita.