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di Giovanni Inzerillo
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Dopo vent’anni dalla prima biografia pubblicata per i tipi della Camunia col sottotitolo Orfeo tra gli Argonauti e in occasione dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, Paolo Ruffilli, sempre più affascinato dalla prosa, torna a scrivere su Ippolito Nievo, la cui controversa figura di eroe della storia e di letterato continua ad affascinare e far discutere. Ruffilli, che già nel 1991 aveva quindi tracciato una breve ma ricca biografia dell’eroe garibaldino morto nemmeno trentenne, corredata inoltre da un’appendice critica dei lavori letterari di Nievo, dai più ai meno noti (a parte le celebri Confessioni, si ricordano pure Antiafrodisiaco per l’amor platonico, Angelo di bontà, Il conte pecoraio – solo per citare alcuni romanzi), torna a insistere su un personaggio e su un periodo storico a lui caro come testimoniano, dello stesso autore, le curatele alle Confessioni e a un’antologia di scrittori garibaldini.
La vicenda è ambientata nel 1861 ma già il titolo, L’isola e il sogno, pone una significativa questione: è davvero Nievo l’argomento del romanzo? Sarebbe quasi impossibile asserire il contrario essendo lui l’indiscusso protagonista della vicenda narrata ma sarebbe altrettanto facile confutare leggendo già le prime pagine in cui il nome di Palermo irrompe prepotentemente e assorbe nei suoi incantevoli scenari e per mezzo delle parole di chi l’ha già vista, come Alexandre Dumas, qualsiasi traccia delle vicende allora in corso. È facile intuire, allora, come la scrittura di Ruffilli, non più biografica ma romanzesca, abbia significativamente mutato il suo punto di vista prospettico. Dalla storia si passa all’altrettanto ricca geografia, alle immagini dei luoghi che, insieme ai personaggi lì presenti, pongono i presupposti e le condizioni di tutte le vicende umane. Sarebbe mai possibile immaginarsi oggi Goethe senza l’Italia, Wagner senza Venezia, Napoleone senza Waterloo, Nievo senza la Sicilia? Lo si potrebbe pur fare ma, probabilmente, la storia senza geografia risulterebbe priva di spessore, non del tutto compiuta in se stessa. Non è la storia, dunque, la vera traccia compositiva del romanzo né, tanto meno, le vicende garibaldine appena accennate, il cui sviluppo si percepisce quasi in sordina. L’approdo all’isola e a Palermo è la metafora di un viaggio esistenziale (mi viene subito da pensare, seppur con la dovuta cautela, al capolavoro di Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia) e non certo un episodio di portata storica; esso rappresenta, per lo stesso Nievo, la scoperta della sua più segreta natura e non si risolve, semplicisticamente, nella «delicata missione di raccogliere i documenti e le carte a garanzia del governo garibaldino in Sicilia».
Del resto, scrive Ruffilli, «l’occupazione principale era l’amore, dentro Palermo: e si passava gran parte del tempo a tessere le trame che avevano come obiettivo la soddisfazione dei propri desideri e come molla la passione».
Agli occhi di Nievo, giunto persino controvoglia, già dinnanzi al porto si presenta la «scoperta di una città impensata», il «miracolo tanto più grande perché sottolineato dai colori accesi e dai sapori forti di una terra di cui alla fine, dopo il terrore della guerra, anche i garibaldini si stavano accorgendo».
Palermo, la «bella cortigiana» concessasi facilmente a tutti i dominatori del momento, sempre capace di non subirne fino in fondo l’oppressione ma di conquistare, con la sua inaudita e incantevole bellezza, i loro cuori e le loro menti, ancora da lontano accarezza il cuore di Ippolito che «già lo sapeva, di esserne in gran parte prigioniero». E lo affascinano non soltanto i colori, i profumi, le architetture e i magnifici resti del passato, ma persino i siciliani «popolo che è stato sempre sottomesso, reso scettico dalla sua stessa storia» che in loro incarnano, come ancora oggi, le più incredibili contraddizioni:
«Però, che gente! Sarà la colpa dei borboni o del diavolo, magari, ma non si può campare un giorno in Sicilia senza mandare a quel paese la razza umana e chi gli rassomiglia! […] I siciliani, credete a me, hanno nel sangue la passione della comparsa e del tumulto, ma i disagi e i pericoli li trovano assai meno pronti delle parate e delle feste.»
La missione garibaldina di Nievo si trasforma presto in una sorta di viaggio di benessere e di piacere, di scoperta di sé:
«Ebbe un fremito di gioia. Dunque era vero che, alla sola vista di Palermo, si dimenticavano le nostalgie, i dubbi, tutti i fastidi … Gli tornarono di nuovo in mente le parole di Alexandre Dumas: «Palermo è un termine: è la primavera, dopo l’inverno. È il riposo dopo la fatica. È il giorno dopo la notte, l’ombra dopo il sole, l’oasi nel deserto. […] Doveva prenderla come una vacanza inaspettata, un’avventura imprevedibile e felice. La città gli si offriva come amante un’altra volta. Era già stata in grado di conquistarlo sottraendolo all’obbligo di ufficio. Le giornate sarebbero state insopportabili senza Palermo. […] E la città gli dava forza, così da farlo rinascere ogni volta.»
Palermo, in tutta la sua devastante e devastata bellezza, allo sguardo di chi la ammira si erge in tutta la sua incantevole magnificenza:
«A ragione, nei miti, se la figuravano i greci seduta trionfante sul trono come Afrodite. […] «Se esiste una città nel mondo che può riunire tutte le prerogative della felicità, questa è Palermo», aveva sentenziato Dumas col tono perentorio del viaggiatore sicuro di comprendere nel più profondo i luoghi in cui approdava. «Il posto dove sorge è magico e incantato. E ha ereditato i suoi palazzi dai mori saraceni, le chiese dai normanni, le feste poi dagli spagnoli. Diventata poetica come una sultana, graziosa come una francese e appassionata come un’andalusa. Per questo il suo benessere le arriva per direttissima da Dio e, agli uomini, è impossibile distruggerlo. I romani l’hanno occupata, i saraceni conquistata, i normanni posseduta, gli spagnoli attraversata, e a suoi diversi dominatori del momento, diventati suoi amanti fatalmente con il tempo, sorrideva con lo stesso identico sorriso. Cortigiana consumata, non ha avuto mai nient’altra forza o risorsa che la sua continua voluttà. Preparatevi perciò, anche voi garibaldini, a subirne le lusinghe». E la bella cortigiana aveva continuato a esercitare le lusinghe.»
Così Ippolito trascorre le sue giornate tra strade e caffè affollati, feste religiose e profane, visita luoghi incantevoli come la Cattedrale, il Duomo di Monreale e il Parco della Favorita e gode dei sollazzi delle donne del luogo. La bellissima Palmira si impossessa del cuore del garibaldino che, pur tormentato dai sensi di colpa nel tradire la sua amata ma lontana Bice, non riesce in alcun modo a rinunciare alle tentazioni di un amore irrimediabilmente intenso seppur destinato a finire:
«Nel suo abbandono tuttavia, la novità era il malessere pungente del non provare più il senso di colpa che aveva sentito le altre volte nei confronti della sua cara Bice. Anche se a dirgli che avrebbe lui dovuto, prima o poi, affiancare all’amata un’amante di sostegno era stata proprio Bice. E, a rendere più acuta la puntura, la beatitudine felice che stava lì provando per la prima volta con Palmira. Senza l’amaro che veniva dal soddisfare solo il bisogno di quella cosa che gli tornava in mente col nome buffo di fisiologia. […] Fuori dalla portata vincolante che credeva avesse Bice su di lui in esclusiva. E, intanto, già avvertiva di non essere più schiavo dell’incubo dei sensi da cui si risvegliava prima con fastidio costretto con se stesso alla bugia. […] «Non c’è altro modo di corrispondere di quello che ti ha coinvolto prima qui con me. E ci si unisce, Ippolito, per separarsi… »»
Il romanzo “geografico” di Ruffilli si presenta, inoltre, come un romanzo antropologico. Lo scrittore insiste sui comportamenti degli stessi siciliani, sulle radici più profonde delle loro regole sociali e comportamentali (ad esempio, i tavolini dei bar che invadono le strade; la distinzione, nient’affatto marcata, tra il mondo dei vivi e quello dei morti) e non solo. Traspare pure un intimo ritratto di Nievo ridimensionato da eroe alla più semplice ma profonda natura di uomo avvinto dalle provocazioni dell’amore, tormentato dal fascino per le donne oggetto dei suoi opposti desideri, ossessionato da dubbi e sensi di colpa, miraggi e sogni impossibili, come il «sacrilegio letterario» delle Confessioni. Suggestive, per la loro toccante liricità, le figure della madre e del nonno Carlo Marin, persone assai importanti per la formazione del giovane Ippolito. Con la madre, ad esempio, intrattiene un breve ma intenso dialogo sulla ragione della vita, sulle illusioni proprie della giovinezza, sulla necessità di agire e sui miraggi della letteratura:
«Ma le illusioni, mamma, sono spesso la ragione stessa della vita». «Illusioni?», lo aveva guardato lei, «Aspirazioni, vorrai dire. Sogni, ideali. Ma, nel tuo caso, si tratta di un inganno, Ippolito». «Perché inganno, poi?», aveva chiesto quasi in singhiozzo. «Il miraggio, sì, di vivere per qualcun altro… per qualcosa che non può avere seguito, lo sai». «Non penso al seguito». « E fai male. Perché una vita insieme deve poter contare sulla prosecuzione». […] «Dici che a qualche anno da qui mi pentirò di aver sciupato il capitale di questa giovinezza?», aveva riso. «Lo credo anch’io. Solo, pensando al tempo e alle ragioni per cui l’ho sperperato, mi sentirò meno colpevole che se lo avessi fatto fruttare, come tanti altri stanno facendo».
Il viaggio di scoperta e di riflessione si trasforma poi, per il tramite di un recupero memoriale, in ricordo e cambia le sue direzioni proprio alla fine del romanzo. In procinto di lasciare la Sicilia e di tornare a casa, poco prima del suo ultimo viaggio in mare, quasi presagendo il triste destino che di lì a poco lo avrebbe atteso, la memoria lo porta da sud a nord, in Friuli, tra i suoi ricordi d’infanzia, ai «confini del mondo» che lo ha allevato. Lo scenario muta improvvisamente. Il mare e i colori accesi della Sicilia lasciano spazio a montagne e praterie, a squarci di piazze e castelli, ad un luogo silenzioso e, nella sua intima essenza, diametralmente opposto al meridione:
«Il Friuli ha il potere e la virtù di allargarmi la vista ai confini del mondo. Ed ecco che ti senti tutt’uno con il cielo e con l’erba dei prati. Le cose diventano innocenti agli occhi di chi cancella il proprio io…» […] «è là che esiste il luogo», stava pensando. «Un posto dove la vita sia sempre senza fretta e inutile agitarsi. Senza che si debba fare chissà cosa…»
Non mi dispiace affatto, dopo anni di studio rivolto alla sua poesia, accostarmi alla prosa di Ruffilli, così sintatticamente perfetta, così poeticamente musicale. Dopo i racconti, Preparativi per la partenza (2003) e Un’altra vita (2010) (ricordo in particolar modo la prima raccolta come un lavoro assai ben riuscito), il primo romanzo di Ruffilli non tradisce le ben più rosee aspettative per quell’eleganza stilistica, per quella perfezione sintattica, per quella così naturale musicalità che ad oggi è difficilissimo riscontrare tra gli scrittori esclusivamente in prosa.
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