Squadra che vince non si cambia. Una regola d’oro per il calcio ma, a quanto pare, buona anche per chi scrive. Con questo prequel, De Cataldo, il giudice-scrittore che ha reso celebri i componenti della Banda della Magliana, romanzandoli all’interno di un’opera verosimile, riporta in scena personalità come il Dandi, Bufalo e Scrocchiazzeppi, ma, soprattutto, come il Libanese, il protagonista del libro, che si rivela, ancora una volta, un personaggio costruito senza sbavature: un ragazzo divorato dai demoni del potere che spinge la sua vita verso la concretizzazione del sogno di diventare il re della Roma criminale.
L’ambientazione è quella della Capitale degli anni ‘70. Pietro Proietti, in “arte” Libanese, è in prigione per una questione di armi. Ha solo 25 anni e vuole coronare il sogno di vivere senza padroni. Ha un motto: «mai servo di nessuno, ma solo e sempre padrone di se stesso». In galera, difende il nipote di un malvivente e s’ingrazia così un camorrista, Pasquale ‘o Miracolo. Pietro è sveglio e il boss della camorra lo prende in simpatia, offrendogli anche l’opportunità di entrare in affari con lui per un traffico di droga. Per farne parte, però, servono soldi: trecento milioni. Una cifra esorbitante per un ragazzo cresciuto in strada come il Libanese, che, però, non si dà per vinto. Una volta fuori, infatti, organizza piccoli colpi con i suoi compari e amici di sempre. Conosce anche una ragazza, Giada. Lei, però, è diversa; fa parte di un’altra Roma e frequenta gente di un ceto sociale più elevato, esce con ragazzi per bene, vive la vita come una persona comune. Si droga, ma solo un po’, e sempre senza esagerare. Ha ideali di sinistra e mira alla “rivoluzione”. Questo al Libanese non sta bene. Lui non condivide l’ideologia comunista dell’epoca. Anzi, ha un busto di Mussolini che deve nascondere prima che Giada lo vada a trovare a casa sua. Non vuole ferirla, anche perché a lei tiene molto. Nel frattempo, deve trovare i soldi per entrare nel traffico di droga e l’impresa non si rivela facile. Così, decide di organizzare un sequestro di persona.
De Cataldo sfrutta dei personaggi già ben costruiti e un’ambientazione, quella della Roma degli anni ‘70, che ha riscontrato un notevole successo, a partire dal film di Michele Placido, per terminare con la serie TV diretta da Sergio Sollima.
Io sono il Libanese è certamente meno avvincente del libro uscito quasi dieci anni fa, ma ha sempre lo stesso appeal, soprattutto per chi ama il genere noir, dove il punto di vista è spesso quello criminale. Quello di Io sono il Libanese, poi, è un De Cataldo più maturo e ironico, che gioca con la consapevolezza del lettore di una storia già narrata. Tuttavia, non cade mai nel banale; anzi, la trama è molto ben articolata e le parole utilizzate non rivelano mai cosa effettivamente stia per accadere.
La storia ha una vita a sé: ha un inizio ed una fine ben studiate, che reggono bene senza alcun richiamo al romanzo precedente. Nondimeno, chi ha avuto modo di leggere il libro, vedere il film o seguire la serie TV, si aspetta da un momento all’altro l’arrivo anche degli altri protagonisti. Cosa che non avviene, soprattutto perché questa è la storia del Libanese, come sottolinea anche il titolo, e non della Banda.
Edito da Einaudi, è scritto con un linguaggio semplice, asciutto e infarcito di termini romani, ed ha una struttura narrativa snella e priva di fronzoli letterari.
Io sono il Libanese è un romanzo di “solitudine criminale”. Così l’ha definito qualcuno. Ed ha ragione. Perché il protagonista si trova a combattere contro la spietatezza della vita di strada e De Cataldo è riuscito a far trasparire questo concetto in maniera impeccabile.
Una frase contenuta nel primo capitolo racchiude lo stile e il senso di tutto il romanzo: «Lui ci sapeva fare, e a mani nude e col coltello. Aveva imparato da bambino, da una maestra che non perdona: la strada. Là dove ti guardano e capiscono subito se sei pecora o leone. Se il tuo destino è crescere, o morire».