Ipazia o della memoria delle donne II

Creato il 24 aprile 2011 da Viadellebelledonne

“Piaccia a Dio che io cessi di vivere o di ricordare la perdita dei miei figli! Abbi cura di te e saluta da parte  mia i tuoi felici compagni, il venerabile Teocteno, innanzitutto, e il mio caro Atanasio, poi, tutti gli altri. Se il loro numero si è accresciuto di qualche nuovo venuto, che merita il tuo affetto, io devo essergli grato di meritarlo: è mio amico; riceva anche lui i miei saluti. Mi porti ancora qualche interesse? Te ne sono riconoscente, mi hai dimenticato? Io, nondimeno, non ti dimenticherò.”

Leggi la prima parte 

Seconda Parte

di Daniela Assunta Zini

Socrate scrive venti o trenta anni dopo gli avvenimenti che riferisce e a una distanza di mille chilometri dal luogo, ma vive nella capitale dell’impero e si può presumere che abbia avuto facile accesso ai documenti della curia.

Narra:

“Vi era ad Alessandria una donna di nome Ipazia. Era la figlia del filosofo Teone, che era pervenuta a un tale grado di cultura da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo, ricevere in eredità l’insegnamento della scuola platonica, derivante da Plotino, dispensare ai suoi uditori i principi della filosofia. Da ogni luogo accorrevano a lei quanti volevano ascoltare le sue lezioni. Confidando sulla padronanza di sé e sulla facilità dei modi, che aveva acquisito, grazie alla sua educazione, sovente appariva in pubblico davanti ai principali cittadini. Né si sentiva mai confusa di trovarsi con uomini. Tutti gli uomini, tenendo in gran conto la sua dignità e la sua virtù, la ammiravano moltissimo.

Fu vittima della gelosia del tempo. Quando, infatti, iniziò a frequentare assiduamente Oreste, si sollevò contro di lei, tra il popolo cristiano, una calunnia, secondo cui sarebbe stata proprio lei a impedire una riconciliazione tra Oreste e il vescovo. In seguito a questo, uomini fanatici, alla testa dei quali si trovava un certo Pietro il lettore, ordirono un complotto contro di lei e la sorpresero mentre rientrava a casa. La trassero fuori della sua lettiga e la portarono nella chiesa chiamata il Caesareum e, qui, le strapparono le vesti di dosso e, poi, le lacerarono le carni con tegole taglienti, finché non esalò l’ultimo respiro. Dopo averlo smembrato, portarono il suo corpo in un luogo chiamato Cinarion e lo bruciarono. Questo fatto non arrecò a Cirillo la minima condanna e neppure alla Chiesa di Alessandria. Ed è certo che nulla è più lontano dallo spirito cristiano che permettere che avvengano massacri, violenze e azioni di tale genere. E ciò accadde nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo anno del consolato di Onorio e il sesto di Teodosio, nel mese di marzo, durante la Quaresima.”

Ipazia è linciata e bruciata, l’8 marzo 415.

Ed è uccisa, una seconda volta, dagli storici cristiani, predominanti dal IV secolo, che finiscono per cancellare le tracce, già limitate e indirette del suo insegnamento.

Lo studioso e scrittore francese Lucien Polastron (1944) sostiene che, insieme alle spoglie della filosofa, siano state bruciate tutte le sue opere: un Commento in tredici volumi all’aritmetica di Diofanto, una edizione delle Tavole astronomiche di Tolomeo e un Commento in otto volumi alle coniche di Apollonio di Pergamo, nel quale Ipazia aveva inserito il Corpus astronomicus, una raccolta, da lei compilata, di tavole astronomiche sui moti celesti. Nel suo Libri al rogo Polastron scrive:

“Allo stesso modo Cirillo fa lapidare la filosofa e algebrista Ipazia unica donna nella storia della matematica greca, mentre stava rientrando da una conferenza tenuta al Museion. Ipazia era donna di grande bellezza, ma virtuosa, a quanto si dice straordinariamente popolare e non cristiana. Venne, quindi, spogliata dalla folla e trascinata in chiesa davanti a Pietro il lettore; poi, tagliata a pezzi con gusci di ostrica e gettata alle fiamme insieme a tutte le sue opere.”

Lucien Polastron, Libri al rogo

Oreste chiederà un’inchiesta, che si risolverà con un nulla di fatto, ma i temuti parabolani, che costituiscono, di fatto, una sorta di milizia privata del vescovo Cirillo, verranno posti sotto l’autorità del prefetto, in seguito a una richiesta della comunità di Alessandria. La vicenda si concluderà con l’ordinanza imperiale del 3 febbraio 418, con la quale i parabolani verranno, di nuovo, affidati al vescovo di Alessandria, che, all’epoca, era ancora Cirillo.

Cirillo è proclamato dottore della Chiesa, nel 1882, da papa Leone XIII. Nel 1944, papa Pio XII, per i 1500 anni della morte di San Cirillo, promulga l’Enciclica Orientalis Ecclesiae, per “esaltare con somme lodi” e “tributare venerazione a San Cirillo”. Il 3 ottobre 2007, durante un’udienza generale, papa Benedetto XVI definisce San Cirillo “un instancabile e fermo testimone” di Gesù Cristo, senza una parola per l’intolleranza brutale, ripetuta e, oserei dire, omicida di questo brillante dignitario della Chiesa. Questa affermazione ci riporta al famoso discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, nel quale il Papa sferra un duro attacco all’islam, e al non meno famoso discorso, a Parigi, tra le splendide mura medievali del Collège des Bernardins, il 12 settembre 2008, ad appena un isolato dalla Sorbonne.

Dopo l’uccisione di Ipazia, che sembra stranamente un’esecuzione in piena regola, i suoi allievi, inquieti, abbandonano la città, si esiliano e partono per la Persia o per l’India. E, così, Alessandria, la “Perla del Mediterraneo”, cessa rapidamente di essere il centro, unanimemente riconosciuto, dell’insegnamento della filosofia e della scienza, lasciando progressivamente il posto a città e a civiltà più accoglienti, più aperte all’immaginazione creatrice e al rigore intellettuale, quali la civiltà bizantina, indiana e cinese.

È il filosofo neoplatonico Damascio il diadoco, quinto successore di Proclo nello scolarcato dell’Accademia di Atene, che per primo, nella Vita di Isidoro, scritta cento anni dopo i fatti, accusa Cirillo del delitto.

“Ipazia nacque ad Alessandria dove fu allevata e istruita. Poiché aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza della matematica e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia.

La donna era solita indossare il mantello del filosofo e andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele o i lavori di qualche altro filosofo per chiunque desiderasse ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica.

Fu giusta e casta e rimase sempre vergine. Lei era così bella e ben fatta che uno dei suoi studenti si innamorò di lei, non fu capace di controllarsi e le mostrò apertamente la sua infatuazione. Alcuni narrano che Ipazia lo avesse guarito dalla sua afflizione con l’aiuto della musica. Ma la storia della musica è inventata. In realtà, lei raffazzonò alcuni stracci, macchiati durante il suo ciclo, e glieli mostrò come segno del suo sporco decadimento e disse:

“Questo è ciò che tu ami, ragazzo, e non è bello!”

A quella vista ripugnante fu così preso da vergogna e da stupore da mutare animo e divenire un uomo migliore.

Tale era Ipazia, così raffinata ed eloquente nel parlare come prudente e civile negli atti. La città intera la amò e la adorò in modo singolare, ma i potenti della città erano invidiosi di lei, cosa che è, sovente, accaduta anche ad Atene. Anche se la filosofa è morta, il suo nome sembra ancora magnifico e venerabile agli uomini che esercitano il potere nello Stato.

Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione, passasse nei pressi della casa di Ipazia e vedesse una moltitudine di persone e di cavalli dinanzi alla sua porta. Alcuni arrivavano, alcuni se ne andavano, altri indugiavano. Quando chiese perché vi fosse una tale ressa e quale fosse il motivo di tutto quel clamore, gli fu risposto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia la filosofa e che questa si apprestava a salutarli. Quando Cirillo lo seppe fu così preso da invidia che iniziò, immediatamente, a progettarne l’assassinio e nella forma più atroce che potesse immaginare.

Quando Ipazia uscì di casa, secondo il suo costume, una folla di uomini spietati e inferociti che non temevano né la punizione divina né la vendetta umana la aggredì e la fece a pezzi, commettendo così un atto oltraggioso e disonorevole contro il proprio Paese di origine.

L’imperatore si adirò e l’avrebbe vendicata se non fosse stato subornato da Edesio. Così l’imperatore ritirò la punizione sopra la sua testa e la sua famiglia, attraverso i suoi discendenti, ne pagò il prezzo. La memoria di questi eventi è, ancora, vivida tra gli alessandrini.”

La bellezza di Ipazia soggiogò i suoi contemporanei e la sua fama si accrebbe al ritmo delle dimostrazioni eloquenti delle sue capacità di analizzare e insegnare. Ma, della bella e affascinante Ipazia, che è vissuta al tempo dell’imperatore d’oriente Arcadio (377-408) e di suo figlio Teodosio II (401-450), non ci è dato sapere, con precisione, il genetliaco, cosa che rende, indiscutibilmente, più enigmatica tutta la leggenda o storia o racconto, che evolve tra una linea di verità e molte incertezze. Si può stabilire una cronologia storica oscillante tra il 350 e il 370. In questo arco di tempo, dunque, dovrebbe aver fatto la sua comparsa terrena la rara ed eccellente creatura il cui nome risuona come Ipazia di Alessandria.

Ipazia riceve una educazione brillante, di cui fa il migliore uso, come ci tramanda suo padre Teone. Nell’intestazione del suo Commento al terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, troviamo scritto:

“Commento di Teone di Alessandria al terzo libro del sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia.”

Di Ipazia non ci è pervenuto alcuno scritto, ma possiamo spigolare qualche aneddoto e dettaglio illuminante della sua vita dall’Epistolario di Sinesio di Cirene (370-413), il più noto dei suoi allievi. Le centocinquantasette Lettere ci permettono, infatti, di analizzare la spiritualità profonda del piccolo cenacolo neoplatonico, che evoca, irresistibilmente, un testo di San Clemente di Alessandria, filosofo cristiano del II secolo:

“Quando io parlo di filosofia, non mi riferisco alla filosofia stoica, né alla filosofia platonica o epicurea o aristotelica, ma a tutto quello che è stato detto di bello in ciascuna di queste scuole, attraverso l’insegnamento della giustizia accompagnato dalla pia scienza. È tutto questo insieme scelto, che io chiamo filosofia.”

San Clemente di Alessandria (150 ca.-215 ca.), Stromata I, 7, 37.

Le Lettere di Sinesio ci permettono, altresì, di identificare gli allievi e di determinarne i legami di parentela, le origini sociali e geografiche e le importanti funzioni ecclesiastiche o imperiali, che molti di loro sarebbero stati chiamati a occupare. Ercoliano e suo fratello Ciro di Panopoli, futuro vescovo di Kotyaion in Frigia; Olimpio, grande proprietario terriero della regione di Seleucia di Pieria, Esichio, Euoptio, fratello di Sinesio, Atanasio, Teodosio e ancora Gaio, Teocteno, Auxentio, e Alessandro – la gioventù dorata di Alessandria, di Costantinopoli, della Cirenaica, dell’Alto Egitto, della Siria, i futuri quadri dell’impero d’oriente – .

Pagano per nascita, Sinesio, nativo della città di Cirene e figlio di una famiglia di proprietari terrieri, diviene, nel 410, vescovo di Tolemaide, l’odierna Tolmeita, in Libia, officio che accetta di malavoglia e non senza una lunga esitazione. È un periodo difficile per il suo paese, poiché tutta la regione della Libia inferiore è invasa da tribù berbere. Ogni ipotesi su Ipazia deve accordarsi con i testi di questo uomo che la conosceva bene e che la lodava per la sua grazia naturale, la sua disponibilità di spirito e la sua gentilezza. Sfortunatamente, Sinesio muore, nel 313, due anni prima del suo assassinio e, dunque, il nostro testimone più importante e più diretto non ha niente da dire sul momento più sconcertante di questa vita: quello della sua morte.

Resta fedele a Ipazia.

Le scrive:

“Credimi, io ti considero, insieme alla virtù, l’unico bene che non mi si possa togliere.”

Sinesio, Lettera LXXXI

E ancora:

“Quand’anche nessun ricordo restasse ai morti negli inferi, anche là io mi ricorderei ancora della mia cara Ipazia; perché io me ne ricordo qui, in mezzo alle miserie della mia patria, schiacciato dalla vista dei disgraziati che soccombono e respirando il fetore dei cadaveri ammonticchiati, nell’attesa di dividere la loro sorte. (Perché chi vi è ancora che possa sperare, se l’aria stessa ci è nemica e oscurata dagli uccelli rapaci che anelano le carogne?) Eppure a questa mia terra sono inchiodato. E come non esserlo, se sono libico e di qui sono i miei avi, di cui vedo le inclite tombe? – Per te sola, credo, dimenticherei la mia patria e, se mai potrò lasciarla, non sarà che per ricongiungermi a te.”

Sinesio, Lettera C XXIV

Nell’ultima Lettera (413), sul letto di morte, ormai, vinto dalla malattia, la chiama madre, sorella, maestra:

“È dal letto nel quale giaccio che detto questa lettera. Possa tu riceverla stando in buona salute, o madre, sorella e maestra, tu che sei la mia benefattrice e meriti da parte mia ogni titolo onorifico! I dispiaceri hanno causato la mia malattia. Il pensiero dei miei figli morti mi colma di dolore. Sinesio avrebbe dovuto prolungare la propria esistenza  fino al giorno in cui ha conosciuto l’afflizione. Come un torrente, a lungo contenuto, la sventura si è abbattuta su di me, di colpo; la mia felicità è svanita. Piaccia a Dio che io cessi di vivere o di ricordare la perdita dei miei figli! Abbi cura di te e saluta da parte  mia i tuoi felici compagni, il venerabile Teocteno, innanzitutto, e il mio caro Atanasio, poi, tutti gli altri. Se il loro numero si è accresciuto di qualche nuovo venuto, che merita il tuo affetto, io devo essergli grato di meritarlo: è mio amico; riceva anche lui i miei saluti. Mi porti ancora qualche interesse? Te ne sono riconoscente, mi hai dimenticato? Io, nondimeno, non ti dimenticherò.”

Sinesio, Lettera CLVII



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