Irvine Beshof, questo era il suo nome all’anagrafe.
Trentasette rispettabili anni, trascorsi senza grosse difficoltà, senza troppi dissapori, senza particolari gioie, scivolati come una piccola quantità di feci giù per lo scarico, insomma. E neanche troppo odorose.
Era cresciuto in una piccola cittadina dell’entroterra, con dei grossi e smisurati parcheggi, sapete. Con dei viali lunghi, costellati di una manciata di case dall’aspetto ordinato. Una noia mortale. Irvine da piccolo odiava giocare a biglie nel prato con i suoi amici, per la paura incontenibile di sporcarle, e nel peggiore dei casi, di perderle. Si limitava a tirarle fuori dal sacchetto di velluto rosso, di tanto in tanto. E le guardava, le riguardava, se le rigirava tra le mani. Ammirava la luce filtrare attraverso di queste, e insinuarsi tra le loro forme interne più strane e colorate. E quelle di madreperla poi, un tesoro. Le più belle.
Il reverendo Clothe, in quel maledetto giorno di pioggia, chiuse il suo piccolo libro nero, tra le sue mani infreddolite. “Amen”. Si fece il segno della croce , seguito da una scarsa manciata di avventori, avvolti nei loro cappotti di panno e chiusi nelle loro espressioni indifferenti, miscelate ad un velo di tristezza imposta dal caso. Una dopo l’altra le zolle di terra si accumulavano sulla cassa di legno umido di pioggia, e il marrone scuro, lasciava spazio al nero, adesso. Neanche un briciolo di differenza ora, tra la fossa e il resto del prato. Un linea continua. Interrotta solo da una piccola pietra incisa a mano.
“Qui riposa Irvine Beshof, morto nel fiore degli anni . R.i.p”
Gli astanti, preceduti dal reverendo, si diressero a passo sempre più svelto verso le automobili parcheggiate poco più avanti. E quando anche l’ultima Renault verde scuro fu scomparsa oltre il viale, quasi correndo libera e frettolosa, una figura femminile sbucò dall’entrata posteriore del cimitero.
Un segno della croce, davanti a quella pietra.
Dei capelli neri bagnati, inzuppati, grondanti.
Un impermeabile troppo lungo.
Sparì nel grigio di Ottobre anche lei.
Ora una busta bianca giaceva per terra, sulla terra di Irvine. La pioggia, sempre più forte.
Era la fine degli anni 70 anche in quel paese di provincia. Erano anni che non aspettavano nessuno, anni che mangiavano il tempo. Anni che scopavano fino a notte fonda, mentre i decenni precedenti, morigerati nelle stanze confinanti, bussavano infastiditi sul muro, implorando di far più piano, e di smetterla con il trambusto. Erano tempi che correvano per aria come uno sputo lanciato verso il vuoto, senza la più pallida idea di quale sfortunato viso, cadendo, andassero a colpire in pieno. Tempi colorati, tempi di corpi svestiti, tempi di musica suonata come in un immenso baccanale di luci e capelli cotonati. Hendrix che riposava ormai da un po’ all’ombra della sua chitarra bruciata. Lennon sparito tra le pagine del Giovane Holden. Morrison sbranato dalle avide fauci di teenager in cerca di aforismi. I figli neonati e prematuri di una mamma troppo giovane che divorano con ingordigia e indifferenza la loro stessa madre. Da far gelare il sangue ad un antropologo.
E il tempo, lì davanti, immobile. Che accoglie tra le sue braccia questi nuovi attori di un cinema senza fondamenta, queste nuove leve, di un esercito mal cementato, mal forgiato. Ma chissenefrega, insomma. Sono pur sempre gli anni 70.
“Scendi da questa diavolo di macchina Irvine! E’tardi per dio.” Irvine scrutava il suo viso riflesso nel vetro anteriore della Ford nuova di zecca, mentre puntava i piedi contro lo sportello.
“ Io non scendo. Ti avevo avvertito.”
Derek Beshof, il padre, dall’alto del suo metro e ottanta, lo prese con la sua mano enorme e lo tirò giù dalla macchina.
Allora Irvine tentò disperatamente di rientrare nella vettura, ma era troppo tardi.
“Io non ci vado in quella scuola. Non ci vado.”
“Irvine ne abbiamo già parlato. Hai sei anni e devi andare a scuola. Vedrai che troverai tanti amici lì dentro.”
Si aggrappò alla giacca del padre, quasi a volerlo portare dentro con sé. Dopo qualche secondo però, capì che non c’era alternativa. Con la testa bassa, la cartella di cuoio marrone tra le mani, salì le scale dell’istituto, ripensando al vestito a fiori della mamma. E a quant’è buona la crostata con la marmellata al mattino. Un bidello con l’uniforme sporca di grasso spinse la porta pesante dietro di lui, e lo saluto con un mugugno incomprensibile.