Ipocrisie del Legislatore: Concorso Esterno in Associazione Mafiosa

Creato il 12 marzo 2012 da Postscriptum

Della mia lunga esperienza universitaria – come studente, s’intende – ricordo con grande piacere una lezione (beh, ne ricordo pure un’altra, ma perché la caricatura del prof. di Commerciale mi riuscì particolarmente bene), una delle prime lezioni di Diritto Penale, ad opera del professor Carlo Paterniti, dell’Università di Catania. Uomo di grande cultura e di sottile ironia, polemico di razza, vagamente russelliano e radicale, in quella occasione tenne circa un’ora e mezza di discussione sull’idiozia legislativa di questi ultimi anni, capace di inventarsi anche un “concorso esterno in associazione mafiosa” pur di salvare il salvabile, in qualche modo.

Art. 416-bis.
Associazione di tipo mafioso (1)

La lunghezza stessa dell’articolo in questione è indicativa della deficienza logica o della difficoltà incontrata dal legislatore nel giustificare qualcosa di irreale. Questo, in altre parole, sarebbe un ottimo tema per l’aggiunta di un racconto all’interno della raccolta Ficciones, ma Borges al momento non c’è e la giurisprudenza esige un tipo di letteratura maggiormente scientifica, o almeno così mi insegnano i docenti – non provenienti da Tlön – che in questi anni mi hanno forzosamente trattenuto tra gli iscritti all’ateneo catanese.

Ad ogni modo, Paterniti così scrive, prima sul Concorso in generale e poi su quello esterno in associazione mafiosa:

Si rifletta che le disposizioni sul concorso danno rilievo penale a comportamenti che altrimenti non potrebbero averlo.  … il palo, che passeggia in strada per segnalare l’arrivo della polizia al complice intento a rubare in un appartamento, non realizza un comportamento corrispondente a un tipo di reato. Il comportamento diventa tipico in forza del Concorso. Del quale però non abbiamo i limiti di legge, appunto per la mancanza di regole definitorie. Il campione di tiro che spara e uccide risponde di omicidio. Solo invocando le regole sul Concorso di persone gli si può contestare anche il delitto di associazione mafiosa, se ha agito per stimolo di questa. Ma bisogna capire se è configurabile un concorso in mancanza di un accordo che accomuni le posizioni di mandante e mandatario. Uccidere una persona che non si conosce, e perché? Se si vuole favorire l’associazione restandone fuori, si può agire senza sapere di favorirla e dunque avendone a cuore la sorte? E l’estraneo che agisce una volta a favore dell’associazione, non potrà farlo ancora in avvenire? E se agirà ripetutamente a favore dell’associazione, e dunque con piena consapevolezza di favorirla,  potrà veramente dirsi fuori di essa?

Le “valutazioni extra-giuridiche” che hanno condotto il legislatore a questo distinguo, somigliano molto ad una sorta di atteggiamento del tutto politico risiedente nell’esigenza di non comprendere nel fenomeno mafioso taluni particolari personaggi. La vorremmo tanto chiamare ipocrisia, messa in atto ai fini di salvaguardare il nome di gente influente ed in un certo senso rispettabile, ma non possiamo farlo per ragioni di ordine pubblico.

Tuttavia quella giuridica è una Scienza, non è letteratura fantastica, come le religioni di Tlön; il Diritto Penale poi esige quella chiarezza e quella certezza che talvolta in campo civile può risultare anche “piacevolmente” appannata. La comunità stessa esige (o almeno lo spero) un ben definito procedimento di classificazione che ci consenta di accertare chi partecipi all’associazione mafiosa e chi no.

Paterniti pone in essere l’esempio illuminante del campione di tiro, apertamente rievocando un film di Lattuada, dell’ormai lontanissimo ’62:  Antonio Badalamenti – magnificamente interpretato da Alberto Sordi – è un tranquillo caposquadra di un’industria lombarda, bravo tiratore con la pistola, ligio al dovere, diligente e meticoloso, conduce una vita anonima all’insegna del culto nel lavoro. La sua vita viene sconvolta da un ritorno alla sua Sicilia per le vacanze estive. Nel corso della sua permanenza viene svegliato di notte con la scusa dell’invito per una battuta di caccia. Da quel pretesto ha luogo un incontro con Don Vincenzo – un capomafia – che gli chiede un favore. Il Badalamenti sale su un camion, ivi è rinchiuso in una cassa ed è successivamente spedito negli U.S.A. , per via aerea. Giunto a destinazione, viene edotto sullo scopo reale del suo “viaggio” e cioè eliminare un uomo. Antonio Badalamenti è ormai pienamente coinvolto, così – suo malgrado – dovrà eseguire l’assassinio.

Il titolo del film risponde all’angosciante domanda riguardante l’appartenenza o meno del Badalamenti all’associazione:


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