Irène Némirovsky: femme célèber dimenticata e riscoperta
Creato il 08 aprile 2014 da Lucia Savoia
Nata a Kiev nel 1903, fuggita in Francia dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1918 al seguito del padre, ricco banchiere ebreo e della madre, donna fatua ed arrivista, Irène Némirovsky iniziò a scrivere all’età di 18 anni. Un’asimmetria, quella della coppia genitoriale, segnerà indelebilmente la produzione della scrittrice; da una parte il padre, amato ma troppo spesso lontano, sempre a caccia di ricchezze e beni da accumulare, dall’altra la madre, volgare parvenue nonché nemica e rivale.
Proprio la madre che rifiuta di confrontarsi con la figlia per timore che questa oscuri la sua avvenenza e la figlia che la ricambia, non per odio ma perché spinta dagli eventi ad un desiderio di vendetta, costituiscono un motivo ricorrente nelle narrazioni della scrittrice. In Jezabel (il cui titolo fa riferimento alla lussuriosa moglie del re biblico Achab) la protagonista presenta non pochi tratti della madre di Irène; la bella donna che ne Il vino della solitudine sfoglia riviste a tavola e che trascura la sua bambina assomiglia in maniera impressionante a quella Fanny Némirovsky che rese la vita della figlia un museo di anaffettività.
Ma è soprattutto ne Il ballo che ritroviamo l’ambiguità che caratterizza il rapporto di Irène con la madre; quel sorriso malizioso, lo spregevole scherzo andato a buon fine e le parole pronunciate dalla figlia nei confronti dell’arida genitrice sono un emblema di quella relazione che per Irène non prevede reciprocità e condivisione ma solo rivalità, concorrenza: “povera mamma…” ripeteva Antoinette con dolcezza, “Povera mamma”…mentre una stava per spiccare il volo, l’altra sprofondava nell’ombra. Ma anche il padre, amato ma isolato e lontano perché dedito alla fortuna, spinto dalla bramosia di denaro, succube di una moglie vacua diviene il modello per molti dei personaggi maschili che pullulano le pagine della Némirovsky: Il David Golder del primo romanzo, gli zii de I cani e i lupi, l’arrendevole Mr. Kampf de Il ballo.La (sua) storia familiare, le vicende storiche e l’invenzione letteraria si fondono e quasi confondono nelle sue narrazioni, nella sua scrittura che incredibilmente sembra farsi da sé. L’autrice è in grado di scrutare dall’alto, imperturbabile, quella passività e ristrettezza di vedute, quel cinismo di chi sa volgere a proprio vantaggio anche le tragedie altrui, la cupidigia che spesso sottosta all’inevitabile vortice degli eventi.Ebrea apolide, nonostante i tentativi ripetuti di mascherarlo, Irène Némirovsky tratteggia in maniera cruda e a volte spietata i personaggi di fede ebraica. Questi sono addirittura riconoscibili da alcune fattezze e tratti distintivi se non caricaturali e stereotipati; mani ad artiglio pronte ad afferrare il denaro (del resto da sempre, nella Spagna della Reconquista come nella Roma della Controriforma fino ad arrivare all’abominevole regime nazi-fascista, l’immagine di ebrei come usurai incalliti è ricorrente), corpi sempre in movimento pronti a scattare furtivi per accaparrarsi ogni possibile vantaggio. Gli ebrei tratteggiati dalla scrittrice non sono una comunità unita dalla religione, anzi, l’unico Dio che sembrano riconoscere è il Dio Denaro. È chiaro che, oggi nessuno sognerebbe di tratteggiare personaggi di questo tipo, e la stessa Nèmirovsky è più volte stata accusata di “antisemitismo” o perlomeno di essere “un’ebrea che odia sé stessa”. Tali accuse l’hanno perseguitata tanto quanto il regime nazista che la deportò ad Auschwitz nel 1942. La figlia Elisabeth nell’ “Autobiografia”immagina che la madre, durante l’occupazione e la permanenza nel campo di concentramento, si sia pentita di aver dipinto ritratti tanto odiosi quali quello di David Golder o del padre di Antoinette ne Il ballo e la stessa autrice in un ‘intervista del 1935 dichiarò che “se Hitler fosse stato già al potere avrei notevolmente ammorbidito David Golder ma questa sarebbe stata un’ingiusta debolezza per un vero scrittore”. La Nemirovsky difese le sue scelte perché desunte da situazioni vissute con persone realmente così arcigne e malevole e sarebbe del tutto fuorviante accusarla di aver prestato il fianco o meglio la penna al regime hitleriano; lei non fa altro che scavare dentro gli altri e dentro sé stessa, senza nascondersi e non risparmiando nulla ed è stato proprio questo a turbare le anime di coloro che, volendo mantenersi “politically correct”, son stati lo stesso sedotti da questa scrittura coinvolgente ma in grado anche di sconvolgere.
La morte ad Auschwitz nel 1942 a soli 39 anni, risuccherà in un vortice d’oblio e d’ombra la sua figura ed il suo talento per uscirne solo sessant’anni dopo, grazie all’azione delle figlie Denise e Elisabeth, grandi custodi dei tesori materni. Nel 2004 la pubblicazione del romanzo inedito Suite Francese per quale ha ricevuto postumo il Prix Renaudot ha dato il via ad una clamorosa e fortunata riscoperta. In Italia la casa editrice Adelphi, e subito dopo la Newton Compton , hanno avviato la pubblicazione della sua opera, ricca di testi che inducono ad un tipo di lettura divorante e divoratrice: provare per credere.
Articolo originale di Sentieri letterari.
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