- XVIII GIORNATA DELLA MEMORIA E DELL’IMPEGNO IN RICORDO DELLE VITTIME DELLE MAFIE – LIBERA
A Firenze con i familiari. L’incontro di venerdì, la veglia e la marcia di sabato, il concerto finale
Le idi di marzo. Ho cercato per tutta la giornata le istantanee più significative di questo fine settimana storico, nato in anticipo e ormai sulla via della conclusione. L’eco dell’Angelus di Papa Francesco rimbomba in orecchie aride di preghiere come le mie. «Dio non si stanca mai di perdonare. Mai. Siamo noi che spesso ci stanchiamo di chiedere perdono». Odori di sole e di pioggia che si impastano confondendosi. Le accuse in note di una Mannoia capace di superare se stessa, se possibile. Le lacrime trattenute nel salone dei Cinquecento, che neppure l’arte dei grandi della nostra Italia, a partire da Leonardo e Michelangelo, ha saputo asciugare. La marcia variopinta partita dalla Fortezza del Basso. Colori di bandiere e di disegni che si sono uniti ai colori dei murales intorno allo Stadio Franchi. I nomi. I loro nomi. Ancora. Sussurrati o urlati. Da volti noti e meno noti. In ordine sparso. Per liberarli, per ricordarli. Ancora.
Ciascun momento, intensissimo, porta con sé immagini precise. Multiple. Delineate e delineabili, con il loro odore, il loro sapore amaro che ti si appiccica dentro, che non ti lascia più.
Vorrei saper raccontare cosa è successo, a Firenze. Vorrei saper restituire le immense emozioni che Libera libera (proprio così) ogni anno. Vorrei saper spiegare com’è stato essere a Firenze il 15 e il 16 marzo, quando la politica ha incoronato nei palazzi i suoi Presidenti, che hanno continuato a guardare a Firenze, a pensare a Firenze, a dire che avrebbero voluto essere, con i loro braccialetti bianchi, accanto a don Ciotti. Quando Fiorella Mannoia ha annunciato la prima fumata bianca a Montecitorio, e al nome di Laura Boldrini, in un silenzio assordante, una donna ha dato voce al pensiero prevalente: “Boldrini? Chi?”.
Ma non ci provo. Perché per capire quello che è successo bisogna esserci stati. Bisogna aver visto quegli occhi dipinti di Gesù Cristo, cancellati dai ferri delle impalcature, mentre, nome dopo nome, ciascun familiare attendeva il suo. Per trattenere le lacrime. Per contenere ancora dentro il proprio dolore. Per trovare nella memoria la forza di andare avanti.
Bisogna aver avuto la certezza che ogni nome ti appartiene. Che ciascuno di loro è tuo figlio, tua figlia, tuo fratello, tua sorella.
Bisogna aver camminato accanto a loro, immersi nella storia, i pensieri alla prossima udienza che potrebbe restituire almeno un po’ di giustizia – poca cosa, ma meglio di niente – per raggiungere Santa Croce e unirsi in un abbraccio collettivo, sotto gli occhi abbassati di un Cristo che sembra dire loro “conosco il vostro dolore”. Bisogna aver avuto quella botta nella pancia ad ogni nome. I nomi conosciuti e i nomi che non lo erano, ma adesso lo sono. I nomi, i troppi nomi delle vittime innocenti di mafia. E la pancia che a ogni nome sussulta. E cambia registro. Ormai sai che ti appartengono, quelle vittime, quello che non sai è una botta che non ti aspettavi: “Li hai uccisi anche tu. Li abbiamo uccisi anche noi”.
Bisogna cercare di inseguire la rincorsa alla normalità dei familiari delle vittime, per capire davvero cosa significhi vivere. E morire così. Di mafia.
Al termine della marcia di sabato 16, al termine della lettura dei loro nomi, don Ciotti lo ha ripetuto in modo ossessivo. «Non uccidiamoli una seconda volta». Bisognava essere là, per capirne fino in fondo il significato. Per capire perché don Luigi ha urlato basta alle «parole rituali e generiche», ai «tanti, troppi dibattiti e convegni», troppo spesso «passerelle» e nulla più.
Io non ho paura
Di quello che non so capire
Io non ho paura
Di quello che non puoi vedere
Io non ho paura
Di quello che non so spiegare
Di quello che ci cambierà
Bisognava esserci, a Firenze. Per imparare a non aver paura. E per iniziare a chiedere perdono. [sciroccoNEWS]
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