Io speriamo che me lo pubblicano

Creato il 18 novembre 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Tutto il mondo ci guarda. Eh certo, direte voi, un popolo, un governo, le istituzioni democratiche tenute sotto scacco da un condannato sessuomane e paranoico….

Macché, è che siamo l’unico paese che realizza un talent show letterario. A dirlo è uno dei tre “giudici”, in virtù dell’essere “afropolitana” per sua definizione e anche, perché no? globalist, e se lo dice lei che gira il mondo non solo dei libri.

Ah si perché non vi ho detto che il format del talent show andato in onda proprio ieri in una pudica tarda sera, a conferma che si tratta di un programma a alto valore aggiunto culturale proprio come Marzullo,  è lo stesso di Masterchef. Tre cuochi, pardon, tre scrittori giudicano aspiranti scrittori che concorrono con il loro manoscritto e con un inventario di disgrazie e tormenti, come da tradizione, per selezionare il vincitore, il cui libro sarà pubblicato in 100 mila copie da Bompiani.

E sono loro, i giudici, proprio come in Masterchef, a farla da protagonisti. Si sono divisi i ruoli, in una ferrea sceneggiatura: De Carlo (l’ho evitato, dopo aver scorso tre o quattro pagine del suo romanzi d’esordio, per una volta soddisfatta di aver perso un treno) è il poliziotto cattivo, ghignante e sarcastico che sputa vetriolo. Nemmeno di lei dell’afropolitana glamour, che pare uscita da sexe and the city,ho letto l’unico romanzo, “un’esplorazione estatica della vita interiore dei suoi membri, scritto  con  la sua prosa acuminata e una tecnica impeccabile”, come recita la sua casa editrice che, maliziosamente, attribuisce il suo successo presso autorità riconosciute nel Gotha letterario “forse anche alla sua bellezza”. Bella, ma non spietata,  la sua parte in recita è quella dello sguardo umano, dell’approccio psicologico, anzi a ben vedere quello della diagnostica medica,se i postulanti esibiscono una densa tipologia di disturmi dell’anima e del comportamento. A De Cataldo, giudice di nome e di fatto, spetta  il ruolo   pedagogico e, a differenza di altri pittoreschi magistrati, di custode della proprietà linguistica e di tutore dell’egemonia della “trama”.

Condotti, dopo lo loro “confessione” effettuata tirando giù la zip e esibendo insuccessi e malesseri, fallimenti e patologie, in contesti edificanti e penitenziali o immersi in gustose situazioni nazional popolari, i candidati tornano in classe e si cimentano in un tema, dal cui svolgimento dipende la loro ammissione alla severa selezione.

A differenza che in Masterchef, il pubblico è condannato ad assaggiare i prodotti dei candidati. Ed è allora che chiunque abbia avuto il merito nel corso di un trasloco, di buttare senza ripensamenti le poesie scritte a quindici anni, chiunque sia fiero di  vergognarsi di rileggere il Moleskine nel quale ha buttato giù in età giovanile l’impianto del suo romanzi d’esordio, sentendosi Salinger, è allora che come davanto alla Corrida dei dilettanti allo sbaraglio, prova  un tremendo imbarazzo per l’esibizione sfrontata di viscere, e spegne il televisore come ho fatto io.

Ne avevo già scritto di Masterpiece, qui https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2013/08/19/grande-fratello-libro/. E ne ho la conferma: c’è qualcosa di molto crudele e perverso nel dare spago alle velleità di chi in un mondo nel quale ormai l’unica uguaglianza è quella della povertà, della perdita di diritti e certezze, della solitudine, pensa di appartenere a un’aristocrazia del sentire, agli alti gradi di una gerarchia delle emozioni, o ritiene di essere “diverso”, apocalittico, in sostanza superiore, grazie alla sofferenza, al dolore, allo spaesamento, al sentirsi fuori posto, sentimenti legittimi per carità, ma che nulla hanno a che fare con la creatività o l’arte.

Che se poi la terapia, la “cura” per affrancarsi dalla malinconia, dalla depressione, dall’isolamento, dalla trasgressione è la scrittura, ben venga, ma forse potrebbe limitarsi a un rito solitario,  senza aspirare a riempire gli scaffali degli invenduti delle librerie, senza volerlo ammannire a tutti i costi sulle nostre tavole su un letto di crescione come i piatti delle star della cucina. Perché invece in un Paese dove informazione, tv  e editoria sono accentrate nelle mani di chi ne ha fatto mediocri prodotti di consumo, le stesse di chi ha lavorato per immiserire conoscenza, cultura, bellezza, arte in modo da alienarle, appropriarsene e rivenderle, è inevitabile che anche le aspirazioni più domestiche e ingenue, le velleità più innocenti vengano  costrette alle regole del marketing, riducendo sogni, speranze, propositi a un brand commerciabile nella peggior televisione, quella che detta i suoi modi alla realtà: giustizia a Forum, sanità a Greys Anatomy, democrazia a Ballarò, le relazioni sentimentali al Grande Fratello, il futuro nei “pacchi” e adesso la narrativa a Masterpiece.


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