Lisa Agosti, 36 anni, di Reggio Emilia, è laureata in Psicologia Clinica dell'infanzia all'Università di Parma. Blogger e scrittrice, è una giramondo. Soprattutto è la protagonista della sesta puntata di Si viene e si va. Non sarà un'intervista come le altre, ma un racconto delle sue avventure, che vi consiglio di leggere tutto d'un fiato.
I primi passi all'estero: Londra.Un biglietto Ryanair di sola andata da 15 Euro e una valigia da 15 Kg. Nessuna esitazione: il mio corso di studi era terminato dopo i cinque anni canonici e a quel punto prevedeva un ulteriore anno di tirocinio. Avevo chiesto ad un mio professore di mettermi in contatto con una struttura estera per poter svolgere parte del mio tirocinio fuori dall'Italia. Londra era sempre stata la mia meta preferita per le vacanze studio estive, con la scusa di imparare l'inglese ma soprattutto per i concerti di musica grunge. Quando il mio professore mi mise in contatto con un ospedale universitario londinese dove avrei potuto svolgere il tirocinio, quel biglietto e quella valigia mi condussero oltre Manica. Non conoscevo nessuno, non sapevo nulla di ricerca sperimentale, non avevo idea di cosa mi sarei occupata. Il mio primo giorno di lavoro mi misero in mano un plico di domande e una lista di nomi, e mi mandarono a fare da assistente agli esami degli studenti di Medicina del quarto anno. Ognuno di loro aveva preparato una tesina sul comportamento derivante dalla dipendenza da sostanze (droghe e farmaci) e, uno dopo l'altro, si sedettero davanti a me e al resto della commissione per sostenere l'esame, con le mani sudate e il volto pallido che io avevo avuto fino al giorno prima, quando mi ero trovata al loro posto. Diedi a tutti il massimo dei voti.
Per sei mesi mi occupai di varie ricerche sui comportamenti di dipendenza da sostanze. In quel periodo avevo una personalità doppia alla Dottor Jekyll e Miss Punk-Hyde: di giorno mi capitava di prendere l'aereo con destinazioni varie, armata di tacchi e trucco, per parlare al microfono davanti a dottori della Comunità Europea. Partecipavo alla pubblicazione dei risultati dei miei studi su riviste scientifiche di respiro europeo. La sera, andavo coi jeans strappati e i capelli rosa ad ascoltare i gruppi rock al Borderline. Eppure non era stato facile ambientarsi a Londra: in particolare i primi tre mesi erano stati durissimi, perché non avevo amici e i miei colleghi, tutti più grandi di me, non avevano tempo né voglia di farmi compagnia. Tuttavia l'esperienza fu temprante: vivevo nei dormitori dell'ospedale insieme ad un' infermiera pediatrica la cui isteria, di cui fui spesso vittima, le fece perdere il lavoro. La sterlina inglese ai tempi era fortissima e facevo la spesa con i coupon per risparmiare qualche centesimo. Nonostante le difficoltà, quando finì il mio tirocinio decisi di lavorare per altri sei mesi, per finire le ricerche di cui mi stavo occupando, benchè il mio lavoro non fosse retribuito. Lavoravo con i tossicodipendenti e adoravo ascoltare le loro storie di vita, così intense e così assurde. Un giorno finii per sbaglio a casa di un cliente. Dovevo intervistarlo per una ricerca sulle droghe pesanti: cominciò a fumare eroina in salotto, dicendo che se non avesse fumato sarebbe potuto diventare pericoloso, mentre sua figlia giocava sulle scale con un'invitante bottiglia verde, piena di metadone.
L'università inglese mi offrì di fermarmi per fare il dottorato, ma rifiutai per perseguire una carriera clinica. Era il 2005: non fu facile trovare lavoro, ma alla fine fui assunta da un'agenzia governativa per la prevenzione e la cura delle dipendenze, che mi permise anche di proseguire gli studi, pagandomi la specializzazione in Doppia Diagnosi alla Middlesex University e il training in agopuntura auricolare. Quest'ultima aiuta a superare i sintomi d'astinenza da sostanze, mentre la Doppia Diagnosi si riferisce alla simultanea occorrenza, in un paziente, di malattia mentale e dipendenza da sostanze. Per due anni lavorai per le strade di Camden e Islington, assicurando cibo, alloggio e cure mediche ai senzatetto, o offrendo assistenza psicologica a chi volesse uscire dalla dipendenza. Avevo un allarme sempre con me, ma non l'ho mai usato. Ho visto con i miei occhi esperienze terribili, come quella di F., uno dei miei pazienti più assidui: quarantenne, italiano, viveva per strada e si iniettava eroina da così tanti anni che le sue vene erano ostruite e l'unico modo per drogarsi era rimasto quello di perforarsi i bulbi oculari, il collo, o la gamba destra, che stava andando in putrefazione. Un giorno finì in ospedale: una trasfusione di sangue lo salvò a pochi minuti dalla morte. La gamba fu amputata. I giorni seguenti furono molto allegri per F., chiacchierava amabilmente dal suo letto d'ospedale e parlava di un futuro per sé, magari in Italia, a casa di sua madre. Accanto al letto era stato sistemato un dispensatore di morfina, che permetteva a F. di schiacciare un bottone e ricevere l'antidolorifico, ma non più di una volta ogni cinque minuti. Era impressionante vedere come F. fosse in grado di parlare e interagire ma allo scoccare dei cinque minuti esatti non mancasse mai di schiacciare il bottone, senza aver bisogno di controllare l'orologio. Il tossico per eccellenza, insomma. Mesi dopo, F. stava bene e la terapia col metadone lo copriva, permettendogli di non usare eroina. Era pulito, felice e positivo. Una sera finì in una rissa, ma non volle dire perché. Poi cominciò a passare le giornate parlando coi piccioni per strada, e mentre lo faceva era consapevole di quel che stava accadendo. Si ricordò che le droghe erano l'unico modo di essere normale, quando era un ragazzino spaventato che soffriva, senza saperlo, di allucinazioni schizofreniche. Inutile dirvi che F. cominciò a iniettarsi l'altra gamba.
Nel 2007, arrivò il momento del cambiamento: sentivo addosso a me il grigio dello stress e dello smog di Londra. Decisi allora di partire come volontaria in direzione Brasile, all'interno di una favela: qui ho imparato che la vita vale tutto e niente. La vita della metropoli mi aveva privato della fiducia nel buon cuore della gente, ma i brasiliani erano riusciti ad "aprirmi con lo schiaccianoci". La musica e i colori di quel paese cozzano terribilmente con la realtà di fame e morte quotidiana. Furono tre mesi di stenti, ma non dimenticherò mai la famiglia che mi ha ospitato e che ancora sento regolarmente, oltre al fervore religioso e alla passione per la danza, tipici di quel paese. Sono tornata a casa con la coda tra le gambe: l'Italia sembrava un Eden, provavo un amore sviscerato per l'elettricità, l'acqua corrente e i manicaretti di mia madre. Purtroppo però presto scoprii, con sgomento, che ero "troppo specializzata" per essere assunta come psicologa in qualsiasi struttura e, per via del mio carattere molto socievole e parecchio ansioso, non sono mai stata attratta dall'idea di avere uno studio privato. Mi sono così dovuta reinventare, diventando educatrice di bambini diversamente abili, assunta da una Cooperativa di Reggio Emilia. Il mondo della scuola è un grande calderone di possibilità, frustrazioni e lenti progressi; se a questo calderone associamo la disabilità, si va incontro ad un magma di speranze inconfessabili, dolori privati e piccoli miracoli quotidiani. L'incontro con l'autismo, tramite un bambino a cui ho voluto e vorrò sempre un bene unico, mi teneva sveglia la notte e sui libri di giorno, sfociando nell'ideazione di un training alle abilità sociali per bambini diversamente abili, da svolgere con i compagni di classe, che ho condotto personalmente e poi passato in consegna ad altri professionisti del settore.
Il richiamo della giungla: il pellegrinaggio riparte.Nel 2010, il richiamo della giungla non tardò a riportarmi per strada, con lo zaino in spalla e un visto per l'Australia. Sono stati anni di pellegrinaggio tra Oceania, Sud Est Asiatico e America Centrale. Ho fatto qualunque tipo di lavoro: la cameriera, la receptionist, la venditrice, la babysitter. In Honduras lavoravo in un ristorante sulla spiaggia, a piedi scalzi, e prendevo 20 lempiras all'ora, equivalenti a circa un dollaro americano. Un giorno venne a pranzo un signore texano, altissimo, con la pancia rotonda e il classico cappello da rodeo, che mi diede una mancia più alta del mio intero stipendio mensile e mi portò a mangiare l'aragosta. Vita da Cenerentola! In Messico camminavo lungo la riva del mare per venti minuti ogni giorno, andando e tornando dal lavoro, e ripensavo alla metropolitana londinese. Fu proprio in quel periodo che capii di aver fatto la scelta giusta, forse non per assicurare la mia vita futura e la mia pensione: era però la scelta giusta per me. Smisi di preoccuparmi del domani, perché tanto la vita è quello che capita mentre si è occupati a fare progetti. Smisi di preoccuparmi del giudizio degli altri, degli anni che passavano senza che io avessi un fidanzato o un figlio, e cominciai a godermi la vita. Gli anni di pellegrinaggio sono associati nella mia mente alle parole Vita, Libertà e Gioia pura. Ho iniziato ad amare in un modo diverso, la Natura era più verde, le persone erano più vere, io stessa sono diventata più bella, attraente, mi sono trasformata nella vera Me. C'era in me una sorta di calamita, qualcuno disse "Tu, Lisa, puzzi di Libertà", ero una fonte d'energia bianca a cui le persone attingevano per ricaricarsi. E io ne ricavavo storie di vita, segreti mai confessati prima, sogni sussurrati a lume di luna. Sono gli anni in cui mi sono innamorata della vita subacquea, i pesci che mi hanno sempre fatto ribrezzo sono diventati i miei migliori amici. Adoro il rumore del silenzio oceanico, rotto solo dal mio respiratore che lentamente rilascia l'ossigeno che mi tiene in vita. Le ansie e le preoccupazioni rimangono in superficie, sott'acqua c'è solo Bellezza e Pace. E Amore. Infatti sott'acqua ho conosciuto il mio attuale compagno, un buffo personaggio che non conosce la parola No e per il quale sono finita in Canada, una volta, poi due, e ora siamo a dieci o undici.
Il pellegrinaggio si ferma... o forse no.Ahimè, nel 2012, per motivi di salute dovetti arrestare il mio peregrinare in giro per il mondo e quindi, come detto prima, mi stabilii in Canada, a Vancouver. I costanti cambiamenti di clima, dieta e acqua più o meno potabile avevano debilitato il mio sistema digestivo costringendomi a una vita morigerata e stanziale. Almeno per il momento: il richiamo della giungla si fa sentire spesso, ci sono giorni in cui sento il peso di tutte le vite che non sto vivendo. Per fortuna ho la passione della scrittura, che mi permette di intraprendere un altro tipo di viaggio, seppur stando comodamente seduta in poltrona, mentre bevo la mia tisana al finocchio. Stefano mi ha chiesto se Vancouver si possa considerare la chiusura del cerchio: la mia risposta è no. Considero il Canada solo una tappa, in realtà spero di non chiudere mai il cerchio. Al contrario di molte persone, che trovano la felicità nel considerarsi sistemate, la mia linfa vitale è la novità, l'ignoto. Quando scelgo un nuovo Paese da visitare, cerco posti di cui non so quasi nulla e in cui non conosco nessuno. Non ho fretta di arrivare né di tornare. I momenti indimenticabili della mia vita sono quelli in cui ho pensato "se muoio, ora, va bene così". Il cerchio si chiuderà solo se riuscirò a morire senza tanti rimpianti. Ogni posto mi ha lasciato qualcosa, direi che mi ha arricchito: Cuba, per la sua unicità; le Fiji per la gente del luogo, che non a caso ha vinto il premio come popolo più amichevole della Terra. È proprio qui che ho fatto la mia prima immersione, ho deciso di prendere il brevetto da subacquea e per il mio compleanno mi è stato concesso di esplorare un nuovo fondale, che si è rivelato pieno di squali. Avendolo scoperto io, ho potuto sceglierne il nome, per cui se andate alle Fiji potete immergervi al "Lisa's fin"! E poi la Nuova Zelanda per i suoi paesaggi incontaminati, molto più belli dal vivo che non nelle immagini di film come Il Signore degli Anelli o l'Indonesia, per le balinesi nei giorni di festa. E l'Italia? L'Italia mi manca, certo: per fortuna ho mantenuto forti e salde le mie amicizie, cercando di esserci sempre, anche se non fisicamente. Se e quando tornerò non lo so, non programmo mai il domani, perché ho imparato che il domani non esiste. Mi manca l'Italia così come mi manca ogni altro paese in cui ho vissuto. Quando si viaggia, si lascia un pezzo di cuore in ogni posto, ma al contempo non si sta bene fissi in nessun posto. Come dice Alda Merini, "mi sento irrequieta quando mi legano allo spazio". E l'Italia mi manca anche in un altro modo, unico e speciale. Mi manca chiacchierare con le amiche, orientarmi facilmente per le strade, andare nei miei negozi preferiti dove so già cosa mi aspetta. Mi manca la semplicità e la bontà delle cose e della gente. Per fortuna anche i canadesi sono persone buone e semplici, ma per quanto mi piaccia vivere in mezzo alla natura, mi manca la storia, l'arte e l'amore per la bellezza, che invece ritrovo in Italia.
Insegnamenti e consigliDal mio girovagare per il mondo, ho imparato tantissimo ed è anche il messaggio che vorrei trasparisse dai miei scritti, in particolare dal romanzo che sto scrivendo. Non è autobiografico, ma penso che dalle sue pagine traspaia tutto il mio bagaglio di esperienze interoceaniche. Moltissime persone che incontro per la prima volta mi dicono: "Quanto vorrei fare quello che hai fatto tu, partire, mollare tutto, viaggiare senza meta". A tale affermazione, la mia domanda sarebbe: "E chi te lo vieta?". Tutto ciò che serve è un passaporto e un biglietto. Il resto non conta. Non conta quanti soldi si hanno in banca, non conta se sia la stagione adatta, non conta se si ha il matrimonio del cugino tra due mesi e proprio non si può mancare. Chi ci ama capirà, chi non capisce se ne farà una ragione. Se si è insoddisfatti di quello che si sta facendo, se non ci si sente nel posto giusto, se non si è sicuri di aver davvero trovato l'anima gemella, c'è solo una cosa da fare: mettere un paio di mutande nello zaino, assicurarsi di essere vaccinati e di non arrivare in un posto sconosciuto da soli di notte e varcare l'uscio. Da lì, è tutto in discesa. Quando si è in viaggio non conta un cazzo se si hanno le scarpe, o la crema solare, o il bikini firmato. Le cose si comprano, i libri si scambiano, i viaggiatori si aiutano a vicenda. Certo, con una carta di credito si viaggia meglio, per emergenze e per tranquillità, specialmente le donne travelling solo. Ci sono forum appositi per backpackers, ci sono mille siti su cui ci si può informare, ostelli a cui rivolgersi, amici da incontrare. Il consiglio che posso dare è di non ascoltare i discorsi sui pericoli dei Paesi del Terzo Mondo: io non ho mai avuto così paura come una notte in stazione a Milano. Ho visto morti ammazzati, certo, ho sentito storie di poliziotti corrotti e turisti rapinati. Si può essere derubati, rapiti e stuprati, ma questo vale ovunque, basta usare il buon senso. L'Italia non è meno pericolosa del Guatemala, basta guardare il telegiornale. Per quanto riguarda i soldi, io ho sempre avuto mille e cinquecento euro in banca, non un euro di più, non uno di meno. Abbastanza per tornare a casa da qualsiasi punto della Terra, ma anche abbastanza per darmi una mossa a trovare lavoro. È fondamentale trovare la forza interiore per affrontare tutto: un giorno trovai una ragazza pakistana sulle scale dei dormitori, piangeva seduta tra le sue valigie. La aiutai a traslocare e diventammo subito amiche. Nadia non era mai stata fuori da Peshawar, non sapeva cosa fosse un bancomat e fino al giorno prima, se aveva voglia di bere un tè, chiamava la serva col campanello. Il giorno dopo cominciò la sua carriera di medico, che ancor oggi procede a gonfie vele. È la voglia di cambiamento che può far girare la ruota nel senso che vogliamo noi.
Per chi volesse approfondire l'argomento scrittura o per chi volesse leggere i racconti di Lisa, qui l'indirizzo del suo blog www.deagostibus.it.