Ancora una volta mi sono sorpresa a ripetere con convinzione questa frase, ieri sera, davanti ad una titubante ex compagna di master trasferitasi qui da poco.
E l'ho detto in maniera genuina, perché quando io dico qualcosa in maniera forzata poi avverto subito una fitta allo stomaco, un riflesso condizionato da rimorso di coscienza. E ogni volta che dico questa frase, invece, il mio stomaco se ne sta tranquillo e tutte le corde del mio essere vibrano in armonia.
Sono felice a Bruxelles, anche se mi mancano alcune importanti caselle da sbarrare alla voce "cose che vorrei fare/aver fatto giunta a quest'età". Anche se le lotte intestine continuano, anche se devo ancora fare pace con molte cose, compreso il pezzetto di vita che ho lasciato in freezer in Italia.
Sono felice perché sono giunta alla conclusione che la felicità non si misura in quello che hai - materiale o immateriale - ma nella tua percezione delle probabilità che questo si realizzi.
Come scrissi qualche tempo fa, iniziai ad essere felice quasi istantaneamente, a Bruxelles, perché improvvisamente potevo sperare di realizzare quello che desideravo. Una speranza che Italia avevo chiuso in un cassetto.
E anche se ci sono voluti anni di tentativi e cadute, con il terrore di finire stritolata nella gara dei topi, alla fine non mi ingannavo.
Potremmo dire che la felicità si misura nel grado di ottimismo che si prova in un certo momento. Si può essere ottimisti per natura, ma e meno che non si viva con delle rosee fette di prosciutto sugli occhi, l'ottimismo si deve basare su un minimo di realtà. Un minimo che l'Italia non garantiva.
Sei ottimista, è contagioso, mi ha detto questa persona, all'apparenza per un attimo rassicurata.
Per me, grinch del Natale, nemica delle vacanze e nota cinica con punte di misantropia intollerante, questo è il complimento dell'anno, finora.
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