Con il procedere del racconto questa eleganza, incarnata perfettamente dalla eterea e brava interprete Tilda Swinton diviene, col procedere della vicenda, eccessivamente formale e studiata, tant'è che la frattura interposta dal popolare Antonio (Edoardo Gabriellini) all'apparente rigidità sociale della famiglia ivi rappresentata diviene elemento che, per quanto non eccessivamente forzato e gridato, almeno agli inizi, rappresenta col tempo un elemento che di per sé sarebbe stato sufficiente a rompere un presunto equilibrio, che Guadagnino insinua attraverso anche altri elementi, che non sempre trovano un'adeguata rappresentazione, rischiando di accumulare troppi fattori.
Per quanto riguarda il suddetto Gabriellini, il fatto di voler passare per ligure con quell'indelebile accento toscano e una recitazione sempre uguale a se stessa, dimostra come egli sia uno di quei caratteristi destinati ad essere relegati a ruoli di macchietta, che altrove non possono essere inseriti o concepiti come in questo caso.
Dramma raggelante, che evoca inevitabilmente echi viscontiani e anche antonioniani per certi versi, con spunti fassbinderiani, come scritto da alcuni critici per le tensioni affettive e omosessuali che si avvertono sottotraccia, ma che se da una parte costituiscono un pregevole tentativo di allontanarsi da una rappresentazione urlata e stereotipata della famiglia italiana, come il cinema degli ultimi anni ci ha dimostrato, dall'altra rischia una freddezza fine a se stessa, in cui la forma perde di sostanza, rischiando una decalcomania tale da rischiare la noia o il ridicolo nel suo volgere verso un finale inevitabilmente drammatico e necessario.