di Luca Vasconi
“You are welcome to Iran”.
Questa breve frase, pronunciata da un poliziotto all’aeroporto internazionale Imam Khomeini di Teheran, sancì il mio sospirato ingresso nella Repubblica Islamica.
Arrivai in piena notte, nel novembre 2010, con un volo Iran Air proveniente da Bangkok. Scesi dall’aereo con ansia mista a eccitazione, sprovvisto di visto, con la viva speranza di poterlo ottenere in aeroporto. Sapevo di questa possibilità dai racconti di un paio di giramondo, veterani di viaggi zaino in spalla, incontrati nel corso del mio lungo viaggio in Asia.
All’ambasciata iraniana di Bangkok la simpatia non era di casa: si prospettavano tempi biblici per il normale iter burocratico che mi avrebbe garantito un visto. Decisi di giocare la carta un po’ folle dell’arrivo “a sorpresa”. Una scelta, per il mio carattere, piuttosto inconsueta. Non certo il primo azzardo della mia vita, ma sicuramente il primo in campo burocratico, un ambito nel quale sono solitamente ligio.
Il fatto che Matteo, un amico fotografo incontrato in Cina, fosse riuscito a entrare in Iran in questo modo un mese prima, senza particolari difficoltà, avallando le teorie dei giramondo, mi confortava. Anche se, ne ero ben consapevole, in caso di problemi, una frase del tipo “perché il mio amico Matteo sì e io no ?” avrebbe potuto forse commuovere una benevola maestra ai tempi delle scuole elementari, non certo un severo poliziotto della Repubblica Islamica dell’Iran.
La consegna del passaporto, due lunghe ore in attesa di un lasciapassare, poi, secco come un colpo di mannaia, il duro responso: visto negato. Il mio viaggio nell’antica Persia finiva lì, ancor prima di cominciare.
Poche ore trascorse su un aereo della compagnia di bandiera iraniana, le fredde luci al neon di una sala d’attesa d’aeroporto, in compagnia di un indiano silenzioso e di un “simpatico” connazionale, il cui ottimistico mantra rimbombò nelle mi orecchie, per due ore filate: “scordati il visto, non l’avremo mai, ne sono certo”. Parole incoraggianti, dopo mesi che non ascoltavo parlare nella mia lingua.
Questi pochi, tristi ricordi dell’Iran erano tutto ciò che avrei potuto raccontare.
Un aereo mi aspettava, a distanza di poche ore, per portarmi in Turchia, a Istanbul.
Una fucilata precisa, a spezzare le ali dei miei sogni.
In ogni caso sono fortunato, l’affascinante Istanbul mi attende, mica la galera; a volte le sconfitte vanno accettate, pensai.
“Hai visto, avevo ragione io, te l’avevo detto”, “me lo sentivo” la puntuale, graditissima sentenza definitiva di Mr. Ottimismo, seduto al mio fianco. “Sarà così anche per me”.
Parole irritanti, che ebbero il grande merito di darmi una scossa. Quasi più per una sfida personale al suo pessimismo che per reale convinzione di poter cambiare una decisione che sembrava già presa, mi avvicinai a un poliziotto appena uscito dal piccolo ufficio in cui si decideva la sorte dei viaggiatori. Un saluto, una stretta di mano, una sola, piccola, gentile, richiesta: potrei, per favore, entrare cinque minuti a spiegare la mia situazione ?
Un “entri” inaspettato, una sincera chiacchierata, neppure così spiacevole (i poliziotti alle frontiere non sono solitamente i miei interlocutori preferiti) che si concluse una ventina di minuti dopo, con un sorriso e il mio primo “You are welcome to Iran”, una frase che sentirò poi altre centinaia di volte nel corso del mio viaggio in Iran.
Un piccolo, meraviglioso adesivo verde trovò posto sul mio passaporto, a pagina trentasette: un visto provvisorio di quindici giorni, facilmente estendibile per altri quindici, o forse più.
“ Non l’avrei proprio detto, deve essere per la tua barba lunga, un po’ islamica ”, le ultime parole del mio connazionale, pronunciate tra l’ironico, l’invidioso e l’astioso.
Bye bye Mr. Ottimismo in viaggio di affari! E grazie di cuore! Non so se tu sia riuscito a entrare nel paese oppure no. So che senza di te, il tuo pessimismo storico oltreché, secondo la tua teoria, senza la mia barba islamica, che tu hai contribuito ad allungare in maniera decisiva nelle ore dell’attesa, tanti magnifici ricordi, probabilmente, non sarebbero oggi scolpiti nella mia memoria.
Gli affascinanti contrasti della caotica capitale Teheran; la meravigliosa Isfahan, definita da un adagio cinquecentesco, per la sua abbagliante bellezza, la “metà del mondo”; la città vecchia di Yazd, con le sue case tradizionali costruite con un impasto di argilla, sabbia e paglia; la millenaria città antica di Persepolis, capitale dell’Impero Achemenide; l’incredibile gioco di luce all’interno della Moschea Nasir Ol Molk nella città di Shiraz; le città di Sanandaj e Marivan, nel Kurdistan iraniano, fuori dalle rotte turistiche; il villaggio di Kandovan, le sue casette incastonate tra le montagne che ne giustificano la fama di “piccola Cappadocia”; il biblico monte Ararat, alla frontiera tra Iran e Turchia; i colori e l’energia dei bazar, gli storici hamam, gli antichi caravanserragli, i cui muri trasudano storia.
Il popolo iraniano, senza ombra di dubbio, il più ospitale mai incontrato in vita mia. Non basterebbero le pagine di un libro intero, un tomo di quelli spessi, per elencare gli atti di gentilezza nei miei confronti.
L’idea che in occidente si ha di paesi come l’Iran si presta, a mio parere, a forti equivoci. I nostri media ci trasmettono solamente immagini e notizie negative: dittatura religiosa, masse inferocite che bruciano bandiere americane, la minaccia di una possibile bomba atomica in mano al regime, donne soggiogate, terrificanti immagini di esecuzioni in piazza.
Questo “bombardamento mediatico” fa pensare a molta gente che la popolazione del paese sia per lo più composta da pericolosi terroristi, da fanatici religiosi che odiano gli occidentali e tutto ciò che l’occidente rappresenta .
Le facce stupite, gli sguardi perplessi, di molte persone di fronte ai miei racconti sui miei rapporti con gli iraniani lo testimoniano. Troppo stridente il contrasto con l’immaginario che ne abbiamo. Non così semplice, immediata e naturale, come in fondo dovrebbero essere, la netta distinzione tra il regime iraniano e la popolazione del paese, che di esso, semmai, è vittima.
Nel corso del mese passato in Iran centinaia di temibili “integralisti dell’accoglienza”, “fanatici dell’ospitalità”, con le loro distruttive “armi di accoglimento di massa” sono riusciti a destabilizzarmi, fisicamente e psicologicamente: costante minaccia di offerte di cay ( tè); insidiosi pic nic in compagnia, con rischio di pericolose indigestioni; stress psicofisico dovuto a troppi inviti; shock da eccesso di calore umano; pericolose notti passate in case altrui; feroci sorrisi; venditori kamikaze che alla domanda “quanto fa?” ribattevano con un letale “ is free, my friend, you are welcome to Iran”,”è gratis, amico mio, sei benvenuto in Iran”, sacrificando il loro guadagno per far esplodere il piacere dell’ospite.
Confesso che, seppur avvezzo ai viaggi, al contatto con culture diverse, questi “talebani dell’ospitalità”, con i loro sguardi e sorrisi accoglienti, capaci di abbattere le distanze culturali, mi hanno spiazzato.
Spesso mi chiedo come un ipotetico, sconosciuto iraniano, nella mia stessa condizione,con la mia identica maniera di porsi verso il “diverso” in visita nel nostro paese o in altri paesi occidentali, sarebbe accolto. La risposta che si palesa nella mia mente, mi imbarazza.
I grandi contrasti presenti nella società iraniana mi hanno fortemente colpito.
Donne provenienti da famiglie e ambienti conservatori, avvolte nel tradizionale chador nero, si mescolano ad altre che indossano lo jiab, il foulard che copre i capelli obbligatorio per legge, in maniera tale da mostrare parte dell’acconciatura, in aperta sfida al regime e ai guardiani della morale presenti, in borghese, nelle strade del paese. Molte ragazze si truccano vistosamente, indossano scarpe con il tacco, abiti dai colori sgargianti. I negozi di biancheria intima, soprattutto nella capitale Teheran, abbondano di capi super sexy.
Studenti e giovani appartenenti alla buona borghesia della capitale si ritrovano in case private, al riparo dal Grande Fratello del regime dando vita alle celebri “feste di Teheran Nord”, dove sesso, droga, alcol e rock and roll la fanno da padrone. Feste al cui confronto, le nostre, sembrano noiose riunioni di educande.
Le operazioni di chirurgia estetica sono molto in voga tra le persone benestanti, la rinoplastica è una vera e propria moda. Nei quartieri e negli ambienti della ” Teheran bene” è un tripudio di nasi rifatti e di cerotti post-operazione.
Il paese in cui i gay, perseguitati dalla legge e braccati dalla polizia di regime, sono obbligati a nascondere la loro omosessualità, un reato che prevede l’impiccagione, sta diventando il nuovo Eldorado per le operazioni di cambio di sesso, consentite dalla legge. Teheran è la nuova Casablanca.
Alcol e droghe sono facilmente reperibili al mercato nero. Un paio di volte, gironzolando tra i banchi di frutta e verdura, mi è stato chiesto se, tra una mela e una pera, gradivo una bottiglia di whisky.
Internet è censurato, ma il modo per eludere la censura, volendo, si trova sempre. I ragazzi del posto sanno come fare.
Nei luoghi pubblici è vietata la musica, a patto che non sia musica tradizionale iraniana. Proibiti i locali da ballo. Ma i giovani citano a memoria le canzoni “peccaminose e anti-educative” dei loro idoli provenienti dall’occidente.
Tutto è proibito, ma tutto si può fare, in Iran. Se si è disposti a correre il rischio.
Ho sentito varie critiche al regime da parte di numerose persone con cui ho parlato. Quasi tutte rivolte, per la verità, all’allora presidente Mahmud Ahmadinejad, quasi mai nei confronti della “Guida Suprema”, colui che realmente detiene il potere nel paese: l’ayatollah Ali Khamenei. Ancora non mi è ben chiaro se per questioni di “rispetto religioso” o per paura.
Pochi mesi prima del mio arrivo nel “regno degli ayatollah” il movimento della “Rivoluzione Verde”, nato sull’onda delle proteste per i brogli elettorali che consentirono la rielezione a presidente di Ahmadinejad , fu represso con violenza dal regime, con l’ausilio del Basij, una organizzazione paramilitare sottoposta al corpo dei Pasdaran, i guardiani della rivoluzione islamica.
La principale minaccia interna al regime è rappresentata dall’età media della popolazione: il settanta per cento della popolazione iraniana ha meno di trent’ anni. I giovani sono tanti, pieni di energia, vogliono prendersi il futuro. Gli ayatollah lo sanno, e ne hanno paura.
Uno di questi giovani, Farid, un ragazzo di venticinque anni, dopo una piacevole serata ospite a casa sua nel corso della quale, scherzando con i suoi amici, mi tempestò di domande sulle abitudini sessuali delle ragazze italiane e delle donne occidentali che tanto gli piacevano, sull’incredibile fortuna di poter disporre di cinema a luci rosse (una notizia che lo lasciò basito!) e di internet senza censura sui siti porno, mi diede un passaggio in macchina fino al mio hotel.
Ti confesso il mio sogno, mi disse prima di salutarmi: “Io, un giorno, aprirò una discoteca a Teheran, per soli uomini”.
“Perché ridi?” chiese un po’ stizzito, vedendo la mia spontanea reazione all’idea non proprio entusiasmante della discoteca “il canneto”, un “paradiso del testosterone” nel cuore di Teheran.
“Guarda che sono serio, lo so che è difficile, ma se solo potessi riuscire a parlare direttamente con Khamenei, potrei anche riuscire a convincerlo…”
Hai ragione tu, caro Farid, stupido io a non aver capito subito che aprire una discoteca in Iran sarebbe già una piccola rivoluzione. La presenza di un Dj che diffonde “ musica di Satana”, un piccolo miracolo. Per un ragazzo iraniano come te, nato dopo il 1979, poter addirittura immaginare di riuscire a fare entrare anche le donne, un’ utopia.
La speranza è che la mia spontanea, stupida risata, possa far scoccare in te una scintilla capace di incendiare il sogno di milioni di giovani iraniani. Voglio che siate voi, non le solite “bombe intelligenti esportatrici di democrazia” lanciate da paesi stranieri, a far collassare il regime.
La tua discoteca pullulerà di gente libera e felice, la tua musica rimbomberà in tutto il paese e le splendide ragazze iraniane balleranno a ritmi scatenati, mostrando, se lo vorranno, le loro sciolte chiome…
Te lo auguro di cuore, Farid! : qui il reportage fotografico