di Giovanni Agnoloni
Un saggio è sempre un’esperienza complessa. È frutto di conoscenza e di passione. L’opera di Giuseppe Panella e Riccardo Gramantieri riflette entrambe queste valenze e la loro enigmatica combinazione.
Il primo è James Ellroy, la cui stessa biografia (con la morte della madre, assassinata quando lui aveva solo dieci anni) è segnata da una profonda inquietudine complottistica – legata anche ai maestri Dashiell Hammett e Raymond Chandler. “L’America non è mai stata innocente”, scrive in American Tabloid (cit. a pag. 62). Il complotto è però ancor più centrale nell’opera di Thomas Pynchon, che trova in esso la cifra della Storia, come dimostra il suo L’incanto del lotto 49, mentre per Philip Dick il rapporto tra verità e illusione è sostanzialmente una corrispondenza biunivoca, fino a sconfinare della schizofrenia. La realtà stessa, in questo senso, diventa un simulacro, e la memoria un’immagine che si avvicina alla realtà, ma che in effetti la reinterpreta.
Philip Dick (da Wikipedia)
Dai concetti più ampi inerenti alla “cospirazione”, nella seconda parte del libro si passa a un esame delle categorie psicanalitiche della paranoia, ricollegate alla letteratura di Dick e di William Burroughs. Un altro nome analizzato è poi quello di Kathy Acker, autrice punk morta giovane ma protagonista della stagione degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, e che nella parte finale del saggio di Panella e Gramantieri verrà nuovamente presa in considerazione in relazione al tema del complotto contro l’identità, poiché i suoi personaggi cambiano spesso “nome, sesso, specie” (pag. 127).
Più ampio, su scala globale, è l’approccio al complotto di un grande modello della Acker, il già ricordato Burroughs, il cui tema centrale è il controllo, legato principalmente alle droghe, che diventano appunto uno strumento di condizionamento individuale e sociale (si veda il romanzo La scimmia sulla schiena); c’è però anche il sesso, concepito come una martellante ripetizione di amplessi “senza alcuna partecipazione emozionale” (pag. 102), come evidenziato da Il pasto nudo.
Infine, veniamo a Don Delillo e Philip Roth. In loro il complotto si manifesta come una presenza e un agente storico e culturale: lo dimostra la parabola (per quanto riguarda Delillo) che va da Rumore bianco (del 1985) a L’uomo che cade (del 2007). Fattore storico e intimo, il complotto – come Delillo scrive in Libra (1988) – ci lavora dentro ed è “per noi eternamente inaccessibile” (cit. a pag. 145). Tanto che il confine (e qui ritroviamo sonorità dickiane) può spostarsi dall’umano al post-umano, coi criminali androidi.
Ma in fondo è l’America in sé – e così il cerchio del saggio di Panella e Gramantieri si chiude – a essere eternamente nel mirino. Dall’assassinio di J.F. Kennedy alle ombre dietro l’attentato alle Torri Gemelle, è sempre stato così. E allora ecco Philip Roth, con Il complotto contro l’America (2004), in cui (come ne La svastica sul sole di Dick) si ipotizza l’affermazione del nazismo negli USA. Si tratta di un’ucronia e di un processo di ribaltamento paradossale, che ha per protagonista un eroe americano, Charles Lindbergh.
Termina così un percorso affascinante, che non sa tanto di “lezione”, quanto di visita guidata tra i fantasmi spazio-temporali di una delle democrazie e delle culture più importanti e discusse dell’intero pianeta.