Io non ho paura di quello che non puoi vedere

Creato il 17 marzo 2013 da Plabo @PaolaBottero

- XVIII GIORNATA DELLA MEMORIA E DELL’IMPEGNO IN RICORDO DELLE VITTIME DELLE MAFIE – LIBERA
A Firenze con i familiari. L’incontro di venerdì, la veglia e la marcia di sabato, il concerto finale

Le idi di marzo. Ho cercato per tutta la giornata le istantanee più significative di questo fine settimana storico, nato in anticipo e ormai sulla via della conclusione. L’eco dell’Angelus di Papa Francesco rimbomba in orecchie aride di preghiere come le mie. «Dio non si stanca mai di perdonare. Mai. Siamo noi che spesso ci stanchiamo di chiedere perdono». Odori di sole e di pioggia che si impastano confondendosi. Le accuse in note di una Mannoia capace di superare se stessa, se possibile. Le lacrime trattenute nel salone dei Cinquecento, che neppure l’arte dei grandi della nostra Italia, a partire da Leonardo e Michelangelo, ha saputo asciugare. La marcia variopinta partita dalla Fortezza del Basso. Colori di bandiere e di disegni che si sono uniti ai colori dei murales intorno allo Stadio Franchi. I nomi. I loro nomi. Ancora. Sussurrati o urlati. Da volti noti e meno noti. In ordine sparso. Per liberarli, per ricordarli. Ancora.

Ciascun momento, intensissimo, porta con sé immagini precise. Multiple. Delineate e delineabili, con il loro odore, il loro sapore amaro che ti si appiccica dentro, che non ti lascia più.

Se dovessi scegliere una, una sola tra le migliaia di istantanee fiorentine che ormai fanno parte di me, sceglierei la croce dipinta dal Maestro di Figline. Il Cristo in croce ingabbiato nelle impalcature sopra l’altare dove è stata celebrata la veglia funebre per le vittime innocenti di tutte le mafie. I loro nomi nel Tempio dell’itale glorie, come Foscolo ha definito la basilica di Santa Croce a Firenze. I loro nomi, uno dopo l’altro, dentro una delle più grandi chiese officiate dai francescani. Grande, grandissima, ma non abbastanza per contenere, nel suo superbo gotico, accanto alle tombe di sommi artisti, letterati e scienziati, il dolore per le vite strappate dalle mafie. Quei nomi. Quel dolore. Freddo come fredda era Firenze, come gelida era Santa Croce. Quei nomi che ti ritornano su come un rigurgito, quando vengono ripetuti ancora il giorno dopo, sotto il sole, prima del concerto.

Vorrei saper raccontare cosa è successo, a Firenze. Vorrei saper restituire le immense emozioni che Libera libera (proprio così) ogni anno. Vorrei saper spiegare com’è stato essere a Firenze il 15 e il 16 marzo, quando la politica ha incoronato nei palazzi i suoi Presidenti, che hanno continuato a guardare a Firenze, a pensare a Firenze, a dire che avrebbero voluto essere, con i loro braccialetti bianchi, accanto a don Ciotti. Quando Fiorella Mannoia ha annunciato la prima fumata bianca a Montecitorio, e al nome di Laura Boldrini, in un silenzio assordante, una donna ha dato voce al pensiero prevalente: “Boldrini? Chi?”.

Ma non ci provo. Perché per capire quello che è successo bisogna esserci stati. Bisogna aver visto quegli occhi dipinti di Gesù Cristo, cancellati dai ferri delle impalcature, mentre, nome dopo nome, ciascun familiare attendeva il suo. Per trattenere le lacrime. Per contenere ancora dentro il proprio dolore. Per trovare nella memoria la forza di andare avanti.

Bisogna aver avuto la certezza che ogni nome ti appartiene. Che ciascuno di loro è tuo figlio, tua figlia, tuo fratello, tua sorella.

Bisogna essere stati nel Salone dei Cinquecento ad assorbire le storie e il dolore di chi ha cercato un senso nell’assassinio dei propri cari raccontando, ancora, la propria via crucis. Condividendo. Bisogna aver sentito, gelida e secca come una lama dentro, la dignità della mamma di Patrizia Scifo, uccisa a diciannove anni a Niscemi, quando ha gridato “diteci almeno dove avete sepolto mia figlia”. «Diteci almeno dove li avete sepolti»ripeterà don Ciotti il giorno dopo dal palco, ricordando altre grida identiche. Quello di Debora per il padre, Lollo Cartisano. Quello di Denise per la mamma, Lea Garofalo.

Bisogna aver camminato accanto a loro, immersi nella storia, i pensieri alla prossima udienza che potrebbe restituire almeno un po’ di giustizia – poca cosa, ma meglio di niente – per raggiungere Santa Croce e unirsi in un abbraccio collettivo, sotto gli occhi abbassati di un Cristo che sembra dire loro “conosco il vostro dolore”. Bisogna aver avuto quella botta nella pancia ad ogni nome. I nomi conosciuti e i nomi che non lo erano, ma adesso lo sono. I nomi, i troppi nomi delle vittime innocenti di mafia. E la pancia che a ogni nome sussulta. E cambia registro. Ormai sai che ti appartengono, quelle vittime, quello che non sai è una botta che non ti aspettavi: “Li hai uccisi anche tu. Li abbiamo uccisi anche noi”.

Bisogna cercare di inseguire la rincorsa alla normalità dei familiari delle vittime, per capire davvero cosa significhi vivere. E morire così. Di mafia.

Al termine della marcia di sabato 16, al termine della lettura dei loro nomi, don Ciotti lo ha ripetuto in modo ossessivo. «Non uccidiamoli una seconda volta». Bisognava essere là, per capirne fino in fondo il significato. Per capire perché don Luigi ha urlato basta alle «parole rituali e generiche», ai «tanti, troppi dibattiti e convegni», troppo spesso «passerelle» e nulla più.

Bisognava esserci quando la voce di Fiorella Mannoia ha dato un senso ai due giorni intensi, sulle note di De Gregori. «La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo. La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso». Bella, fiera. La sua voce che ti entra dentro, ancora più del solito. «E poi ti dicono “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”». Il suo corpo sottolinea le parole. E per la prima volta non sei sopraffatta da domande. Per la prima volta hai, davvero, una risposta. «La storia siamo noi, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere. La storia siamo noi, siamo noi padri e figli». Fiorella Mannoia non è la bravissima cantante che ha risposto alla chiamata di don Ciotti. Fiorella Mannoia è una di loro. È una di noi. È una donna. È un cuore. È un’anima che si dona, che si mette a disposizione. Che ti spiega, soprattutto, la direzione.

Io non ho paura
Di quello che non so capire
Io non ho paura
Di quello che non puoi vedere
Io non ho paura
Di quello che non so spiegare
Di quello che ci cambierà

Bisognava esserci, a Firenze. Per imparare a non aver paura. E per iniziare a chiedere perdono. [sciroccoNEWS]


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