Prima cabarettista, poi showman e infine cantautore. Da dieci anni, Giorgio Faletti pubblica bestseller tradotti in tutto il mondo.
«L’uomo è uno e nessuno».
Questo è l’inizio, la frase improvvisa, il colpo d’occhio incuriosito che ce lo ha fatto conoscere nella sua ultima veste, quella di scrittore.
Nome: Giorgio. Cognome: Faletti.
Uno e nessuno.
È questo l’incipit, dal sapore vagamente pirandelliano, del suo primo romanzo, Io uccido. Libro che ci ha lasciati tutti un po’ perplessi, non tanto per la mole considerevole o per la copertina splatter, quanto per il nome dell’autore, dal colore spocchiosamente dorato, che campeggiava sulla sommità della copertina.
Nato ad Asti nel 1950, laureato in Giurisprudenza, negli anni ’80 avevamo imparato a conoscerlo come cabarettista di successo, battutista esasperato e interprete di personaggi irriverenti. Avevamo imparato a conoscerlo, forse leggermente increduli, come cantautore e interprete di Signor tenente, canzone seconda classificata al Festival di Sanremo del 1994.
Ma Faletti è uno e nessuno. E dopo il cabarettista, il cantautore e l’attore, arriva lo scrittore.
E questo scrittore getta un ponte, costruisce una via percorribile là dove prima c’era uno spartiacque: Io uccido mutua gli stilemi del thriller d’oltreoceano, li innesta su uno sfondo suggestivo come quello del Principato di Monaco e dipana la fitta trama attraverso un linguaggio scorrevole, a tratti addirittura poetico. Un linguaggio ammaliante del quale, uno come Faletti, sinceramente non lo ritenevamo capace. Ecco che le quattro milioni di copie vendute, solo in Italia, trovano una giustificazione.
E anche stavolta, come la prima, siamo d’accordo con lui. L’attesa è durata due anni e ha avuto il colore impalpabile dell’oscurità. Ma ne è valsa la pena. Perché Faletti, uno e nessuno, ci ha appassionati di nuovo. Forse non come la prima volta, ma ce lo aspettavamo: già il fatto d’essersi mantenuto a livelli non eccessivamente inferiori rispetto all’exploit d’esordio è una buona conquista.
Accanto alle celebrazioni, però, cominciano a fioccare le prime critiche. Per molti, Faletti non è un autore “genuino”, uno che scrive di quello che sa, che semina la farina del proprio sacco. Per molti, è uno scrittore che “scimmiotta”, un autore furbo e scaltro che imita i grandi maestri americani.
Giorgio Faletti scrive bene, c’è poco da dire. Ha una proprietà di linguaggio e una capacità di tessere trame che lo hanno fatto passare da esordiente impacciato a professionista del mestiere in pochi anni. La sua prosa è poetica, elegante, i personaggi caratterizzati in maniera originale e puntuale. Forse, però, col tempo emergono quelli che sono i suoi difetti di fondo: una scrittura che può risultare ridondante, la voglia di strafare, alcune vicende tirate per i capelli.
E forse qui e per questo, s’inserisce l’ultima scelta, il colpo di coda che pochi hanno capito, pochi hanno compreso. Tre atti, due tempi (2011), ultimo libro di Giorgio. Non è un thriller e l’editore non è Baldini&Castoldi, ma Einaudi. Stavolta a reggere le fila della storia è una vicenda di provincia, una storia drammatica sulla corruzione nel calcio e sul conflitto tra genitori e figli. Un romanzo mainstream che poco o nulla sembra avere in comune con i libri precedenti. Come spesso accade, però, la critica e il pubblico si sono divisi. Alcuni hanno apprezzato il tentativo, la sortita letteraria che sa tanto di rifiuto a farsi etichettare; dall’altro, molti hanno urlato per pubblici proclami la nostalgia per il Faletti vecchio stile, per i gialli pomposi ambientati nelle megalopoli statunitensi e per le trame calibrate e sherlockiane.
Quale sia il futuro di Faletti non possiamo saperlo. Forse nemmeno lui lo sa. E i suoi libri, così avvincenti e così venduti, dividono lettori e critica con una separazione quasi manichea. Ma una cosa possiamo dirla. Faletti non lascia indifferenti. Non può lasciare indifferenti, perché i suoi libri hanno raggiunto vette da capogiro. Nessun italiano, prima di lui, ha mai nemmeno sognato di toccare cifre del genere con romanzi gialli. E se è vero che la quantità non sempre si accoppia alla qualità, è pur vero che al cospetto di un fenomeno popolare di tale portata occorrerebbe chiedersi il perché di un tale successo. Perché era già famoso, dicono alcuni. Perché i suoi libri sono capolavori, sostengono altri. Forse hanno ragione entrambi e nessuno.
O forse, cosa probabile, l’unico ad avere ragione è ancora lui, Giorgio Faletti. Un nome che incute rispetto per la persona, ancor prima che per lo scrittore. Perché quella di scrittore, oltre che una passione, è anche una maschera. È il viso plastificato di Guy Fuwkes che copre le fattezze del protagonista di V per Vendetta e attraverso la quale la sua voce roca ci ricorda che dietro la maschera, come dietro la scrittura e lo scrittore, non c’è solo carne, ma c’è un’idea. Soprattutto, c’è un sogno. Quello di realizzare le proprie ambizioni, di essere in pace con se stessi, di essere felici. In poche parole, il sogno di un uomo nato per vincere.
Diego Di Dio