Inizia in ¾, a tempo di walzer, questo esordio narrativo di Silvia Obici, ma più che il sontuoso e sereno fluire del Danubio pare a noi una sincopata e perturbante murder ballad. I sognatori, fedeli alla linea, ci hanno donato un'altra delle loro visionarie scorribande narrative e Ipotesi di viaggio trova il suo più appropriato biglietto da visita nella bella copertina di Francesca Santamaria (sue le opere che siglano la veste grafica del catalogo della piccola e pregevole casa editrice di Lecce), dove campeggia un fondo nero come la pece, intenzionato a fagocitare l'intero spazio disponibile, dal quale emergono figure spettrali (un uomo seduto, un bimbo, la sagoma di un gatto) sospese tra una finestra e una porta nella fioca luce bicromatica di un verde livido e di un rosso sangue.
Non è bene svelare molti aspetti dell'intreccio di questo romanzo, che si regge in maniera preponderante sulle attese del lettore, sorprendendolo ad ogni nuovo snodo della narrazione, maltrattandolo, depistandolo, coinvolgendolo in una sorta di gioco a rimpiattino dove l'effetto ludico e magnetico è assicurato. Prendetevi una serata per sprofondare nel sofà, magari sorseggiando birra e piluccando patatine, perché il congegno di Ipotesi di viaggio vi risucchierà e vi incalzerà a macinare pagine per venire a capo della sua matassa ingarbugliata. Un ragazzo si trova a fissare l'insegna di un bar; poi vi entra e dal primo scambio di battute col gestore scopriamo che soffre di vuoti di memoria. Da una settimana non fa che entrare e uscire dal locale e non ricorda nulla, neanche il suo nome. Il barista, invece, sa un po' di cose sul suo conto. C'è qualcosa che non quadra e la situazione si complica quando il protagonista (?) si ritrova con una pistola in mano e uno sconosciuto a terra. Da qui in poi la situazione deraglia; il bar, fuori, sembra circondato da una fitta nebbia – che è un po' il sostrato di tutto il racconto, dal quale affiorano man mano le tessere con le quali i personaggi e chi legge cercano di ricomporre la vicenda – e, rientrando nel locale, un individuo attende nell'ombra, un cellulare in mano.
Viene naturale, sulle prime, ricondurre le situazioni di Ipotesi di viaggio a tanta cinematografia e narrativa, dal geniale Memento di Christopher Nolan a Una pura formalità di Giuseppe Tornatore; dall'enigmatico Mulholland Drive di David Lynch al grottesco ciclo di romanzi La notte del drive-in di Joe Lansdale e ancora i racconti fantastici di Buzzati, le graphic-novel di Tiziano Sclavi e Frank Miller. La Obici metabolizza e rielabora varie suggestioni, cuocendo un minestrone di generi: horror, thriller metafisico, noir; il tutto con un intuito formidabile per la misura e le dosi corrette degli ingredienti. Ad un certo punto ci viene presentata la storia di Roberto Moggia, intento ad espiare le colpe del padre, prematuramente scomparso, impegolatosi in pericolose connivenze con organizzazioni criminali. Roberto viene allevato dagli zii ma il passato incombe su di lui, e pure il suo corredo genetico se si considera la sua propensione per il lato oscuro. Tutto il romanzo, a ben guardare, pencola tra luce e ombra, e Roberto si troverà a fare una scelta in un momento cruciale della sua vita. Prendere una direzione al bivio e pagarne le conseguenze. Al lettore spetta il compito di decifrarne l'evoluzione, mai lineare (con frequenti anticipi e posticipi degli avvenimenti, sorta di flash-back e flash-forward o forse piani di esistenza in universi paralleli).
L'unica cosa certa è che niente è certo di quel che ci viene riferito. Un uomo senza memoria è un uomo senza storia e senza una storia è come non aver mai vissuto. Le prospettive si ribaltano: la visione, il delirio, i sogni prendono il sopravvento. L'inconscio è un calderone ribollente di magma, dove annegare i propri incubi e rimpianti, narcotizzare il dolore o espiarlo attraverso l'analisi dei propri pensieri e del proprio codice morale.
Ipotesi di viaggio diviene una ricognizione nell'inferno personale dei personaggi, tentativo estremo di ricostruzione di un'identità spappolata, viaggio di ipotesi dove ogni approdo è dubbio – ammesso e non concesso che il moto abbia mai avuto inizio e non ci si sia arrestati in un eterno, immutabile anello temporale dove alfa e omega, morte e vita si rincorrono senza posa e senza apparente significato. I toni cupi, l'atmosfera greve e claustrofobica che si respira in questo libro riverberano pagine kafkiane; gli intermezzi di outing di Roberto (o di altri per lui) sono ben miscelati e talvolta pericolosamente in bilico sulla caduta di tensione narrativa per il voler riferire informazioni sulle dinamiche mentali e sentimentali di chi interviene nei dialoghi. Ma la Obici cade sempre in piedi, assemblando episodi in cui sinistri burocrati decidono se le anime perse hanno o meno referenze tali da renderle “idonee” ad un livello successivo di consapevolezza; dove paradossali maschere discettano sui massimi sistemi, indirizzando i clienti a prendere posto in inquietanti multisala dove possono assistere alla proiezione della propria esistenza. Violenza, assassinio, vendetta, immagini cruente, l'atrocità incolpevole del mondo infantile, la sordida e deliberata prevaricazione dell'uomo sull'uomo, la perdita di sé delimitano l'orizzonte crepuscolare di questa prima e ben riuscita prova di Silvia Obici, servita da una scrittura immaginifica ed inesorabile che va dritta al dunque come un siluro di profondità. Leggere per credere.