La cosiddetta “letteratura spirituale”, in quanto nasce prevalentemente da trascrizioni di dialoghi e discorsi di maestri, ha il suo fascino proprio in questo: nell’assenza di un autore che programmi la stesura di un libro. Asistematici e disorganici, questi testi sono tuttavia perfetti nella loro composizione.
«Ho ingoiato il mondo e l’ho dimenticato».
Frasi così vivaci e così d’impatto, poi, contraddistinguono Nisargadatta da altri autori, pur di assoluto rilievo e spessore come Osho o Krishamurti, solo per citarne un paio fra quelli più tradotti. Ma a colpire è soprattutto l’insegnamento di un uomo semplice, un tabaccaio di Bombay di nome Maruti, che incontrò per caso un guru all’età di 33 anni e che, con altrettanta semplicità, si fidò delle parole di questi, il quale, riprendendo una massima dell’Advaita Vedanta relativa al Brahman o coscienza impersonale, gli disse «Tu non sei il tuo corpo o i tuoi pensieri. Tu non sei niente di tutto questo. Tu sei quello». E Maruti, concentrandosi con molta serietà sul pensiero ‘io sono’, scoprì effettivamente di poter far cadere, come foglie secche, tutte quelle determinazioni impermanenti con le quali l’io normalmente si identifica.
«Prendi il pensiero ‘io sono’ e usalo come lo straccio per togliere la polvere dallo specchio».
Dunque, cosa ha insegnato a me questa lettura: innanzitutto a diffidare da tanti autori spirituali che, pur in buona fede, si fanno portavoce di un messaggio che è in verità un mezzo equivoco. La questione, in breve, è la seguente: solitamente, nei suoi libri e nelle sue conferenze, lo yogi di turno mette in guardia il profano dal porre un oggetto o ideale al centro dei suoi desideri e far dipendere la sua vita da questo ideale. Sia esso il danaro o l’amicizia, l’arte o l’amore, infatti, questo è destinato un giorno a svanire. Il discorso – sin qui condivisibile – tende a far notare come l’infelicità stia nel raggiungere un traguardo, e quindi mirare a diventare qualcosa che non si è, oppure ad avere qualcosa che non si ha. Ragion per cui, chi ambisce alla fama e al successo e, attraverso vari sacrifici riuscisse anche a ottenerlo, si accorgerà, una volta arrivato al traguardo, di non sentirsi realmente completo e appagato.
Il problema sorge, però, laddove lo yogi invita il profano e praticare a sua volta lo yoga, così da non perdersi nelle diramazioni che conducono a un desiderio effimero e a una beatitudine illusoria, ma a perseguire l’illuminazione. Ed ecco l’equivoco: ha davvero senso sostituire a uno di quei soliti traguardi uno più insolito, ma comunque effimero? Ovvero: una illuminazione raggiunta solo attraverso la pratica meditativa può considerarsi una vera illuminazione? O non è, piuttosto, soltanto una esperienza mistica che, così come è arrivata, è destinata a scomparire?
«Non concentrarti sul sole, ma sulla nube che lo copre».
Le parole di Nisargadatta (il nome che prese Maruti e che sta per “Presenza Innata”) mi hanno invece istillato degli interrogativi: a che serve darsi un obiettivo – un punto di arrivo, un punto B, se vogliamo – e sforzarsi di diventare ciò che non si era in partenza, o di ottenere qualcosa che non si aveva quando ci si trovava nel punto A? Il punto B non è forse un nuovo punto A? Non siamo forse di nuovo punto e accapo?
Non a caso, soleva domandare Nisargadatta a chi lo interpellava: «A che ti servono tutte le tue esperienze? A cosa ti serve la tua memoria?». Occorre allora prescindere dal tempo, e dallo spazio, e ingoiare, appunto, il mondo con tutti i suoi miraggi.
Un insegnamento che sia un vero insegnamento spirituale, aggiungo, non dovrebbe mai far sentire il discepolo da meno rispetto al maestro; così come questi, se la Verità risiede in ciascuno, non deve diventare oggetto di emulazione. E non a caso l’interlocutore di Nisargadatta viene qualificato, in questo libro straordinario ma anche molto provocatorio, non come un discente ma più semplicemente come “Visitatore”.
Andrea Corona
Sri Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Astrolabio-Ubadini, Roma 2001, 424 pp., 25 euro
*Riassunto/descrizione del testo:
Io sono quello è la più famosa testimonianza dell’insegnamento del maestro indiano Sri Nisargadatta Maharaj.